Una fede radicata nella cultura. Così papa Francesco si è presentato a Timor Est. Quando vi arrivò Giovanni Paolo II, nel 1989, il paese era una propaggine indonesiana ed era in corso un duro scontro per raggiungere l’indipendenza, obiettivo centrato nel 2002, dopo il referendum del 1999.
Da notare che l’attuale presidente, José Ramos Horta, eletto nel 2022, è stato uno dei protagonisti della lotta per l’indipendenza; ha ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1996, insieme all’allora vescovo salesiano Carlos Filipe Ximenes Belo, poi in anni recenti sopraffatto dalle accuse di abusi (cf. qui su SettimanaNews). Torniamo a Papa Francesco e alla lettura della presenza del cristianesimo in un piccolo paese, nella zona orientale dell’isola di Timor (Indonesia).
Un popolo che ha futuro
Il cristianesimo, nato in Asia, è arrivato a queste propaggini del continente tramite missionari europei, testimoniando la propria vocazione universale e la capacità di armonizzarsi con le più diverse culture, le quali, incontrandosi con il Vangelo, trovano una nuova sintesi più alta e profonda.
Il cristianesimo si incultura, assume le culture e i diversi riti orientali, dei diversi popoli. Infatti una delle dimensioni importanti del cristianesimo è l’inculturazione della fede. Ed esso, a sua volta, evangelizza le culture. Questo binomio è importante per la vita cristiana: inculturazione della fede ed evangelizzazione della cultura. Non è una fede ideologica, è una fede radicata nella cultura.
Papa Francesco è entrato nel vivo delle problematiche di quello che ha definito un «paese giovane» dove il 65% della popolazione (1,2 milioni) ha meno di 30 anni, che deve avere cura del futuro, del progresso sociale e culturale, e soprattutto non deve perdere la «speranza».
Però ha enumerato le «piaghe sociali», come l’eccessivo uso di alcolici tra i giovani. «Date ideali ai giovani, perché escano da queste trappole!». Ha aggiunto il «fenomeno del costituirsi in bande, le quali, forti della loro conoscenza delle arti marziali, invece di usarla al servizio degli indifesi, la usano come occasione per mettere in mostra l’effimero e dannoso potere della violenza». Senza dimenticare i problemi dei minori, spesso indifesi. Per la soluzione ha indicato una strada precisa: «preparare adeguatamente, con una formazione appropriata, coloro che saranno chiamati ad essere la classe dirigente del Paese in un non lontano futuro».
La Chiesa, ha aggiunto, «offre come base di tale processo formativo la sua dottrina sociale»: «Non è un’ideologia, è basata sulla fraternità. È una dottrina che deve favorire, che favorisce lo sviluppo dei popoli, specialmente di quelli più poveri».
Nel percorso ecclesiale nella realtà di Timor Est, restano impresse le immagini fortissime della grande quantità di persone che si sono riversate per le strade e allo stadio, per vedere il papa e ascoltare il suo messaggio. Dal canto suo Papa Francesco non si è sottratto.
Al clero, alle religiose, ai vescovi, ha detto con estrema chiarezza che è necessario un «rinnovato slancio nell’evangelizzazione»:
«Perché a tutti arrivi il profumo del Vangelo: un profumo di riconciliazione e di pace dopo gli anni sofferti della guerra; un profumo di compassione, che aiuti i poveri a rialzarsi e susciti l’impegno per risollevare le sorti economiche e sociali del Paese; un profumo di giustizia contro la corruzione. State attenti! Tante volte la corruzione può entrare nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie. E, in particolare, il profumo del Vangelo bisogna diffonderlo contro tutto ciò che umilia, ciò che deturpa e addirittura distrugge la vita umana, contro quelle piaghe che generano vuoto interiore e sofferenza come l’alcolismo, la violenza, la mancanza di rispetto per la donna. Il Vangelo di Gesù ha la forza di trasformare queste realtà oscure e di generare una società nuova. Il messaggio che voi religiose offrite di fronte al fenomeno della mancanza di rispetto per le donne è che le donne sono la parte più importante della Chiesa, perché si occupano dei più bisognosi: li curano, li accompagnano».
E nella messa, martedì 10, di fronte a una folla valutata dalle autorità in 600 mila persone – praticamente la metà della popolazione –, papa Francesco ha rilasciato il messaggio finale.
«Ho pensato molto: qual è la cosa migliore che ha Timor? Il sandalo? La pesca? Non è questa la cosa migliore. La cosa migliore è il suo popolo. Non posso dimenticare la gente ai lati della strada, con i bambini. Quanti bambini avete! Il popolo, che la cosa migliore che ha è il sorriso dei suoi bambini. E un popolo che insegna a sorridere ai bambini è un popolo che ha un futuro. (…) Vi auguro la pace. Vi auguro di continuare ad avere molti figli: che il sorriso di questo popolo siano i suoi bambini! Prendetevi cura dei vostri bambini; ma prendetevi cura anche dei vostri anziani, che sono la memoria di questa terra».
La «positiva inclusività» di Singapore
A Singapore, ultima tappa del viaggio, Francesco nel discorso a Corpo diplomatico e autorità locali, ha parlato – ovviamente, vista la prosperità e la tecnologizzazione della città-stato – di intelligenza artificiale, di condizioni di lavoro, di sviluppo sostenibile. Sull’intelligenza artificiale, ha ribadito l’importanza della dimensione etica:
«È essenziale coltivare relazioni umane reali e concrete; e che queste tecnologie si possono valorizzare proprio per avvicinarsi gli uni agli altri, promuovendo comprensione e solidarietà, e non per isolarsi pericolosamente in una realtà fittizia e impalpabile».
Inoltre il papa ha avuto parole di apprezzamento per la coesistenza armonica di etnie, culture e religioni nella città-stato e del fatto che questa «positiva inclusività» sia favorita anche dall’imparzialità dei poteri pubblici. Constata che questo è un modo per arginare a priori estremismo e intolleranza. «Il rispetto reciproco, la collaborazione, il dialogo e la libertà di professare il proprio credo nella lealtà alla legge comune sono condizioni determinanti del successo e della stabilità ottenuti da Singapore, requisiti per uno sviluppo non conflittuale e caotico, ma equilibrato e sostenibile».
E a proposito di quest’ultimo punto, lo ha sviluppato nel seguito del discorso:
«Il vostro impegno per uno sviluppo sostenibile e per la salvaguardia del creato è un esempio da seguire, e la ricerca di soluzioni innovative per affrontare le sfide ambientali può incoraggiare altri Paesi a fare lo stesso. Singapore è un brillante esempio di ciò che l’umanità può realizzare lavorando insieme in armonia, con senso di responsabilità e con spirito di inclusività e fraternità. Vi incoraggio a continuare su questa strada, confidando nella promessa di Dio e nel suo amore paterno per tutti».
Quanto all’impegno dei cattolici (300 mila in 32 parrocchie, su 5,6 milioni di abitanti tra cui 74% cinesi, 14% malesi, 7% da indiani e per il resto da eurasiatici), il Papa ha sottolineato come questa visita, a quarantatré anni da quando furono stabilite le relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e Singapore, si propone di confermare nella fede i cattolici ed esortarli a proseguire con gioia e dedizione la collaborazione con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, «per la costruzione di una società civile sana e coesa, per il bene comune e per una testimonianza cristallina della loro stessa fede».
A Singapore resteranno impresse le immagini dei 50 mila alla messa di giovedì nell’imponente e avveniristica struttura dello stadio della città. E il messaggio ai giovani, in un dialogo ricco di incoraggiamenti:
Uscire dalle zone confortevoli un giovane che sceglie di vivere sempre la sua vita in un modo confortevole è un giovane che ingrassa, risate, ma non ingrassa la pancia ingrassa la mente, per questo io dico ai giovani rischiate, uscite, non avete paura, la paura è un atteggiamento dittatoriale, che ti paralizza.
O ancora l’incoraggiamento a usare i social media, ma per diffondere una buona notizia: «Tutti i giovani devono usare i media ma usare i media perché ci aiutino ad andare avanti non perché ci rendano schiavi, siete d’accordo o no?».
E infine le religioni, altra cifra del viaggio, all’insegna del dialogo e non del proselitismo da parte cattolica: «come Dio è Dio per tutti, noi siamo tutti Figli di Dio».
Venerdì 13 il rientro in Vaticano, dopo 11 giorni di un lungo viaggio.
Povera gente che è andata a vedere il papa, il vicario di Cristo, e si è sentita dire queste parole:
“Tutte le religioni sono percorsi per raggiungere Dio. Esse sono, per fare un paragone, come differenti linguaggi, differenti dialetti, per arrivare a quell’obiettivo. Ma Dio è Dio per tutti. Se tu incominci a combattere sostenendo ‘la mia religione è più importante della tua, la mia è vera e la tua non lo è’, dove ci porterà tutto ciò? C’è un solo Dio, e ognuno di noi possiede un linguaggio per arrivare a Dio. Alcuni sono sikh, musulmani, hindu, cristiani: sono diverse vie che portano a Dio”.
Il papa dice ai cristiani che essere cristiano non serve, è inutile perché basta credere in Dio. Ebraismo, induismo, cristianesimo, islam pari sono. Serve altro? Quando sarà colma la misura? Ancora non basta? Qui non è questione di teologia ma di logica elementare: se essere cristiani non è indispensabile per salvarsi allora perché Bergoglio si è fatto prete? Perché fa il papa?