Il viaggio di papa Francesco in Canada per incontrare i popoli nativi, segnati dalla violenza del genocidio culturale programmato dalle autorità statali, di cui la Chiesa cattolica è stata una collaboratrice, è una tappa di un cammino iniziato con l’incontro a Roma con una loro delegazione nell’aprile scorso e che proseguirà oltre i giorni della sua permanenza – come Francesco stesso ha lasciato intendere. Francesco si è immerso nel senso che quell’incontro ha avuto per le popolazioni native canadesi, portando con sé quello che ha appreso, le sensazioni suscitate, i simboli circolati. Uno stile immediatamente percepito e apprezzato da coloro che sono i destinatari di questa visita. Le parole di Francesco sono state tradotte nelle varie lingue dei popoli nativi americani: un segno che, congiungendo il passato all’oggi, apre il senso della visita di Francesco al futuro di un rinnovato rapporto fra la Chiesa e le popolazioni native – perché la cancellazione delle lingue native era una delle mire principali delle “politiche scolastiche di assimilazione”, e la loro salvaguardia è uno degli elementi centrali per una custodia a venire del patrimonio culturale dei popoli nativi canadesi. In tutto questo, i simboli e i gesti di scambio circolati tra i popoli nativi e Francesco non hanno nulla di mediatico, ma un profondo senso di ospitalità culturale e riconoscimento personale (Redazione).
Papa Francesco si è presentato in Canada con un atteggiamento penitenziale, e con una pacata invettiva contro le “politiche di assimilazione” che hanno seminato ingiustizia e cicatrici difficili da rimarginare.
Soprattutto papa Francesco ha detto in maniera chiara e inequivocabile che la richiesta di perdono non è un punto di arrivo bensì un punto di partenza per costruire relazioni nuove. E, pur rilevando che tanta buona volontà poteva sinceramente esserci in quei tempi, tuttavia le modalità di evangelizzazione si sono dimostrate profondamente sbagliate.
Al di là dei gesti immortalati da tv e fotografi – il copricapo tradizionale indossato, la mano baciata dell’anziana all’arrivo a Edmonton, le danze, gli atteggiamenti e le posture verso gli altri – la sostanza dei primi giorni ha visto papa Francesco spingersi molto avanti nel riconoscimento delle ingiustizie.
Una Chiesa in ginocchio
«Sebbene la carità cristiana fosse presente e vi fossero non pochi casi esemplari di dedizione per i bambini, le conseguenze complessive delle politiche legate alle scuole residenziali sono state catastrofiche. Quello che la fede cristiana ci dice è che si è trattato di un errore devastante, incompatibile con il Vangelo di Gesù Cristo. Addolora sapere che quel terreno compatto di valori, lingua e cultura, che ha conferito alle vostre popolazioni un genuino senso di identità, addolora sapere che è stato eroso, e che voi continuiate a pagarne gli effetti. Di fronte a questo male che indigna, la Chiesa si inginocchia dinanzi a Dio e implora il perdono per i peccati dei suoi figli».
E ha aggiunto: «Cari fratelli e sorelle, molti di voi e dei vostri rappresentanti hanno affermato che le scuse non sono un punto di arrivo. Concordo perfettamente: costituiscono solo il primo passo, il punto di partenza. Sono anch’io consapevole che, “guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato” e che, “guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio” (Lettera al Popolo di Dio, 20 agosto 2018). Una parte importante di questo processo è condurre una seria ricerca della verità sul passato e aiutare i sopravvissuti delle scuole residenziali a intraprendere percorsi di guarigione dai traumi subiti».
Cattolici collaboratori del genocidio culturale
Queste parole sono state pronunciate lunedì mattina (pomeriggio inoltrato in Italia) nel primo incontro con le comunità locali. Più tardi (era oramai martedì in Italia), nella Chiesa del Sacro Cuore dei Primi Popoli, a Edmonton, papa Francesco è andato più avanti.
«Mi ferisce pensare che dei cattolici abbiano contribuito alle politiche di assimilazione e di affrancamento che veicolavano un senso di inferiorità, derubando comunità e persone delle loro identità culturali e spirituali, recidendo le loro radici e alimentando atteggiamenti pregiudizievoli e discriminatori, e che ciò sia stato fatto anche in nome di un’educazione che si supponeva cristiana. L’educazione deve partire sempre dal rispetto e dalla promozione dei talenti che già ci sono nelle persone. Non è e non può mai essere qualcosa di preconfezionato da imporre, perché educare è l’avventura di esplorare e scoprire insieme il mistero della vita».
Chiesa: una casa fraterna
E il papa ha messo a fuoco due idee per immaginare la Chiesa del futuro, dimostrando di avere imparato la lezione del passato. Primo: «Ecco una casa per tutti, aperta e inclusiva, così come dev’essere la Chiesa, famiglia dei figli di Dio dove l’ospitalità e l’accoglienza, valori tipici della cultura indigena, sono essenziali: dove ognuno deve sentirsi benvenuto, indipendentemente dalle vicende trascorse e dalle circostanze di vita individuali».
Secondo: la Chiesa «è il luogo dove si smette di pensarsi come individui per riconoscersi fratelli guardandosi negli occhi, accogliendo le storie e la cultura dell’altro, lasciando che la mistica dell’insieme, tanto gradita allo Spirito Santo, favorisca la guarigione della memoria ferita». Questa è la via: «non decidere per gli altri, non incasellare tutti all’interno di schemi prestabiliti, ma mettersi davanti al Crocifisso e davanti al fratello per imparare a camminare insieme. Questa è la Chiesa e questo sia: il luogo dove la realtà è sempre superiore all’idea. Questa è la Chiesa e questo sia: non un insieme di idee e precetti da inculcare alla gente, ma una casa accogliente per tutti! Questo è la Chiesa e questo sia: un tempio con le porte sempre aperte dove tutti noi, templi vivi dello Spirito, ci incontriamo, ci serviamo e ci riconciliamo».