Quando l’attitudine alla profezia si coniuga con l’intelligenza «politica», anche le parole non espresse esercitano una profonda risonanza nell’animo degli interlocutori. È proprio questo il caso di papa Francesco e del suo «non detto» in occasione della pubblicazione del dossier del mons. Carlo Maria Viganò.
Ancora in aereo, di ritorno dal viaggio in Irlanda, poche ore dopo la pubblicazione del documento a firma Viganò, papa Francesco, rivolgendosi ai giornalisti, afferma testualmente: «Leggete voi, attentamente, il comunicato e fate il vostro giudizio. Io non dirò una parola su questo. Credo che il comunicato parla da sé stesso, e voi avete la capacità giornalistica sufficiente per trarre le conclusioni. È un atto di fiducia: quando sarà passato un po’ di tempo e voi avete tratto le conclusioni, forse io parlerò. Ma vorrei che la vostra maturità professionale faccia questo lavoro: vi farà bene, davvero. Va bene così».
Queste parole, formulate a caldo, sono apparse, a molti osservatori della prima ora, fredde e inadeguate, se commisurate alla virulenza delle accuse rivolte a Francesco e la conseguente richiesta di dimissioni. Esse sono, invece, sorprendenti, in quanto rivelano la saggezza politica di un uomo di fede che conosce molto bene le dinamiche in atto all’interno della chiesa da lui governata. Qualsiasi parola detta in quel momento sarebbe stata manipolata ed utilizzata contro di lui. Solo il silenzio totale avrebbe potuto, in una certa misura, proteggerlo, in quel frangente, da ulteriori attacchi provenienti dalla componente curiale retriva e conservatrice, che Francesco ben conosce sia per quanto concerne la sua pericolosità, sia per quanto inerisce all’inettitudine argomentativa dei suoi principali esponenti.
La scelta del silenzio dice, pertanto, molto più di qualsiasi discorso autodifensivo destinato ad essere inevitabilmente strumentalizzato: a) nel comunicato non c’è nulla da cui Francesco debba difendersi o di cui sia necessario con urgenza giustificarsi, b) la lettura del documento rivelerà immediatamente i limiti intellettuali e morali del suo autore e l’inconsistenza delle sue dichiarazioni.
Questo è il motivo per cui Francesco invita a leggere il testo e a formulare, in autonomia, un giudizio su di esso. È convinto che il comunicato di Viganò contenga carenze oggettive talmente eclatanti da poter essere percepite anche da lettori non addetti ai lavori.
Ed è proprio così.
La lettura procede con difficoltà per la pessima qualità della scrittura che ricorda lo stile e l’enfasi tipiche delle riviste scandalistiche di seconda fascia, che propongono pettegolezzi ed illazioni come se fossero verità incontestabili. Il discorso è caratterizzato da una totale evanescenza argomentativa che lo rende, nello stesso tempo, noioso e risibile. Il lettore, andando avanti nell’analisi del documento, si rende subito conto delle ragioni che hanno indotto papa Francesco a stimolare la formulazione di un giudizio autonomo da parte dei soggetti interessati. Difatti, il testo implode da sé, anche ad uno sguardo superficiale. Qualsiasi replica da parte di Francesco avrebbe dato dignità e conferito una sorta di riconoscimento ad un intreccio di confidenze pruriginose che, con spirito delatorio, il solerte mons. Carlo Maria Viganò racconta di aver sciorinato nel corso degli anni per il bene della chiesa e la conservazione della sua integrità morale.
Non andrò nei dettagli (credetemi, il documento non merita assolutamente di essere analiticamente esaminato) e – facendo mia, con umiltà, l’esortazione di Francesco – invito l’eventuale lettore di questo mio contributo ad affrontare personalmente la lettura del testo di Viganò.
In generale si può dire che l’attento e integerrimo monsignore racconta vicende che riguardano i costumi sessuali (nella fattispecie omosessuali) dell’arcivescovo emerito di Washington, Theodore McCarrick, oggetto di voci ricorrenti secondo le quali egli avrebbe avuto frequenti incontri con seminaristi (non si parla di minori): «Shared his bed with seminarians». Viganò dice di essere venuto a conoscenza di tali vicende nel corso degli incarichi che gli furono affidati da Giovanni Paolo II, come delegato per le Rappresentanze pontificie (dal 1998 al 2009) e da Benedetto XVI, come nunzio apostolico negli Stati Uniti d’America (dal 19 ottobre 2011 sino a fine maggio 2016).
Pertanto il documento riferisce episodi, in gran parte, avvenuti in un tempo antecedente a quello di papa Francesco, ossia nel corso dei pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, durante i quali Viganò svolgeva negli Stati Uniti incarichi di responsabilità. Il monsignore racconta di informative inviate alla Santa Sede relative ai comportamenti «immorali» di McCarrick, spesso disattese (Benedetto XVI, a dire di Viganò, avrebbe comminato sanzioni restrittive nei confronti di McCarrick, in realtà mai ottemperate dall’arcivescovo di Washington. Di queste sanzioni non esiste alcuna documentazione, né traccia oggettiva).
Viganò, inoltre, racconta di un incontro con papa Francesco – che sarebbe avvenuto nel mese di giugno del 2013 – durante il quale avrebbe denunziato all’attuale pontefice i comportamenti del prelato americano, in una modalità del tutto privata, priva di ogni riscontro oggettivo. Il monsignore accusa Francesco di non aver preso subito provvedimenti contro McCarrick dopo le sue rivelazioni, dimenticando che, quando le accuse dalla forma del pettegolezzo hanno assunto una consistenza formalmente perseguibile, papa Bergoglio è intervenuto con una determinazione e una durezza che non hanno eguali nella storia della chiesa, facendo seguire alle dichiarazioni di principio i fatti, non in modo sommario e vendicativo, come avrebbe voluto Viganò, ma secondo quelle modalità garantiste che vanno sempre adottate, anche in procedure attivate nei confronti dei peggiori criminali. Difatti, il 28 luglio scorso, con un procedimento mai attuato in precedenza da nessun pontefice, papa Francesco ha privato dello status cardinalizio proprio il prelato McCarrick, quasi novantenne, non appena gli atti del processo canonico, intentato nei suoi confronti, sono giunti a compimento.
Questo è l’unico dato di fatto incontrovertibile, il resto sono solo illazioni e maldicenze.
Mi fermo qui. Il tutto non mi appassiona.
Molte questioni rimangono aperte, soprattutto per quanto attiene alle dinamiche della faida che lacera dall’interno l’istituzione ecclesiastica e ai suoi possibili sviluppi, ma un dato emerge con chiarezza da questa vicenda: la forza di un uomo di fede saldamente piantato nel mondo, di cui conosce non solo la bellezza, ma anche la bruttezza, riuscendo a governare con saggezza la nave di cui ha il comando, senza smarrire la rotta migliore anche nel momento della burrasca.