Il “Documento di studio” intitolato Il Vescovo di Roma. Primato e sinodalità nei dialoghi ecumenici e nelle risposte all’enciclica Ut unum sint (qui) è stato pubblicato dal Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani, senza pretesa – come informa nel prologo il card. Kurt Koch – di «esaurire l’argomento né di riassumere l’insegnamento cattolico in materia», ma con l’intento di stimolare una maggiore ricerca teologica e formulare suggerimenti pratici che permettano di camminare tutti insieme, grazie al ministero di unità del vescovo di Roma.
L’articolazione tra il primato del papa e la sinodalità di tutti i cristiani sono – come è indicato nel titolo – le due questioni chiave di questo testo.
Alla sua origine si trova l’invito – formulato a suo tempo da Giovanni Paolo II ai cattolici e ai cristiani – a trovare, «insieme, naturalmente», le forme con le quali il ministero del vescovo di Roma «possa compiere un servizio di amore riconosciuto da tutti gli interessati».
Si parla anche della volontà del Dicastero – concordata con l’attuale pontefice – di rendere note le numerose risposte ricevute, nonché le riflessioni e i suggerimenti derivati dai diversi dialoghi teologici ecumenici che da allora si sono tenuti. E, naturalmente, il riconoscimento, formulato da papa Francesco all’inizio del suo pontificato, che si erano compiuti «pochi progressi in questo senso».
«La conversione del papato»
Com’è noto, papa Bergoglio scriveva nel suo “programma” di pontificato – l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (2013) – che, «siccome sono chiamato a vivere ciò che chiedo agli altri, devo pensare anche a una conversione del papato». «E mia responsabilità, come vescovo di Roma, è di rimanere aperto ai suggerimenti che sono orientati verso un esercizio del mio ministero che lo renda più fedele al significato che Gesù Cristo ha voluto dargli e alle attuali esigenze dell’evangelizzazione». «Papa Giovanni Paolo II chiese di essere aiutato a trovare “una forma di esercizio del primato che, senza in alcun modo rinunciare all’essenziale della sua missione, si apra a una situazione nuova” (Ut unum sint, 95)».
È vero – proseguiva Francesco – che «abbiamo fatto pochi progressi in questo senso. Anche il papato e le strutture centrali della Chiesa universale hanno bisogno di ascoltare l’invito a una conversione pastorale». E, con il papato, le conferenze episcopali, ugualmente chiamate a svolgere – in conformità con il concilio Vaticano II – un ruolo analogo a quello delle antiche Chiese patriarcali. Tuttavia, proseguendo, ribadiva come queste esigenze non siano state pienamente realizzate.
Ciò è dimostrato dal fatto che non è stato ancora formulato in maniera sufficiente uno statuto delle conferenze episcopali che «le concepisca come soggetti di attribuzioni concrete, comprendendo anche un’autentica autorità dottrinale» – tra l’altro, sottolineo da parte mia –, una competenza riconosciuta da Paolo VI e ridotta quasi a nulla da Giovanni Paolo II con il motu proprio Apostolos suos (1998).
Papa Francesco concludeva questo punto programmatico del suo pontificato con una considerazione per nulla ingenua, e agli antipodi del criterio espresso al riguardo dai suoi predecessori: «Un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria (Evangelii gaudium 32).
La pubblicazione del Documento di studio sul vescovo di Roma risponde a questo punto programmatico, anche se è molto probabile che qualcuno lo recepisca come troppo teologico e per nulla risolutivo. Altri ancora diranno che Francesco lascia socchiusa questa porta o – che è lo stesso – persegue il processo di revisione aperto da Giovanni Paolo II, ma non si lascia coinvolgere decisamente, nonostante – dicano anche i suoi difensori – che la sola pubblicazione di questo testo sia molto più che una semplice continuazione di Ut unum sint, poiché, a differenza di quanto realizzato nei pontificati precedenti il suo, non viene offerta, ad esempio, una lettura della collegialità episcopale del Vaticano II secondo il modello assolutista e monarchico del Vaticano I, ma nella fedeltà alla maggioranza conciliare che lo approvò. E con il recupero della collegialità episcopale, e della sinodalità battesimale di tutto il popolo di Dio, «infallibile quando crede».
Può sembrare semplice o una verità lapalissiana ma è pur sempre una novità sorprendente e piacevole, largamente attesa e invocata. Questo è stato il post-concilio – promosso da una minoranza, conciliare e curiale, e subito dalla stragrande maggioranza dei cattolici e dei cristiani – in relazione alle questioni che Francesco sta cercando di re-indirizzare con non pochi grattacapi!
Il tono dialogico
Il testo pubblicato offre «una sintesi oggettiva dei recenti sviluppi ecumenici sull’argomento» e, in particolare, riporta una trentina di risposte a Ut unum sint, nonché cinquanta documenti di dialogo ecumenico. E conclude con una breve proposta dell’assemblea plenaria del Dicastero (2021), dal titolo “Verso un esercizio del primato nel XXI secolo”, in cui vengono riportati i suggerimenti più significativi presenti nelle diverse risposte e nei dialoghi per un rinnovato esercizio del ministero dell’unità del vescovo di Roma.
A coloro che sono interessati alla questione, ma non hanno familiarità con la materia, consiglio di iniziare la lettura del Documento da questa sezione poiché, grazie ad essa, è possibile farsi un’idea sufficiente di cosa si tratta e di che cosa è in gioco.
La proposta del Dicastero viene offerta – e neppure questo non piacerà ai sostenitori di una lettura retrò del Vaticano II – in dialogo con le confessioni cristiane che hanno risposto – in modo empatico, critico e autocritico – all’invito di Giovanni Paolo II e di Francesco.
Questo dialogo non è suggerito – cosa che piacerà loro ancor meno – dalla volontà che le confessioni separate ritornino all’ovile della verità gestita esclusivamente da Roma, ma da quella di continuare a camminare insieme per poter un giorno raggiungere e accogliere un’unità differenziata.
Il documento in questione, dopo l’introduzione, si articola in quattro importanti capitoli.
Il primo, intitolato Riflessione ecumenica sul ministero del Vescovo di Roma, raccoglie le risposte all’enciclica Ut unum sint, i dialoghi teologici e i contributi apportati al riguardo fino ad oggi, per concludere riconoscendo la bontà del confronto, verificatosi negli ultimi decenni, sul primato del vescovo di Roma: «Negli ultimi anni il movimento ecumenico ha contribuito a creare un clima più conciliante in cui si è parlato di un ministero a servizio dell’unità di tutta la Chiesa» (n. 31).
Il secondo capitolo, più sistematico, approfondisce quattro questioni che compaiono «costantemente in varie forme e gradi» e da cui emergono alcuni approcci e accenti nuovi importanti per tutti, cattolici e non.
Le questioni sono quelle che si riferiscono ai fondamenti scritturistici del ministero petrino; allo jus divinum o fondamento divino del potere papale; al primato della giurisdizione del vescovo di Roma e al dogma dell’infallibilità.
Il fondamento biblico del potere di Pietro
Basti l’esempio del fondamento biblico del primato del papa per mostrare il tono dialogico che, da tempo, viene curato negli incontri ecumenici e che, attraversando questo Documento dall’inizio alla fine, è una caratteristica sorprendente e felice della Chiesa cattolica nel post-concilio e, in modo particolare, nel pontificato di papa Francesco.
Il testo approfondisce questo punto riconoscendo che sia la teologia ortodossa sia quella protestante hanno tradizionalmente impugnato «l’interpretazione cattolica dei “testi petrini” del Nuovo Testamento, in particolare il modo diretto con cui la Chiesa cattolica metteva in relazione il ministero del vescovo di Roma con la persona e la missione di Pietro». E, specialmente, l’interpretazione cattolica di alcuni riferimenti biblici, come Matteo 16,17-19 e Giovanni 21,15 e segg. (n. 34).
Una volta descritto il punto di disaccordo – in questo caso tra cattolici, ortodossi e protestanti –, vengono esposti i contributi biblici più rilevanti di «una rinnovata lettura» di tali «testi petrini».
Secondo questa lettura, critica per alcune confessioni sorelle, le loro interpretazioni sarebbero in contrasto con il «ministero pedagogico e pastorale» di Pietro al servizio dell’unità. Ma, a tale riconoscimento critico segue l’autocritica: grazie al dialogo ecumenico, i cattolici stanno prendendo coscienza delle diverse esegesi esistenti sui «testi petrini», in particolare Matteo 16,17-19. E, con queste diverse interpretazioni, l’esistenza di una diversità di leadership nel Nuovo Testamento: «Pietro non fu il solo ad esercitare un “ministero di unità” nella Chiesa primitiva» (n. 38). C’è un’interpretazione biblica – minoritaria, ma importante – che considera questi passaggi in una prospettiva articolata tra primato e sinodalità.
Come non bastasse – siamo ancora in fase di autocritica – i cattolici si confrontano anche con altri punti di vista sulla questione della trasmissibilità del ministero petrino: «Il Nuovo Testamento non contiene alcuna documentazione esplicita di una trasmissione di leadership del ministero petrino; né la trasmissione dell’autorità apostolica in generale è molto chiara».
E, se è vero che «nei primi capitoli degli Atti la Chiesa di Gerusalemme appare come la Chiesa madre, il Nuovo Testamento non afferma da nessuna parte che a quella di Gerusalemme sia subentrata un’altra Chiesa: il primato della Chiesa di Pietro e Paolo, vale a dire di Roma, è un fatto posteriore al Nuovo Testamento» (n. 39).
Non resta, quindi, altra scelta che approfondire la tradizione viva della Chiesa che, nonostante quello che alcuni credono, rimane viva anche ai nostri giorni e, quindi, aperta a ricrearsi e ad essere ripensata alla luce, ovviamente, dei luoghi teologici diversi; tra questi: i segni dei tempi, il “sensus fidei”, la sinodalità e la necessità di rivedere il primato di Pietro, almeno sulla base di quanto approvato dal concilio Vaticano II e di quanto si sta concludendo nel dialogo ecumenico.
Suggerimenti pratici
Dopo aver approfondito queste e altre considerazioni bibliche e patristiche, il Documento di lavoro giunge a un’importante conclusione che poco o nulla piacerà ai sostenitori dei “principi non negoziabili” in nome di un infallibilismo indigesto: «Sulla base dell’esegesi contemporanea e della ricerca patristica, sono state raggiunte nuove acquisizioni e un reciproco arricchimento, sfidando alcune tradizionali interpretazioni confessionali» (n. 165).
Il tono – esegeticamente rigoroso e, al tempo stesso, critico e autocritico – chiaramente percepibile nella trattazione biblica del potere petrino e frutto del dialogo ecumenico, è altrettanto apprezzabile riguardo alle questioni giuridiche, patristiche, storiche, argomentative e sistematiche.
Nella terza sezione, il Documento del Dicastero approfondisce la necessità di affermare un primato per tutta la Chiesa: «I princìpi e i modelli di comunione onorati nel primo millennio possono continuare ad essere paradigmatici per un futuro ripristino della piena comunione», questione questa esaminata in dialogo con le Chiese ortodossa e ortodossa orientale (n. 88).
Al riconoscimento della necessità di un primato fa seguito, ancora una volta, il riconoscimento dell’esistenza di «una diversità di modelli organizzativi ecclesiali», che hanno sempre risposto «alle consuetudini e ai bisogni locali» e che non possono essere trascurati in nome di un’uniforme unità, ma che non possono essere accentuati eccessivamente, ignorando irresponsabilmente «le numerose fasi di divisioni tra Roma e Costantinopoli (n. 107)».
Ecco un esercizio di articolazione tra analisi rigorosa, critica e autocritica che attraversa questo Documento di lavoro dall’inizio alla fine e in cui vengono avanzate alcune conclusioni e alcuni suggerimenti raccolti nell’ultima parte.
In una Chiesa riunificata – si sottolinea – il ruolo del vescovo di Roma dovrebbe essere attentamente definito, sia in continuità con gli antichi princìpi strutturali del cristianesimo, sia in risposta all’esigenza di un messaggio cristiano unitario nel mondo di oggi» (n. 169).
Ciò significa, ad esempio, che non si deve escludere la possibilità di «una più chiara distinzione tra le diverse responsabilità del Vescovo di Roma, soprattutto tra il suo ministero patriarcale nella Chiesa d’Occidente e il suo primordiale ministero di unità nella comunione delle Chiese, sia dell’Occidente che dell’Oriente.
Ampliando questa proposta, il Documento dichiara che sarebbe conveniente «considerare come le altre Chiese occidentali potrebbero rapportarsi con il Vescovo di Roma come primate, pur avendo esse stesse una certa autonomia» e accentuare, al tempo stesso, «l’esercizio del ministero del papa nella sua Chiesa particolare, la diocesi di Roma», per evidenziare «il ministero episcopale che egli condivide con i suoi fratelli vescovi» e, in questo modo, rinnovare «l’immagine del papato» (n. 179).
Primato, sinodalità e… corresponsabilità
Suppongo che le reazioni, dopo la lettura di questo Documento di lavoro, saranno le solite: coloro che lamentano – probabilmente ricorrendo a concetti piuttosto rozzi – l’erosione teologica che subisce in questo apporto il modello assolutista, monarchico e medievale del primato di Pietro o la concezione monolitica di una unità concepita e vissuta in termini e prassi verticistici e, quindi, per nulla policentrica.
Ci saranno le critiche e le lamentele di chi svilisce – parafrasando Agostino d’Ippona – la necessità e l’urgenza di un primato pontificio impegnato a curare l’unità nelle cose fondamentali, a difendere la libertà di ciò che è opinabile e a promuovere la carità in ogni cosa.
Oppure quella di chi continua a difendere a spada tratta la tristemente famosa Nota explicativa praevia alla costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium (1964); quella in cui si sostiene che il papa può agire «propria discretio» o «ad placitum» (cioè come solo lui ritiene opportuno), quando si tratta di attuare la collegialità episcopale nel governo, nel magistero e nell’organizzazione della Chiesa.
È opportuno ricordare che quella Nota» non fu discussa né approvata dai padri conciliari. Per questo motivo non cessa di essere un frutto deplorevole dell’assolutismo che circonda sempre l’autorità ecclesiale a tutti i suoi livelli quando non ha al suo fianco alcun contrappeso, in questo caso sinodale.
Immagino, allo stesso modo, che non mancheranno coloro che, senza riconoscere il progresso che l’articolazione del primato papale e della sinodalità comporta nel dialogo con le altre confessioni cristiane, ritengono che lo Strumento di lavoro sia troppo attento al primato di Pietro alla faccia della sinodalità di tutto il popolo di Dio, «infallibile quando crede».
Senza mancare di condividere l’ultima osservazione critica, credo che questo testo – felice e marcatamente teologico – stia chiedendo a gran voce una Legge fondamentale della Chiesa (la famosa Lex Ecclesiae fondamentalis), qualcosa come una Costituzione nella quale, almeno in una prima fase, noi cattolici abbiamo a sapere quali sono i diritti, i doveri e le competenze non solo del papa, ma anche delle Chiese locali, delle conferenze episcopali, della curia vaticana, degli eventuali patriarcati – prevedibilmente continentali –, dei vescovi e dei diversi consigli diocesani, oltre, ovviamente, di tutti i battezzati.
L’attuale Codice di diritto canonico è completamente privo di tutto questo, semplicemente perché è stato redatto mettendolo a servizio di un modello di Chiesa, in molti punti, clericale, oltre che involutivo e, quindi, per niente capace di articolare primato e sinodalità. E ancor meno attento alla corresponsabilità.
Mi rendo conto che, in questo modo, il primato del papa e la sinodalità si articolerebbero non solo tra di loro, ma anche con un punto centrale che in questo testo non ha il peso e l’entità che dovrebbe avere: la corresponsabilità di tutto il popolo di Dio – a cominciare da quella dei cattolici – nel magistero, nel governo e nella santificazione. Mi riferisco sia alla corresponsabilità che si fonda sul battesimo, sia a quella che scaturisce dal sacramento dell’ordine, quest’ultima fino ad oggi eccessivamente sganciata dal fondamento battesimale e, quindi, incline a incappare nel clericalismo.
Il lettore interessato ha tra le mani un importante contributo teologico sul papato e sulla sinodalità, ma sicuramente non gli sfugge – questo è almeno ciò che avviene in me – che tale primato e sinodalità si articolano con la responsabilità di tutti e con ciascuno dei cattolici per poter contare, una volta per tutte, su una Costituzione ecclesiale alla quale tutti saremmo soggetti, compreso un papato di matrice sinodale; e, naturalmente, l’episcopato, il presbiterato e tutti i battezzati.
Non credo che qualcosa di tutto ciò si possa vedere durante l’attuale pontificato. Ma non credo sia male continuare a ricordarlo.