Papa Francesco parla spesso delle periferie del mondo. Il suo viaggio in Mongolia, tuttavia, ci pone dinanzi alla domanda: cos’è il “centro”? Cos’è la “periferia”? Come è noto, Ulan Bator funge quasi da cuscinetto fra due imperi: quello russo e quello cinese.
Lo stesso nome della capitale – Ulan Bator, appunto, l’Eroe rosso – è un omaggio al popolare leader comunista che seguì l’esempio dei soviet, nei primi anni Venti.
E ancor oggi lo Stato, non a caso denuclearizzato, si muove in un equilibrio non sempre facile tra i due giganti: il vecchio orso ferito e la superpotenza che contende il primato agli Usa. Per certi versi, verrebbe da dire: altro che periferie!
Naturalmente si tratta di una realtà lontana dal nostro orizzonte visivo, anche dal punto di vista religioso. A conferma dei limiti della prospettiva eurocentrica e, nello stesso tempo, delle formidabili intuizioni del Concilio Vaticano II.
Il caso della Mongolia e, più in generale, del lontano oriente parrebbe confermare, in definitiva, il movimento colto a suo tempo da Michel Foucault: più che novità in senso assoluto, accade che, nei decenni o nei secoli, ciò che era al margine tende a portarsi al centro e, viceversa, ciò che era al centro viene sospinto ai margini. Incessantemente, come una fatica di Sisifo collettiva e di lunga durata.
Quella realtà estesa e periferica – periferica rispetto anche a Mosca e a Pechino, che tanto hanno influito sul nostro Novecento e che rappresentano ancor oggi, anzi: oggi più che mai degli snodi decisivi della storia – sta assumendo una sua centralità.
E la visita del vescovo di Roma, di quell’uomo che viene dall’altro capo del globo, dall’Occidente estremo e, insieme, dal profondo Sud del pianeta, sancisce anche un momento decisivo per la chiesa di Roma, facendo quasi da pendant al viaggio a Lisbona. Lì le folle, i grandi numeri, così importanti nel cristianesimo cattolico; qui appena più di un migliaio di fedeli. Ancor meno di quei luterani di Groenlandia ai quali faceva cenno un saggio dello storico e teologo valdese Paolo Ricca.
La Chiesa, secondo me, fa conoscere Gesù mediante la testimonianza non attraverso le prediche o i bei discorsi. Per cui i testimoni devono immergersi fra la gente.