L’Italia ha un grande privilegio: parlare nella lingua dei papi. Questo privilegio può essere utilizzato per apprezzarli o per criticarli – dipende -, ma comunque serve a capirli, prima e meglio di altri.
Nella circostanza di cui qui mi occupo, il vantaggio è stato sciupato. Eppure, Francesco ci aveva, anche questa volta, avvisato per tempo. Quando Francesco ci aveva detto che era cominciata una “guerra mondiale combattuta a pezzi”, ci aveva avvertito che un’epoca si stava chiudendo e che era ora di cambiare paradigma, con grande urgenza.
La trentennale epoca del multipolarismo – sebbene pochi davvero lo volessero -, della globalizzazione, purtroppo limitata al fatto mercantile, dopo un pessimo avvio, si chiude ritornando al passato, nonostante tutti i suoi avvisi. E il passato, quando torna, non è mai uguale a sé stesso. È, se possibile, peggiore.
Eppure, Francesco ci aveva ammonito − drammaticamente − nel suo secondo viaggio a Lesbo, circa il «naufragio delle civiltà». Abbiamo ascoltato?
Non siamo all’altezza delle sfumature
Alla base di questa incapacità di ascolto non c’è soltanto una nostra carenza di concentrazione sulle parole, bensì un problema di struttura evidentemente psichica: abbiamo sempre bisogno di un amico e di un nemico – chiaramente identificati -, cioè di un modello manicheistico di fondo, con cui interpretare il bene e il male ben contrapposti nel mondo, mentre ci viene richiesto di stare da una parte oppure dall’altra.
È indubbio che le polarità esistono. Ma, nella lingua di Francesco, il polo positivo e il polo negativo sono entrambi indispensabili per la vita degli esseri umani e del mondo. Non possiamo immaginare un movimento che prescinda dalla precedente immobilità.
Dice testualmente: «Romano Guardini mi ha aiutato con un suo libro per me importante, L’opposizione polare. Lui parlava di un’opposizione polare in cui i due opposti non si annullano. Non avviene neanche che un polo distrugga l’altro. Non c’è né contraddizione né identità. Per lui l’opposizione si risolve in un piano superiore. In quella soluzione però rimane la tensione bipolare. La tensione rimane, non si annulla. I limiti vanno superati non negandoli. Le opposizioni aiutano. La vita umana è strutturata in forma oppositiva. Ed è quello che succede adesso anche nella Chiesa. Le tensioni non vanno necessariamente risolte e omologate, non sono come le contraddizioni».
Perciò una volta ha detto che un vero compromesso è sempre nobile, perché porta ciascuno oltre il proprio limite. Mentre il nostro pensiero − specie politico − sa poco navigare in un mare così aperto: c’è sempre bisogno di qualcuno che ci dica dove sta il nord e dove il sud.
Eccoci, pertanto, all’archiviazione di un trentennio che avrebbe potuto essere di transito dal vecchio bipolarismo al nuovo multipolarismo, come multipolare è il mondo reale in sé. Questi anni sono stati anni usati male.
La nuova situazione probabilmente risparmierà l’Europa dal successo dalle minacce implosive dei sovranismi, la riporterà, da ora, ad essere l’ancella dell’ordine atlantico, per forza di cose. Si tornerà a gran velocità al bipolarismo. Le istituzioni multipolari già sono sparite. La globalizzazione − sino ad ora solo economica, frutto acerbo, quindi pericoloso, ma che poteva produrre una globalizzazione rispettosa delle diversità − sarà la seconda vittima. Il terzo passo indietro avverrà sul controllo degli armamenti.
Corsa agli armamenti
Dinnanzi a una tale scena papa Francesco − come un maestro di umanità di fronte a studenti svogliati e gravemente insufficienti − consacra al Cuore immacolato di Maria l’umanità intera, in particolare quella che sta in Russia e quella che sta in Ucraina. La stessa umanità.
A me sembra che abbia detto chiaramente, con ciò, almeno due cose. Dopo aver parlato col presidente ucraino Zelensky, ha detto di capire che gli ucraini desiderano la libertà: perciò vogliono difendersi. Il Paese vittima dell’aggressione russa non può volere, dunque, per Francesco, la vendetta. Una pace presto conseguita non potrà significare la preparazione di una vendetta poi. La pace deve avviare semmai un processo − per quanto difficilissimo − di riconciliazione, foriero di un’autentica ricostruzione.
Ha detto quindi di essersi vergognato nell’apprendere di ulteriori stanziamenti bellici italiani, europei, mondiali. Sono state parole dette a braccio, ma con estrema coerenza di visione e di pensiero. Altrimenti − secondo il pensiero di Francesco − il bipolarismo porta ancora al mondo in bianco e nero, ad un’altra guerra, poi ad un’altra ancora, sino alla fine. A Francesco non piace questo. Francesco sbotta. Francesco implora. Prega.
E qui, appunto, stupiscono − ma sino ad un certo punto − le reazioni entusiastiche ovvero critiche al papa sulla stampa italiana.
Uno dei giornali più intelligenti del fronte «interventista» − Il Foglio − lo ha equivocato, chiedendo come si possano dare armi agli ucraini per difendersi, se non aumentando la spesa militare già dal prossimo futuro.
Ma gli ucraini si stanno difendendo oggi. Mi auguro − come chiede loro Francesco − che non desiderino passare il resto della loro vita a combattere. Vorranno piuttosto archiviare questo tempo e sperare di poter ricostruire il loro Paese, magari non da soli. Chiederanno garanti e garanzie, tali da poter colmare definitivamente le trincee scavate attorno alle loro città!
Ucraina: tra cerniera e ultima barriera
Per ottenere garanti e garanzie andrà fatto quindi un investimento di pace sul loro − e quindi sul nostro − futuro: da posto armato di frontiera o da cerniera europea? Le frontiere raramente sono zone felici, soprattutto se sono cortine intransitabili. Quale futuro potrà liberamente scegliere il popolo ucraino: quello della funzione di cerniera, di cui tutti avranno interesse a prendersi cura; ovvero quello della cortina di ferro, di minaccia e di difesa?
Se − come sembra dall’andazzo generale − la seconda opzione si affermerà, l’Ucraina edificherà il suo − e il nostro domani − sul modello della Berlino dei tempi della guerra fredda.
Qualche collega dirà: «meglio così che sotto occupazione». Certamente. Ma rinunciare anche solo a sperare in uno scenario diverso non significa affatto voltare le spalle all’Ucraina. Il desiderio che l’Ucraina possa divenire una vera, curata, cerniera appare improbabile. Purtroppo, devo ammetterlo. Ma possiamo dunque rinunciare in partenza all’umano possibile? Francesco non vuole rinunciarvi di un nulla. Secondo me, non deve. Ma soprattutto, da cristiano, non può.
Questo fa sì che il Foglio e altri cadano nell’errore di tirarlo − per la tonaca − nel loro schema bipolare.
La questione che ripropone oggi Francesco è sempre, a mio avviso, la stessa, ed è caratteristica del suo pontificato. Proprio oggi, mentre abbiamo sotto lo sguardo le macerie del territorio ucraino, sappiamo immaginare, con lui, ponendoci sulla soglia del domani, il futuro dell’umanità? Il domani dell’Ucraina, ma anche il nostro domani. Come lo vogliono in Ucraina? Come lo vogliamo in Italia e in Europa? Pensiamo ad un mondo ancora costruito a saracinesche? Gli ultimi trent’anni, come del resto tutti i precedenti, allora sono passati invano?
Verso quale ordine globale?
L’ordine delle ripristinate trincee probabilmente cancellerà anche la fenditura che a fatica il Sud del mondo aveva aperto a favore dei diritti dei più poveri e di ogni essere umano. La guerra al terrorismo − prima americana e poi russa − sta chiudendo quella fenditura celandola nel novero dell’impossibile.
Il nuovo − o vecchissimo − ordine mondiale ripoterà agli imperi, ove vige il mero diritto degli stati − non dei popoli e non dei singoli. Le grandi potenze mondiali si divideranno specularmente sul fronte puramente retorico del «bene» e del «male».
È questo che vogliamo con la rinnovata − quasi unanime e persino entusiastica − corsa verso gli armamenti? Ci piace? Francesco sta dicendo che no, non gli piace affatto. Non è questo il futuro per cui si è speso e per cui si sta spendendo.
Questo non significa che il papa stia negando il diritto alla difesa. Il punto è capirlo nelle emozioni dell’oggi. Francesco sa bene che il baricentro geopolitico sta solo apparentemente tornando in Europa col discorso delle armi. Stuccare definitivamente la sottile fessura aperta sui diritti umani individuali fondamentali avrà conseguenze enormi per milioni e milioni di esseri viventi in tutto il mondo. Tanti torneranno numerosi in galere buie e impenetrabili.
Ma ad equivocare Francesco c’è anche l’altro fronte, quello che lo vede come il campione del no integrale, idealistico in astratto. Tale è l’errore, sempre impulsivo, che ha commesso a mio avviso, Il Riformista, rappresentando un papa oscurato − nella sua «vergogna» per le armi − da una sorta di ministero della propaganda.
Di certo il papa non è interventista, ci mancherebbe. Ma non ha mai detto agli ucraini «arrendetevi». La parola che ha scelto è stata «fermatevi!»: senza dire chi debba fermarsi, perché il papa non dà ordini. Ma è evidente a chi parlasse. Presentarlo però all’interno di uno schema binario significa fraintenderlo e strattonarlo.
Non ci sono i buoni di qua e i cattivi di là. I «senza se e senza ma» appartengono al linguaggio politico − di destra e di sinistra − a caccia di consensi elettorali. Ciò risponde alla pulsione profonda di avere di fronte un nemico chiaro, riconoscibile, certo. Questo schema ci può rassicurare. Forse. Ma dovremmo sapere che ciò non è l’altro che l’opera di un demonio che spezza a metà. Francesco evidentemente lo sa.
Ritengo inutile, se non equivoco, piegare una o più frasi del Vangelo per sostenere questa o quella tesi su questioni, non di etica personale, ma di rapporti fra gli stati per i quali può valere solo il diritto internazionale. Ora sulla questione attuale la realtà è chiara, come ha riconosciuto l’Assemblea dell’ONU : uno stato forte ha aggredito uno stato confinante per occuparlo o imporvi un regime satellite. Lo stato aggredito chiede aiuto per difendersi. E’ giusto o no accogliere concretamente la sua richiesta, correndo il rischio che l’appetito dell’aggressore domani si rivolga anche ad altri stati? Per me, sì. Contemporaneamente è certo necessario auspicare la pace, chiedere alle parti di trattare, ecc. Ma senza una concreta opzione, gli auspici e le esortazioni sono parole, belle sì, ma solo parole.
Sì, è giusto. Come è giusto è doveroso, anche per la più pacifica delle persone, correre in aiuto di una persona aggredita per strada. Pace non significa accettare i soprusi, specialmente quando sono rivolti agli altri e quando l’aggredito chiede aiuto.
Gesù non invita a un vittimista atteggiamento passivo, ma attivo, all’affermazione della propria dignità, come ha fatto lui stesso quando, dopo aver risposto al sommo sacerdote, una delle guardie presenti gli diede uno schiaffo dicendo: “Così rispondi al sommo sacerdote?” (Gv 18,23). Alla violenza ricevuta, Gesù non risponde offrendo l’altra guancia, bensì invitando la guardia a provare di ragionare con la propria testa (“Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”, Gv 18,23). Gesù, sollecitando la guardia a ragionare, cerca di fargli recuperare la sua autonomia di pensiero e con questa la sua umanità. Ma la guardia non risponde. È un servo ossequente, non un individuo in grado di pensare, è capace di violenza, non di parole. E gli schiaffi ricevuti da Gesù sono espressione di violenza propria dei servi (Mc 14,65), delle guardie e dei soldati (Gv 18,22;19,3), ovvero persone che non sono libere ma sottomesse e che si identificano con il potente che pur li opprime.
Alberto Maggi
Gesù si difende con il diritto, non con la violenza, tant’è vero che fa riporre la spada a Pietro che lo vorrebbe difendere dalle guardie venute ad arrestarlo. La risposta di Gesù (“Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?”, Gv 18,23) è la messa in pratica del principio della presunzione di innocenza ante litteram: è l’accusa – semmai – che deve dimostrare la fondatezza delle proprie accuse, non la difesa! Se non avviene così, siamo di fronte a un abuso, a un’ingiustizia commessa dalla “giustizia”. Ieri come oggi, nulla di nuovo sotto il sole.
Che tristezza quando si piega il Papa – o il Vangelo, o i Santi – alla propria opinione! Il Papa ha sempre detto che la violenza – le armi – non sono uno strumento cristiano/umano per risolvere i conflitti. La guerra giusta non esiste! «C’è bisogno di ripudiare la guerra, luogo di morte, dove i padri e le madri seppelliscono i figli, dove uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono. Ecco la bestialità della guerra, atto barbaro e sacrilego! La guerra non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia. Basta! Ci si fermi, tacciano le armi e si tratti seriamente per la pace»: questo ha detto Papa Francesco. È molto esigente, lo so, è controistintivo, ma è il messaggio cristiano: o si vive per la pace, o si tifa per la guerra, nonostante tutte le retoriche dietro cui ci si può ammantare. «Avete mai trovato chi dica che fa la guerra perché è crudele e imbecille? Tutti dicono che fanno la guerra per la giustizia» (Igino Giordani). Del resto ci si può arrivare anche con il pensiero “laico”: «La violenza non è forza ma debolezza, né mai può essere creatrice di cosa alcuna ma soltanto distruggitrice» (Benedetto Croce). L’ideologia e la tifoseria non fanno un buon servizio alla verità. Bisogna uscire dalla vecchia logica. Fin quando consideriamo la vita cristiana come una lotta dei buoni (noi) contro i cattivi (gli altri), non avremo capito nulla del messaggio inclusivo del Vangelo. Il Vangelo non dice mai “mors tua vita mea”, semmai dice il contrario. E in ogni caso Gesù non è venuto per una “parte”, ma per l’intera famiglia umana. È questo, in fondo, il ragionamento che sottostà alla “Fratelli tutti”. Bisogna uscire dalla vecchia logica.