Ho desiderato acquistare il volume che papa Francesco ha scritto per il Giubileo e curato da Hernàn Reyes Alcalde, per via del titolo: La speranza non delude mai. Davvero oggi l’idea di sperare può ispirare questa certezza? Il punto è stato da subito coinvolgente, e non certo perché non sappia che per la Chiesa e quindi certamente per Francesco, fede, speranza e carità siano le tre virtù teologali.
Ma allora il titolo poteva essere «la fede non delude mai», oppure «la carità non delude mai». E questi due titoli mi sarebbero apparsi più semplici, più logici, più grammaticalmente vicini al mio modo di sentire di cittadino dell’oggi. Basta guardarsi intorno, basta avvicinarsi a un qualsiasi argomento per poter sentire o temere che sperare deluderà: non altrettanto potrei immaginare della fede, o della carità.
I tempi di Dio
Dunque questo titolo mi ha obbligato a cercare di capire cosa voglia dirci Francesco alla vigilia di un Giubileo, che è messo alla prova nel suo senso profondo e nelle sue intenzioni da un paradigma vessatorio; il meccanismo economico-finanziario che nessuno oggi vuole scalfire potrebbe rendere questo tempo doloroso proprio per i poveri a Roma. Affitti brevi, ma cifre molto lunghe per ottenerli, per un tempo sempre più breve, affitto mordi e fuggi, quindi sempre più caro ma in piccole dosi, quindi per chi le paga pesanti ma possibili.
È solo un esempio molto banale che indica però l’enormità di un titolo che dovevo indagare, comprendere. Di certo infatti il papa ha scritto una potentissima lettera agli istituti religiosi romani chiedendo loro di offrire abitazioni ai poveri, dimostrando probabilmente che lo scetticismo serve a poco o niente. E come questa lettera, convince anche il suo libro sulla speranza, soprattutto in un tempo in cui il manicheismo sta sfidando ogni possibilità di reciproca comprensione. Provo a dire dal mio punto di vista perché.
Il libro di Francesco rende viva la speranza e non tanto perché lui parte ovviamente dalla speranza cristiana: «È la sicurezza di qualcosa che già esiste, cioè la nostra salvezza». Questo affascina, ma non può riguardare chi si trovi in una diversa condizione umana data. Ma Francesco sa immaginare anche questo e avverte i poco avvertiti che la speranza non va confusa con l’ottimismo, quello che ci vendono a ogni angolo di strada, con una pillola che ci farà certamente smettere di ingrassare o un sistema per diventare ricchi, di sicuro.
L’ottimismo è una cosa, la speranza è un’altra. E quale? Francesco dice che «è la certezza che andremo avanti». Perché certezza? Scrive: «speriamo in qualcosa che ci è già stato dato, non in qualcosa che vorremmo che accadesse». Citando i vescovi europei ci ricorda che dissero che “condannata all’insignificanza”, la vita senza speranza “diventerebbe insopportabile”. È così. E non può che essere così se pensiamo a chi sta sotto le bombe, o in un campo profughi, o in carcere, o su un barcone in fuga da ciò che nessuno sull’altra sponda può immaginare.
La forza del discorso però non passa solo da idee, parole, immagini, in Francesco c’è sempre l’esempio, la realtà. E lui ci dice di aver avuto momenti bui, «in cui ho dovuto fare sforzi per confidare in Dio. In momenti cupi di quel genere si è tentati di “aggrapparsi” a ciò che è a portata di mano, ma bisogna stare attenti. Se ci si attacca male, ci si attacca a cose che non aiutano, che tolgono la grandezza dello sperare». La speranza, sottolinea citando San Pietro, «sostiene il cammino della nostra vita anche quando si presenta tortuoso e faticoso: apre davanti a noi strade di futuro quando la rassegnazione e il pessimismo vorrebbero tenerci prigionieri».
Più avanti questo testo di San Pietro afferma una cosa decisiva per capire: la speranza «ci fa sognare una nuova umanità e ci rende coraggiosi» … Francesco così ci esorta ad aspettare i tempi di Dio. Si può capire che non sono questi, ma il papa soggiunge: «la speranza si dà nel tempo». Non c’è dunque nessuna rassegnazione, al contrario, c’è la … «speranza», che allora non tradirebbe mai.
Respiro di fraternità
Ma noi abbiamo fretta, tutti abbiamo fretta. Si può capire la fretta di chi vive sotto le bombe, che molto spesso ne ha meno di noi, si può capire la fretta di chi è incarcerato, che molto spesso ne ha meno di noi, si può capire la fretta di chi è internato, o “interrato” direi, in un campo profughi, e che anche lui molto spesso ne ha meno di noi. Ma noi abbiamo fretta, una fretta tremenda: «La pazienza è messa in fuga dalla fretta, recando un grave danno alle persone. La pazienza, che proviene dallo Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e stile di vita. La pazienza non è sopportare, ma saper soffrire bene».
Questo è enorme. Dunque non è che «finché c’è vita c’è speranza», il papa mi appare più dirci che «la speranza protegge, custodisce e fa crescere la vita». Questa è la tesi che ogni credente come chiunque altro, secondo me, può capire e condividere, ma ogni credente, come chiunque altro, può fallire la sfida e non sperare, per fretta, o angustia del proprio orizzonte.
Leggere sveglia da una rinuncia a sperare per l’enormità di ciò che leggiamo, vediamo, sentiamo. Poco più avanti conclude così il Prologo: «Perché la speranza “non delude”, penso ai nostri giovani, ai tanti migranti costretti ad abbandonare le loro terre, alle persone private della libertà, a quanti soffrono le conseguenze delle guerre, ai milioni di poveri in tutto il mondo che faticano a sopravvivere, alle donne che ancora lottano dappertutto per la vera uguaglianza. A tutte le persone che, lungi dall’essere statistiche, sono per noi volti reali su cui irradiare la speranza. Sono loro che mi hanno ispirato».
Può non riguardarci in un tempo che vuole archiviare ogni universalismo? Mi è parso di no e così dal Prologo passo all’Introduzione dove papa Francesco fissa questa scaletta impressionante:
«A volte è difficile che nel popolo di Dio possa esserci speranza, quando così spesso siamo stati proprio noi nella Chiesa a cospirare contro la crescita di quel lievito. Con i nostri peccati abbiamo negato semi che, come i granelli di senape di cui parla la Bibbia, erano destinati a far germogliare un nuovo orizzonte per i nostri fratelli e sorelle. Ma possiamo ancora ricorrere al perdono per tornare a dare speranza. Poiché abbiamo bisogno di speranza, voglio ribadire che provo ancora dolore e vergogna per i danni irreparabili causati ai bambini, alle bambine e agli adulti che sono stati vittime di abusi sessuali, di coscienza e di potere da parte del clero in tutto il mondo. Poiché abbiamo bisogno di speranza voglio chiedere perdono per i peccati commessi da migliaia di cristiani in tutto il mondo contro i popoli indigeni. Poiché abbiamo bisogno di speranza voglio chiedere perdono a tutti i poveri e gli indifesi del mondo per ogni volta che un cristiano ha voltato lo sguardo dall’altra parte. Poiché abbiamo bisogno di speranza voglio chiedere perdono per ogni volta che un membro della Chiesa è caduto nella corruzione e ha tradito la fiducia dei nostri fratelli e sorelle. Poiché abbiamo bisogno di speranza voglio chiedere perdono per le persecuzioni che in ogni epoca sono state compiute nel nome di Dio. Chiedere perdono è necessario, ma non basta».
Chiedere perdono non è sempre la stessa cosa. In questo tempo di manicheismo è un’azione autenticamente rivoluzionaria. E infatti a mio avviso non lo si capisce se non si tiene conto del punto di arrivo che chiude l’Introduzione: «La speranza cristiana non ha respiro solo personale o individuale, ma anche comunitario o ecclesiale. Tutti noi speriamo: tutti abbiamo speranza, per questo un cammino di speranza esige una cultura dell’incontro, del dialogo, che superi i contrasti e il confronto sterile».
Organizzare la speranza
Le donne, gli anziani, i poveri, le guerre e i migranti sono gli argomenti attorno ai quali il papa si sofferma in questo libro, ripercorrendo le tappe dei pronunciamenti suoi e della Chiesa al riguardo. Non ci entreremo qui, perché è la conclusione quella che porta a compimento questo tentativo di lettura solo del titolo del volume: «La speranza ha sempre un volto umano».
Vi si parla di «crisi integrale», nell’interconnessione dei fattori economici, sociali, politici e migratori. È la denuncia del «paradigma socioeconomico costruito sull’avidità e la cupidigia», che ha anche depredato la Terra per sostenere consumi e sprechi. I mutamenti sono irreversibili, per la «pretesa di esercitare un dominio incondizionato», come si scriveva nel Compendio della Dottrina Sociale già nel 2004. È il paradigma tecnocratico.
Giovanni Paolo II lo coglieva nel 1997. Dunque? Dunque per Francesco servono pellegrini di speranza decisi a costruire un’alternativa alla mentalità «utilitaristica, immediatista e manipolatoria», e più avanti ci avverte che già si parla di pensiero ibrido, fusione delle capacità cognitive dell’uomo e della macchina. È l’idea di un essere umano senza limiti. Ma il progresso non doveva essere al servizio dell’essere umano? Dunque le novità hanno o certamente avrebbero il potenziale per creare un enorme sviluppo, o una tragedia senza limiti. Per questo il Giubileo viene presentato per quello che era all’origine della sua storia, anno di riposo dal lavoro abituale.
Riscoperta del limite? A me sembra che sia questa l’indicazione: «Siamo chiamati a adottare stili di vita equi e sostenibili». Rendere allora le nuove tecnologie non incompatibili con un mondo di fraternità e di speranza, è questo il pellegrinaggio giubilare? Lo capisco così e me lo conferma come Giubileo della fratellanza la scelta che chiude il volume, la citazione di Martin Luther King: «Noi esseri umani siamo riusciti a volare come uccelli, a nuotare come pesci, ma non a vivere come fratelli». Questa è la speranza per la quale è inevitabile sentir risuonare la richiesta, citata, di don Tonino Bello: «Non possiamo limitarci ad aspettare, dobbiamo organizzare la speranza». Un dovere che riguarda tutti e che allora si scopre che non può deludere.
Che lo si accetti o no, è questa, cioè la fratellanza, la forza profondamente evangelica, di questo pontificato, che poi ha tanti risvolti che possono piacere o non piacere, ma è qui l’impossibilità di resistergli. La forza del primo papa che si è chiamato Francesco, in fin dei conti, è nel titolo della sua enciclica, nello stile con cui pone la necessità di questa imprescindibile speranza: «Fratelli tutti».