Francesco dopo Francesco: storia

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Insieme ai nostri lettori e lettrici, ci siamo confrontati per due giorni presso la comunità dehoniana di Albino (25-26 ottobre 2024) su quale sia l’anima e il cuore del pontificato di Francesco (cf. SettimanaNewsqui). Per ampliare e approfondire il dialogo condiviso pubblichiamo i testi degli interventi tenuti nel corso della due giorni. Dopo la meditazione della nostra redattrice suor Elsa Antoniazzi (qui), le relazioni di Vincenzo Rosito (qui), Anita Prati (qui), e Francesco Sisci (qui), pubblichiamo quella di Daniele Menozzi, emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, che offre uno sguardo storico sul pontificato di Francesco.

Il governo di papa Francesco, iniziato nel marzo 2013, ha inciso profondamente sul volto della Chiesa cattolica. Alla vigilia del suo 88° compleanno (è nato il 17 dicembre 1936) si moltiplicano le voci sugli esiti di un futuro conclave. Mi pare sia dunque opportuno chiedersi quale sia l’eredità che Bergoglio consegnerà al suo successore.

Cerco di affrontare il problema, gettando uno sguardo storico sul pontificato. Articolo il discorso in due punti. In primo luogo mi propongo di collocare la sua linea nella dinamica storica che si è aperta nella Chiesa a seguito del Concilio Vaticano II; mi soffermo poi su alcuni punti specifici che il pontefice argentino ha posto al centro del suo indirizzo di governo. Infine, avanzo qualche rapida osservazione conclusiva.

1. Francesco nella Chiesa post-conciliare

La questione centrale che il Vaticano II, secondo il programma indicato da Giovanni XXIII, intendeva affrontare era costituito dall’aggiornamento ecclesiale. Si trattava di superare le difficoltà di comunicare il messaggio cristiano all’uomo moderno, che, avanzando una pretesa di autodeterminazione, si era sottratto alla direzione della Chiesa in ogni espressione, individuale e collettiva, della vita.

Occorreva trovare una modalità di formulazione dell’insegnamento cattolico che, senza toccare la sostanza della fede, fosse in grado di raggiungere un mondo moderno i cui riferimenti socio-culturali erano del tutto mutati rispetto a un passato dove la fede cristiana era stata tranquillamente accettata.

Su questa impostazione convergeva un’ampia maggioranza di padri conciliari: solo lo sparuto gruppo dei tradizionalisti riteneva che, per risolvere il problema, non si doveva rinnovare la presentazione dell’annuncio cristiano, bensì ribadire con maggior rigidità gli schemi ereditati dalla lettura della Controriforma operata dalla cultura intransigente otto-novecentesca. Ma, in ragione dei diversi orientamenti presenti tra gli innovatori, nei documenti finali l’aggiornamento assume connotazioni diverse. Semplificando, due orientamenti appaiono significativi.

Autonomia e segni dei tempi

Una prima concezione, più ampia e sviluppata, ricorda che la Chiesa doveva riconoscere, diversamente da quanto aveva fatto in passato, che l’uomo godeva di autonomia nei vari campi in cui si esplicava la sua attività: la scienza, la cultura, la politica e persino la religione (il diritto alla libertà religiosa è garantito dalla dichiarazione Dignitatis humanae). Tuttavia tale indipendenza aveva dei limiti: la costituzione Gaudium et spes specificava infatti che si trattava di una «iusta autonomia». Quando l’agire degli uomini toccava la sfera morale, spettava infatti alla Chiesa stabilire le regole cui essi dovevano attenersi perché il loro comportamento fosse eticamente lecito.

Una seconda posizione, pur espressa in maniera frammentaria, propone invece che la Chiesa, per dialogare efficacemente con l’uomo moderno, si metta a scrutare i segni dei tempi. L’indicazione assume un duplice valore.

Da un lato, occorre verificare la persistenza nel mondo moderno di valori evangelici, in modo che su questo terreno si possa costruire l’incontro con gli uomini d’oggi. Ad esempio, nell’enciclica Pacem in terris li si identifica nell’aspirazione alla pace, alla costruzione di una società fraterna, all’emancipazione delle donne e dei lavoratori.

Dall’altro lato, si tratta di imparare dalla storia una lettura del Vangelo in grado di restituirne quel senso profondo e autentico che, nel corso del tempo, i condizionamenti culturali e sociali avevano impedito di decifrare pienamente.

Non c’è bisogno di ricordare che quest’ultima prospettiva non implicava – come talora venne ad essa rimproverato – alcuna omologazione del cristianesimo al mondo. Mirava infatti a uno scrutinio della storia sia per cogliervi la presenza di valori evangelici, sia per liberare l’interpretazione della Scrittura dalle incrostazioni che ne avevano distorto il significato. L’obiettivo era pastorale: il recupero del volto assegnato alla Chiesa dal fondatore avrebbe reso possibile il suo incontro con l’uomo moderno.

Nei primi anni del pontificato di Paolo VI questi due orientamenti convivono. Ne è espressione il discorso di chiusura dell’assemblea conciliare.

Da un lato, il papa afferma che la religione del Dio che si è fatto uomo non intende condannare, come pure avrebbe potuto fare, quella modernità caratterizzata dalla religione dell’uomo che si fa Dio. Elabora, invece, un umanesimo cristiano che, fornendo i parametri all’interno dei quali l’autonomia del soggetto si coniuga con il rispetto della trascendente dignità della persona, rappresenta il terreno di convergenza di tutti coloro che hanno a cuore l’autentica promozione umana. In quest’ottica la Chiesa, pur riconoscendo che la libertà è elemento costitutivo della persona, si riserva di definirne quel corretto esercizio che non va a detrimento di una dignità di cui è sicura garanzia la sola accettazione del suo fondamento trascendente.

Dall’altro lato, però, Montini sostiene anche che, nei confronti dell’uomo moderno, la Chiesa assume l’atteggiamento di cui il buon samaritano è figura esemplare: si piega ad ascoltarne difficoltà e miserie, senza alcuna pretesa di prescrivere regole di convivenza sociale, civile o politica, ma nel solo intento di sovvenire ai suoi bisogni.

Legge naturale e valori non negoziabili

Nel 1968 una svolta interviene nell’insegnamento papale. Ne è testimonianza emblematica l’enciclica Humanae vitae. Alla base della specifica decisione presa in merito alla contraccezione sta una rivendicazione generale: la Chiesa, custode e interprete della legge naturale, posta dal Creatore a reggere l’universo, indica le norme morali valide sempre, ovunque e per tutti. Esse definiscono i limiti oltre i quali non si può spingere l’autonomia dell’uomo nel disciplinare i comportamenti, individuali e collettivi.

Alla misericordiosa cura delle ferite che si producono nel cammino storico liberamente scelto dagli uomini si sostituisce ormai la sola indicazione di un invalicabile confine per ogni loro scelta: la legge naturale.

Da questo momento in poi il magistero papale adotta la linea secondo cui la presenza della Chiesa nella società contemporanea si caratterizza per la specificazione dei vincoli posti dalla legge naturale alla ricerca di autodeterminazione del soggetto.

I successori di Paolo VI ne allargano la portata. Infatti, mentre Montini l’aveva applicata all’ambito sessuale, matrimoniale e familiare, i papi successivi ne estendono la ricaduta a tutti gli ambiti della vita collettiva.

Si arriva così, con Benedetto XVI, al punto di legare l’impegno politico dei cattolici alla traduzione nella legislazione civile di quel pacchetto di valori – proclamati “non negoziabili” – che non riguardano solo il campo della bioetica, ma anche l’educazione, la scuola, l’economia, la giustizia… Non a caso si è definito questo disegno come un progetto di neo-cristianità.

Evidente è il ritorno a schemi precedenti a Giovanni XXIII e al Vaticano II. L’aggiornamento ecclesiale aveva infatti radice nella difficoltà di prospettare il ritorno ad un regime di cristianità – cioè un assetto del consorzio civile di cui la Chiesa stabiliva le regole fondamentali – ad un uomo moderno che individuava nella rivendicazione di autonomia il suo tratto identitario. Tuttavia, questo nuovo disegno di costruzione di un ordine cristiano della vita collettiva non costituiva un tradimento del Concilio, come si affermò in alcuni ambienti ecclesiali.

Rappresentava, in realtà, una forma di aggiornamento del rapporto tra Chiesa e mondo. Il papato, diversamente dal passato, proclamava che vi erano ambiti in cui occorreva riconoscere l’indipendenza dell’uomo nell’organizzare le realtà terrestri. Ne è significativa espressione il positivo atteggiamento verso i diritti umani, a partire dal diritto alla libertà religiosa, che erano stati, prima della Pacem in terris, osteggiati dal magistero. Ora la Chiesa si poneva, anche sulla scena politica internazionale, come paladina dei diritti fondamentali della persona.

Al contempo, sosteneva però di essere l’unica autorità in grado di definirne l’autentica tavola. Esclusiva depositaria della retta interpretazione della legge naturale, solo la Chiesa poteva stabilire quali tra i diritti umani – cui gli uomini nel corso della storia avevano via via attribuito valore universale – fossero veramente meritevoli di un tale riconoscimento e quindi potessero trovare concreta tutela giuridica nelle legislazioni civili.

La parabola del pontificato di Benedetto XVI, che era stato il più tenace e conseguente interprete di questo disegno, ne rivela l’insormontabile difficoltà. Le sue dimissioni, dettate dalla consapevolezza dell’impossibilità di governare la Chiesa, testimoniano di fatto l’impraticabilità di una linea che, nata per costruire un terreno d’incontro e di dialogo con l’uomo moderno, finiva invece per alimentare un suo ulteriore allontanamento dal cristianesimo. In effetti, si scontrava con uno dei punti più sensibili della sua identità: il rifiuto di ogni forma di etero-direzione.

Cambio di paradigma

Lo conferma, del resto, l’elezione di papa Francesco. Il nuovo pontefice ha infatti preso atto che non facilita il dialogo con gli uomini d’oggi una Chiesa guidata dalla primaria preoccupazione di definire gli spazi entro cui si colloca la liceità morale dei loro comportamenti. Per restituire ad essa una capacità di comunicare il Vangelo al mondo contemporaneo, occorre battere una strada diversa.

Bergoglio la identifica in una ripresa di quella concezione dell’aggiornamento ecclesiale che, presente nei documenti del Concilio Vaticano II, era stata trascurata dai pontefici post-conciliari: occorre che la Chiesa si immerga nella storia e dalla storia impari una migliore intelligenza del Vangelo.

Non a caso il richiamo alla figura del buon samaritano – emersa, come si ricorderà, nel discorso conclusivo di Paolo VI all’assise ecumenica – costituisce una delle immagini cui più frequentemente il papa argentino fa ricorso per indicare la modalità con cui i credenti si possono inserire nell’odierna realtà.

La Chiesa non si propone interventi volti a prescrivere i limiti dell’autodeterminazione degli uomini, ma nel pieno rispetto delle scelte da essi compiute, intende contribuire a sanare le ferite che nascono dal loro peregrinare nella storia.

La misericordia, la tenerezza, il perdono, la fratellanza sono gli aspetti del messaggio cristiano attraverso i quali si può trasmettere il Vangelo a una modernità che, nel frattempo, ha assunto forme assai più radicali di quelle con cui si era confrontato il Concilio.

Nell’ottica del papa ciò non vuol dire abbandonare i valori non negoziabili, la legge naturale, l’indicazione di norme etiche vincolanti. Ma questi elementi sono collocati all’interno di una scala gerarchica di criteri orientativi per l’apostolato, in cui al primo posto viene posto il Vangelo.

Tocca ai credenti, attraverso la loro concreta testimonianza di vita, palesare il pieno rispetto delle dottrine elaborate dalla Chiesa. Nel loro rapporto con gli altri uomini, cui occorre mostrare la capacità del messaggio cristiano di rendere migliore il consorzio civile, si tratta piuttosto di sostenerli, alla luce del Vangelo della misericordia, nella faticosa, contradditoria e spesso dolorosa ricerca del bene comune che autonomamente essi perseguono.

2. Tre temi programmatici

La prospettiva di Francesco – riallacciarsi all’interpretazione dell’aggiornamento conciliare, che, incentrata sullo scrutinio del rapporto tra Vangelo e storia, era stata trascurata dal papato post-conciliare – si sostanzia poi di contenuti concreti e precisi. Bergoglio ha promulgato molteplici misure in relazione alle questioni che via via poneva il governo della Chiesa universale. Non si può certo darne conto in maniera completa.

Mi limito, dunque, a considerare tre temi che lui stesso ha ritenuto significativi per il suo programma. Li ricavo da un’intervista rilasciata ai giornalisti poco dopo l’elezione.

Nel rispondere alla domanda relativa alla scelta del nome, il pontefice spiegava che, al momento dell’elezione, un cardinale amico gli aveva suggerito di ricordarsi dei poveri una volta asceso al soglio di Pietro. Aderendo a questa sollecitazione, aveva pensato che, oltre alla povertà, due altri gravi problemi angustiavano gli abitanti del pianeta: le guerre e la crisi ecologica. Nel suo cuore era così sgorgato spontaneamente il richiamo a Francesco d’Assisi. Questi, come dichiarò nell’occasione, «è per me l’uomo della povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e rispetta il creato».

Non interessa qui discutere la corrispondenza di questa immagine del santo con la sua effettiva realtà storica. Vale invece la pena notare che ad una figura, fissata nell’immaginario collettivo come interprete del Vangelo sine glossa, veniva affidata l’espressione esemplare di quei valori ritenuti idonei a restituire alla Chiesa la capacità di comunicare il messaggio cristiano all’uomo d’oggi. Immergendosi nella storia, essa scopriva che appartenevano al deposito della Scrittura modalità di presenza nella società in grado di sovvenire a urgenti bisogni contemporanei: l’impegno per la costruzione di una pacifica convivenza fra i popoli; un atteggiamento verso la povertà basato sulla condivisione; l’impulso alla tutela dell’ambiente.

Cerco di ricostruire, sinteticamente, il modo in cui ciascuno di tali temi è stato affrontato in questi undici anni di pontificato. Solo alla sua conclusione sarà possibile tracciarne un compiuto bilancio, misurando così l’effettiva efficacia della linea adottata da Francesco nel rilanciare la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo. Intanto, si può provvisoriamente coglierne alcuni tratti più evidenti.

Pace

Comincio dalla pace, vista la drammatica attualità della questione.

Nel messaggio per la 50ª Giornata mondiale della pace 2017, Francesco osservava che, per un credente che volesse essere coerente con il Vangelo, l’impegno per realizzare un ordine pacifico della vita internazionale si basava sulla pratica della non-violenza attiva. Il Vangelo non chiede infatti di accettare il male, ma di combatterlo senza ricorrere ai suoi strumenti: esige insomma di spezzare il circolo vizioso della violenza.

Questa indicazione, che rappresentava un superamento della dottrina della guerra giusta, cui la Chiesa cattolica, con numerosi aggiustamenti, si era attenuta per tutto il corso dell’età costantiniana, è stata messa a dura prova sia dall’aggressione della Federazione russa all’Ucraina, sia dall’attacco del terrorismo islamista allo Stato israeliano.

Di fronte a queste violazioni del diritto era possibile negare la liceità del ricorso alle armi per legittima difesa? Larghi settori del mondo cattolico – e la stessa diplomazia vaticana – hanno immediatamente ripreso la tesi che, davanti al manifestarsi del male, è moralmente lecito impedirne il successo ricorrendo agli strumenti della violenza, sia pure usati con il criterio della proporzionalità.

Bergoglio ha dovuto prenderne atto. Del resto, allo stato attuale, la pratica della non-violenza attiva non ha raggiunto un grado di elaborazione e di diffusione tale da renderla una via efficace di opposizione al trionfo di un’ingiustizia sostenuta dalla forza militare.

Dopo qualche incertezza, il papa ha così ribadito la validità dell’uso delle armi per legittima difesa. Non si è però adagiato sulla mera riproposizione della dottrina della guerra giusta. Nel suo insegnamento ha fatto ripetutamente riferimento al valore evangelico di comportamenti non-violenti tenuti sia da cattolici, come il contadino austriaco antinazista Franz Jägerstätter, sia da non cattolici, come Gandhi, Martin Luther King e Leymal Ghowee. Ma non si è limitato a ricordare l’esemplarità dei testimoni novecenteschi della non-violenza, ha anche sollecitato ad un approfondimento della teologia della guerra giusta.

Sembra possibile cogliere il significato di questo appello nell’incoraggiamento alla fondazione di un Istituto cattolico per la non-violenza che è stato recentemente costituito all’interno di Pax Christi.

Si può ritenere che, nella visione del papa, l’impegno della Chiesa nell’elaborazione di una pedagogia della pace passi ormai per un’adeguata formazione a quelle tecniche che, rendendo la non-violenza un atteggiamento in grado di opporsi efficacemente ad un male che si vorrebbe imporre con le armi, consentono di togliere alla dottrina della guerra giusta uno dei suoi fondamenti etici (la necessità di impedire la vittoria dell’ingiustizia).

Rispondendo ad un giornalista che gli chiedeva se avesse intenzione di emanare un’enciclica sulla non-violenza, Francesco l’ha rinviata al suo successore. Si trattava, con tutta evidenza, di una battuta; ma che la questione costituisca un’indubbia eredità con cui il prossimo pontefice dovrà misurarsi lo mostra la recente lettera pastorale collettiva dell’episcopato tedesco.

Il documento, mettendo sullo stesso piano la teologia della guerra giusta con quella della non-violenza, sollecita i rispettivi sostenitori ad un costruttivo dialogo intra-ecclesiale in vista della determinazione della posizione di volta in volta più rispondente alla comunicazione del Vangelo agli uomini che vivono in un tempo e in uno spazio determinati.

Ecologia

La seconda questione cui rinvia la scelta del nome Francesco riguarda l’atteggiamento della Chiesa verso l’ecologia.

Il pontefice argentino ha innovato rispetto ai due immediati predecessori, che non avevano trascurato il tema, ma lo avevano inquadrato all’interno della dottrina sociale cattolica. Nella loro visione, la costruzione di una società cristiana si traduceva di per sé in un ordinamento della vita collettiva rispettoso dell’ambiente.

Bergoglio si rivolge, invece, a tutti gli uomini di buona volontà perché, discutendo collegialmente le proposte formulate in materia (tra cui, ovviamente, quelle avanzate dai cattolici), trovino insieme le soluzioni più idonee ad un problema che riguarda tutti gli abitanti del pianeta.

In questa prospettiva, il ruolo specifico della Chiesa non consiste tanto nell’individuazione delle più appropriate scelte tecniche, ma nell’alimentare la speranza che questo difficile tornante nella vita del pianeta può essere superato attraverso la condivisione delle conoscenze e il confronto sulle vie da percorrere.

Ma l’apporto più specifico di Bergoglio in questa ambito mi pare risieda altrove. Come è noto, il movimento ecologista nasce sulla base dell’individuazione di uno stretto rapporto tra la cultura giudeo-cristiana e quell’antropocentrismo che è all’origine di un rapporto distorto con la natura: la Scrittura viene presentata come la matrice di quell’atteggiamento culturale, imperniato sul dominio e lo sfruttamento della terra, che ha prodotto il disastro ambientale.

Francesco ha cercato di correggere questa concezione, sforzandosi di ricordare come, dai testi vetero-testamentari, emerga anche la tendenza ad affidare all’uomo la cura e il rispetto dell’ambiente.

Merita indubbio apprezzamento l’impegno papale a togliere una base scritturistica all’“antropocentrismo deviato” responsabile dei danni ecologici all’intero pianeta. Tuttavia, il suo tentativo ancora non fa pienamente i conti con il contesto geo-storico-culturale in cui la Bibbia venne redatta e con i condizionamenti che ne derivano nella stesura dei testi che oggi leggiamo. Ad esempio, appare evidente che buona parte di quei documenti risentono di una percezione della natura intesa come potente forza nemica dalla quale gli uomini sono in primo luogo chiamati a difendersi.

Il papa apre, insomma, in relazione all’ambiente, una questione che può anche avere ricadute più ampie: la decifrazione delle incrostazioni culturali che hanno inciso su un’intelligenza della Scrittura da cui sono derivati rilevanti modelli di comportamento per i credenti e per il mondo.

Si tratta qui di un argomento che il pontificato di Francesco ha avuto il coraggio di porre, senza farsi frenare dalle sedimentazioni memoriali dell’integrismo cattolico che lo caratterizzavano come un tratto specifico dell’eresia modernista; ma la questione, troppo rapidamente trattata, appare bisognosa di più approfonditi sviluppi. Anche in questo caso siamo davanti ad una tematica consegnata al successore.

Poveri

Il terzo dei punti qui considerati del programma papale – indirizzare l’atteggiamento ecclesiale verso la povertà alla condivisione con i poveri – ha il suo fondamento in quel passo della Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa approvata nel 1964 dal Concilio Vaticano II, in cui si ricordava che l’esempio di Gesù, povero e sofferente, implicava non solo che la Chiesa si prendesse particolare cura dei poveri, ma anche che assume la povertà come via per comunicare il Vangelo agli uomini.

Nel corso del post-concilio questa prospettiva ha trovato una sintetica forma di presentazione nella formula “opzione preferenziale per i poveri”. In realtà, l’analisi della sua presenza nel magistero evidenzia che tale elaborazione è frutto di una sconfessione della proposta proveniente dalla teologia della liberazione latino-americana. Manifestare una scelta privilegiata a favore dei poveri voleva in effetti dire che si respingeva un nucleo centrale della concezione ecclesiologica da essa elaborata: assumere pienamente le loro istanze. Significava, insomma, mantenere quell’alterità tra Chiesa e poveri che i teologi della liberazione miravano a cancellare.

Francesco ha posto fine a questo uso del sintagma in chiave contrappositiva. Non ha abbandonato il ricorso all’espressione, anzi l’ha ripresa in diverse occasioni; ma ne ha risemantizzato il significato, privando il rapporto tra Chiesa e poveri di quella distanza che essa mirava a mantenere. Basta a questo proposito ricordare una delle più incisive frasi espresse da Bergoglio all’inizio del pontificato: «come vorrei una Chiesa povera e per i poveri».

La prospettiva di assumere la povertà come segno e come forma della Chiesa ha ovviamente numerose implicazioni, a partire da quelle economiche. Ne è un esempio il problema di conciliare l’evidente necessità di mezzi materiali per condurre l’apostolato con l’esigenza di condividere la condizione dei poveri.

Qui mi soffermo, tuttavia, su un diverso aspetto che mi pare abbia assunto un rilievo particolare nel governo di Francesco. Il pontefice ha infatti presentato l’abbandono del clericalismo – cioè la trasformazione del potere in servizio nello svolgimento delle funzioni ministeriali all’interno della comunità ecclesiale – come una delle vie con cui recuperare quella condizione di povertà voluta dal fondatore per la Chiesa.

Questa linea si è tradotta in interventi diretti a promuovere la presenza di laici nel governo dell’istituzione ecclesiastica, favorendone, ad esempio, l’accesso a ruoli significativi all’interno dei dicasteri curiali.

Al contempo, però, tali misure sono state accompagnate da dinieghi per l’espletamento di funzioni sacramentali: non solo si è registrata una chiusura al ministero ordinato di donne e uomini sposati, ma si è anche espresso un rigetto di quel diaconato femminile che appare ormai un’acquisizione ovvia alla luce degli studi storici e teologici. Francesco ha comunque evitato di dotare le sue decisioni del carattere di definitività, cui hanno fatto appello suoi predecessori poco consapevoli della complessità della bimillenaria storia cristiana. In tal modo, resta aperto in questo campo uno spazio per aggiustamenti e riforme.

3. Osservazioni conclusive

Uno sguardo storico sul pontificato di Francesco – che dall’adozione di una linea generale ha cercato di vederne la concreta applicazione in alcuni significativi punti programmatici – mi pare possa portare a identificare alcuni tratti essenziali della sua ripresa della prospettiva conciliare diretta a un aggiornamento ecclesiale imperniato sullo scrutinio dei segni dei tempi.

In primo luogo, si tratta di un recupero realistico. Il papa mi sembra consapevole che l’eredità dei pontificati che avevano ritenuto di ridare slancio alla Chiesa attraverso un ammodernamento circoscritto dal richiamo alla legge naturale è ancora ben presente e operante all’interno della comunità ecclesiale. La proposta di restituire primazia al Vangelo della misericordia richiede, quindi, una trasformazione graduale di mentalità sedimentate in mezzo secolo di storia.

In secondo luogo, il rilancio, pur effettivo, è espresso in modi cauti. Credo che, in questa prudenza, si trovi la ragione per cui indicazioni innovative vengono spesso disseminate in interviste giornalistiche. È vero che, in queste occasioni la mancanza di una piena padronanza linguistica dell’italiano non ha mancato di portare il papa a incidenti e scivoloni, ma è anche vero che la scelta della comunicazione colloquiale e spontanea, anziché giuridica o normativa, favorisce una discussione che è la condizione di un più profondo discernimento.

Infine, la ripresa è dinamica. Fin dall’inizio il pontefice, proclamando che il tempo è superiore allo spazio, si proponeva di avviare dei processi. Si può dire che il suo pontificato non solo ha promosso all’interno della comunità ecclesiale un dibattito su temi cruciali per la presenza della Chiesa nel mondo contemporaneo, ma ha anche lasciato libertà alla discussione, intervenendo con misure censorie solo in alcuni casi di aperto, pubblico e mediaticamente clamoroso rifiuto del Vaticano II.

Forse sta qui il segno più significativo del pontificato: la convinzione che, lasciando operare lo Spirito Santo nel popolo di Dio, la Chiesa può trovare la strada idonea a portare il Vangelo agli uomini di oggi.

 

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