Il 12 maggio è stato presentato alla Commissione degli affari esteri dell’Assemblea nazionale francese il rapporto di Michel Fanget sulla diplomazia vaticana in relazione a quella d’Oltralpe. Per l’occasione ha preso parola anche il nunzio, mons. Celestino Migliore, che ha sintetizzato in pochi paragrafi l’indirizzo diplomatico di papa Francesco. Riprendiamo la parte più specifica del testo in una nostra traduzione.
Il “la” della diplomazia pontificia è dato dal pontefice in carica. Conseguentemente, se vogliamo indicare i fondamenti della diplomazia della Santa Sede in questo momento preciso della storia, dobbiamo riferirci ai principi che ispirano l’azione di papa Francesco, agli orientamenti che ne derivano e che trasmette ai suoi collaboratori impegnati a vari livelli nell’attività diplomatica.
Papa Francesco ha ridefinito le priorità della Chiesa dentro i soprassalti di un mondo in piena ebollizione.
Come papa Giovanni Paolo II aveva smontato la domanda sarcastica di Stalin «quante divisioni ha il papa?», alimentando la caduta del comunismo, così papa Francesco smentisce l’idea di Bismarck secondo la quale non si può governare, né amministrare o commerciare sulla base del discorso delle Beatitudini, in particolare quella sulla misericordia. In una parola, con la fede.
Stalin e Bismarck
Dall’inizio del suo pontificato, papa Francesco ha chiarito certi punti della sua agenda internazionale: agire prioritariamente in favore dei poveri, denunciando la «cultura dello scarto», operare per la pace, guarire le divisioni nel mondo cristiano e nell’ambito interreligioso, proteggere l’ambiente. Non è una novità assoluta nella tradizione della diplomazia pontificia, ma si tratta di un nuovo stile e di un nuovo coinvolgimento.
Convinto che il dialogo e la preghiera sono strumenti efficaci, anzi indispensabili, ha conferito alla diplomazia della Santa Sede una posizione propria e originale rispetto alla diplomazia mondiale.
Lo si è visto nelle veglie di preghiera e digiuno, organizzate per evitare un conflitto mondiale sulla questione della Siria e nella convocazione dei dirigenti dello stato d’Israele e di Palestina per pregare nei giardini del Vaticano. La prima iniziativa ha incoraggiato il ritiro delle armi chimiche da parte della Siria con l’aiuto della diplomazia internazionale piuttosto che attraverso un intervento armato. La seconda ha riaperto la porta al sogno della pace, oscurato per molto tempo.
Papa Francesco ha dato nuovo soffio e credibilità per affrontare la questione della povertà, dell’esclusione e dell’indifferenza davanti alla vita grama di due terzi dell’umanità. Ha effettuato il suo primo viaggio in Italia a Lampedusa per esprimere la sua vicinanza e il suo sostegno ai rifugiati e attirare l’attenzione sul traffico di persone umane e sulla cultura ormai globalizzata dell’indifferenza.
In Messico ha voluto celebrare una messa alla frontiera con gli Stati Uniti, luogo simbolo delle migrazioni drammatiche verso l’America del Nord. Ha visitato l’isola di Lesbo per incontrare le folle dei rifugiati, per sensibilizzare le Chiese al fenomeno che assume proporzioni enormi e incitare i governi ad adottare misure adeguate.
Spessore critico e fiducia nel dialogo
La sua prospettiva di fede motiva e giustifica una grande capacità critica di fronte a situazioni di ingiustizia e gli permette di essere più incisivo nell’articolazione della dottrina sociale della Chiesa. Ai responsabili dell’economia e della finanza mondiale ha espresso in molte occasioni una critica severa al paradigma tecnocratico dominante, che indica come «globalizzazione dell’indifferenza», e al fenomeno degradante della corruzione.
La fede che ispira e giustifica la sua azione permette di ridare spazio all’etica e abilita a liberarsi del «pensiero unico» dell’ideologia. In tale maniera l’etica ritorna a informare le attività umane, modificando la maniera in cui tali attività sono esercitate, non intervenendo solo successivamente, sperando in una generosa redistribuzione dei profitti ottenuti.
Lo spessore critico del pensiero sociale cristiano del papa è strutturale, penetra nella sostanza delle cose e delle relazioni sistemiche. Pretende che l’economia sia buona nel suo funzionamento, e cioè nelle relazioni umane che essa induce.
Le risposte alle sue sortite nel contesto diplomatico non sono sempre, anzi raramente, all’altezza delle sue convinzioni, all’esempio che dà, agli appelli e ammonimenti che lancia. Anche questa assenza di impatto immediato sulla sorte del mondo fa parte della diplomazia di papa Francesco, che un vaticanista ha definito come «la diplomazia degli impossibili».
Ha mantenuto a tutti i costi la promessa del suo recente viaggio apostolico in Iraq. Una visita qualificata da tutti come storica per il suo valore e le sue promesse in ragione dell’incontro, della coabitazione e della collaborazione fra le differenti religioni e culture.
Papa Francesco si iscrive nella continuità dei suoi predecessori, pur incarnando una volontà esplicita di cambiamento, andando più avanti nel dialogo con i musulmani. Ha anzitutto fatto convergere le relazioni con l’islam sulla libertà religiosa sotto la forma della reciprocità. Noi, come cristiani, permettiamo a voi musulmani di venire nei nostri paesi e di pregare liberamente. Perché voi non fate la stessa cosa con noi?
Inoltre in papa Francesco c’è il desiderio di capire l’estremismo religioso in tutte le sue forme e in tutte le religioni. Questo disturba talora alcuni cattolici: che il papa punti il dito non solo sul fondamentalismo islamico, ma anche denunci certi fondamentalismi nell’ambito cristiano e cattolico.
Su questo punto compie un’operazione molto utile, perché sottolinea che il nemico non è l’islam, ma il fondamentalismo. E il fondamentalismo è una debolezza presente in tutte le religioni: è dunque qualcosa che dobbiamo combattere assieme.
Infine, papa Francesco è convinto che non sono il conflitto, le polemiche o la lotta che possono cambiare le nostre relazioni, ma la persuasione, il calore umano, l’incontro e la comprensione reciproca.
- Mons. Celestino Migliore è nunzio apostolico in Francia.