Quando papa Francesco parla ai giovani, cerca spesso di fare riferimento ad aspetti, linguaggi o strumenti caratteristici del loro mondo per annunciare il Vangelo a partire dalla loro esperienza di vita. Ad esempio, il 17 gennaio 2018 a Santiago, presso il santuario di Maipù, il pontefice ha affermato che, quando si rimane senza la «connessione» con la fede, «che dà vita ai nostri sogni, il cuore inizia a perdere forza, a restare anch’esso senza carica». E ancora: «senza connessione, senza la connessione con Gesù, finiamo per annegare le nostre idee, i nostri sogni, la nostra fede e ci riempiamo di malumore […] La password di Hurtado [un santo gesuita] era molto semplice – se volete mi piacerebbe che la appuntaste sui vostri cellulari. Lui si domanda: “Cosa farebbe Cristo al mio posto?” […] L’unico modo per non dimenticare una password è usarla. Tutti i giorni».
Questo modo di comunicare del papa è molto efficace, non solo per la sua originalità e simpatia, ma soprattutto in quanto chi lo ascolta percepisce che egli si è sforzato di entrare in una “cultura” diversa dalla sua, di capirne linguaggi, stili e strumenti, per trasmettere la parola evangelica in modo comprensibile e “sensato” per chi in questa cultura vi abita. Insomma, ci si sente “visitati” con attenzione e affetto.
Del resto, questo stile di papa Francesco è in linea con una convinzione che ha caratterizzato fortemente la recente missione ecclesiale: l’evangelizzazione passa attraverso la capacità del missionario di entrare in un mondo diverso dal proprio e di interagire con esso rispettandone stili e linguaggi. Ovviamente questo obiettivo può essere perseguito solo a prezzo di un lavoro molto faticoso su di sé.
Paradossalmente, oggi è più facile superare le distanze geografiche che quelle culturali, cioè entrare in una visione della realtà diversa dalla propria per comunicare il Vangelo al suo interno. Questa difficoltà vale anche per l’evangelizzazione del mondo giovanile, che ha dei tratti culturali differenti rispetto a quello degli adulti e degli anziani, e papa Francesco sembra superarla molto bene.
Capire il linguaggio dei giovani non basta
Tuttavia, dobbiamo anche prendere atto che accompagnare i giovani nella scelta della fede e nella vita cristiana richiede ben di più della capacità di parlare il loro linguaggio. Com’è noto, infatti, negli ultimi decenni è andata fortemente calando quella pressione culturale della società italiana che, in qualche modo, imponeva di essere cattolici, e da cui prendevano le distanze solo coloro che appartenevano a movimenti ideologici e politici in diretto contrasto con il cristianesimo.
Se, nei decenni passati, la pastorale si poteva ridurre alla formazione alla vita cristiana di persone che comunque non mettevano in discussione la loro fede, se non nel contesto di momenti di crisi solitamente passeggeri, oggi la situazione è molto diversa.
Tanti giovani rifiutano realmente di credere senza il minimo senso di colpa, e non semplicemente per dichiarare la propria autonomia dai loro genitori o dalle consuetudini familiari, ma perché ritengono che la fede sia qualcosa di inutile, lontana dai loro sogni e dai loro bisogni.
Non basta più chiedere ai giovani di sognare, perché non necessariamente in quei loro sogni trova posto l’esperienza cristiana…
Perché dovrei essere cristiano?
Dunque, dovrebbe cambiare la domanda che costituisce lo sfondo dei percorsi formativi delle comunità cristiane. Nei decenni passati la questione fondamentale era: cosa significa essere cristiani? Che cosa si deve fare per vivere in modo coerente la fede? Oggi, al contrario, l’interrogativo dovrebbe essere: perché dovrei scegliere di essere cristiano? E, ovviamente, non è una domanda retorica.
Per questo, non basta più offrire attività formative su svariati temi, ma occorre concentrarsi soprattutto sulla comunicazione fondamentale della fede, al punto da renderla l’elemento strutturante l’organizzazione delle comunità cristiane. Per usare un’immagine, se le varie attività di una parrocchia assomigliano alle tante cose che si devono mettere in uno zaino prima di una gita, occorre inserire anzitutto l’evangelizzazione con tutto ciò che comporta, e poi il resto nella misura in cui ci sta. Ovviamente, non c’è il rischio che restino fuori i sacramenti, che sono strettamente vincolati all’evangelizzazione come il loro compimento, ma molte altre cose potrebbero non trovare spazio.
Ad esempio, dare il primato all’evangelizzazione significa consentire ai presbiteri di curare la qualità della propria predicazione e delle proprie proposte formative, studiando e pregando, e avere il tempo per stare realmente con le persone, soprattutto con i giovani. Ora, quando un parroco è responsabile di due o più comunità, non di rado l’impegno nell’ambito amministrativo e organizzativo diventa così rilevante che gli resta soltanto il tempo per garantire l’offerta sacramentale. Tuttavia, come un genitore educa alla vita i propri figli stando con loro e offrendo loro le risposte giuste al momento giusto, anche un pastore evangelizza nella misura in cui ha una certa ricchezza interiore e la dona alla sua comunità vivendo con essa. Limitarsi a riversare sulle persone delle buone parole nei momenti previsti dalla liturgia per poi fuggire nelle proprie responsabilità organizzative e amministrative non porta alcun vantaggio.
Cambiamenti radicali
Per questa ragione ritengo che i giovani ci salveranno, precisamente da un modo di organizzare le comunità che non dà un primato strutturale all’evangelizzazione e che, quindi, porta lentamente alla loro scomparsa, proprio a partire da loro. Ovviamente, tale primato comporta delle rinunce a strutture e attività, e probabilmente sono gli anziani – preti, religiosi e laici – che guardano con maggiore timore ai cambiamenti ecclesiali per il loro giustificato bisogno di non veder cambiare troppo il mondo e la Chiesa in cui sono vissuti. Eppure il bene dei giovani è più importante. Anche se numericamente sono ben più ridotti rispetto agli credenti più anziani, sono loro il futuro delle nostre comunità. Dunque, sono i loro bisogni che vanno messi al primo posto.
Secondo Rossano Sala non sono tanto i sacerdoti anziani quanto i preti giovani che faticano ad occuparsi dei giovani (Giornata Interfacoltà di Torino, vedi http://www.diocesi.torino.it/site/giornata-di-studio-interfacolta-per-una-grammatica-degli-affetti/).