Quando un papa si dimette

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domande a roma

Ritengo che tra le priorità emerse dopo la morte di Benedetto XVI vi sia quella di mettere a tema la ormai comprovata problematicità del titolo di “Papa emerito”, seguendo la tesi esposta, prima del passato conclave, dal card. Gianfranco Ghirlanda che, a inizio 2013, ha scritto su La Civiltà Cattolica: «È evidente che il Papa che si è dimesso non è più Papa, quindi non ha più alcuna potestà nella Chiesa e non può intromettersi in alcun affare di governo. Ci si può chiedere quale titolo conserverà Benedetto XVI. Pensiamo che gli dovrebbe essere attribuito il titolo di “Vescovo emerito di Roma”, come ogni altro Vescovo diocesano che cessa».

Non tutti erano della stessa idea dell’illustre canonista, sebbene il card. Müller – per opposte ragioni – abbia dissentito dall’uso del titolo di “Papa emerito”, ma per avversare l’idea del Papa dimissionato, non avendone condiviso il gesto.

Qui invece voglio presentare qualche ragione di apprezzamento di quell’atto, nella contemporaneità.  Non penso all’efficienza fisica e mentale, bensì a lucidità ed energia. Non essendo canonista – ma giornalista -, cerco di esprimere un punto di vista relativo alla Chiesa e ai segni dei tempi, alle esigenze del passato e a quelle del presente, al mutare dei tempi.

Parto da una analogia non ecclesiale. Per quanto possa apparire immediatamente non appropriata, intende cogliere la sensibilità contemporanea. Proviamo a immaginare le esequie di un Presidente della Repubblica non più in carica.

Chi penserebbe, oggi, in Italia, di proclamare il lutto nazionale, invitare i Capi di Stato di tutto il mondo, esporre la salma al Quirinale? Probabilmente nessuno: semplicemente perché nessuno lo penserebbe ancora come il Presidente. Perché, in tal caso, il titolo non inganna? Tutti sanno che il Presidente è uno, come il Papa.

Il vescovo di Roma

Ma col Papa, negli ambienti ecclesiali, i pensieri non funzionano allo stesso modo: non certo per responsabilità di Papa Benedetto, bensì a motivo di una deformazione storica e psicologica. Almeno così io ritengo. Chi sono infatti i cardinali? Sono i titolari delle chiese e delle parrocchie romane. Per via di questi titoli o diaconie sono chiamati a eleggere il Vescovo di Roma che, in quanto tale, è il successore di Pietro.

L’ha finalmente ricordato, dopo tanto tempo, Jorge Mario Bergoglio appena divenuto Francesco: «Voi sapete – ha detto – che il dovere del conclave è di dare un Vescovo a Roma. Ma sembra che i miei fratelli Cardinali siano andati a prenderlo quasi alla fine del mondo». Che vuol dire? Secondo me vuol dire che il Papa è tale in quanto Vescovo di Roma: perciò, se si dimette, diventa Vescovo emerito di Roma, proprio come è venuto, in questi giorni, pure dalle parole del card. Kasper.

Questa mia visione non fa tuttavia ancora i conti con l’evidenza della storia: gli uomini sono cambiati e, con loro, le strutture e le priorità. Alla stagione dei padri della Chiesa è presto subentrata la stagione “cesaropapista” che era collegata al potere dell’imperatore Costantino che presiedeva Concili, ancor prima di convertirsi.

Questa fase è stata seguita da quella più teocratica di Gregorio VII, Innocenzo III e Bonifacio VIII: una reazione alla precedente – per certi versi – comprensibile per i tempi. La novità teocratica è stata introdotta da Gregorio VII con il Dictatus Papae, per il quale il Pontefice romano è il solo universale, il solo che può usare insegne imperiali, il solo che può deporre imperatori.

Cesaropapismo e teocrazia sono chiaramente prodotti successivi – di alcuni o di molti secoli – a Cristo e a Pietro. Il Vescovo di Roma, nell’impianto teocratico, non sarà più un primus inter pares tra i Vescovi. Per emanciparne la figura dalla sottomissione dell’imperatore, venne elevato con investiture divine, come, del resto, in precedenza, avveniva proprio per l’imperatore.

Il corso della storia

Innocenzo III, nella Sicut Universitatis Conditor, ha messo in chiaro che «come Dio, creatore dell’universo, ha creato due grandi luci nel firmamento del cielo, la più grande per presiedere al giorno e la più piccola per presiedere alla notte, così egli ha stabilito nel firmamento della Chiesa universale, espressa col nome di cielo, due grandi dignità: la maggiore a presiedere – per così dire – ai giorni cioè alle anime, e la minore a presiedere alle notti cioè ai corpi. Esse sono l’autorità pontificia e il potere regio».

Il Papa è pure re. C’era bisogno d’altro? Sì! Non si può negare che Bonifacio VIII sia stato altrettanto esplicito nella sua Unam Sanctam Ecclesiam: «Proprio le parole del Vangelo ci insegnano che in questa Chiesa e nella sua potestà ci sono due spade, cioè la spirituale e la temporale».

I Papi citati hanno così, di fatto, reso irreversibile la divisione della “cristianità”, con la pretesa dell’unicità, la difficoltà, per non dire l’impossibilità di dialogare con gli altri cristiani e quindi – a suo tempo – di venire a patti con le ragioni della modernità.

Ora, un Papa così forgiato nel corso dei secoli può dimettersi? Ovviamente no!  Il caso di Celestino V non è in realtà così isolato, perché abdicarono, in epoca precedente alla svolta teocratica, sia Clemente (nel 97 d.C.), che Ponziano (nel 235), Marcellino (nel 304), Silverio (nel 537), Benedetto IX (nel 1045), Giovanni XVIII (nel giugno 1009) e Gregorio VI (nel 1046): la teocrazia ha inteso l’assoluto e non ha ammesso “relativismi”.

Il Papa deve essere un uomo assoluto, persino infallibile in materia di verità, secondo il Concilio Vaticano I. Da qui al monarca assoluto il passo è breve, specie se collochiamo gli attributi papali nel conflittuale rapporto col potere politico, così come la storia del nascente Stato italiano ha, ad esempio, mostrato. I contraccolpi hanno irrigidito la posizione. Tutto si poteva dunque immaginare fuorché un assoluto che si dimette.

Le dimissioni di Benedetto XVI

Benedetto XVI, dunque, dimettendosi, ha avuto un immenso coraggio e ha segnato un punto di frattura di per sé irrimediabile con la tradizione teocratica, ma non, di per sé, con la tradizione cristiana e cattolica, perché le vere tradizioni sono sempre dinamiche! Col suo gesto, il Papa è tornato ad essere, grazie al cielo e allo spirito conciliare, il primus inter pares, cioè il vescovo di Roma. Con un ritorno al passato, ha saputo guardare avanti.

Infatti, in Ratzinger − a mio parere − non c’era né teocrazia né cesaropapismo. Come ha ricordato il professor Massimo Borghesi nel 2005, nel 1998 Joseph Ratzinger aveva scritto:

Pensiamo all’episodio relativo al Sinodo di Milano del 355, quando Eusebio di Vercelli, una delle grandi figure che resistettero a questa identificazione, rifiutò di sottostare alla volontà dell’imperatore che voleva che egli firmasse un documento di fede ariana. A Eusebio, che considera questo documento non compatibile con le leggi della Chiesa, l’imperatore Costanzo risponde: La legge della Chiesa sono io. La fede è divenuta, quindi, una funzione dell’Impero. Eusebio è, con pochi altri, una delle grandi figure che, come ho detto, resistono a queste insinuazioni e difendono la libertà della Chiesa, la libertà della fede e anche la sua universalità.

Il Dio prossimo all’umano

Proviamo allora ad analizzare la questione guardando al contesto: non seguire il modello «assoluto» cosa sovverte? La teocrazia ha modificato il paradigma cristiano ed ecclesiale portandolo dalla linea di successione Cristo-Apostoli-Popolo di Dio a Cristo-Papa-Sacerdoti. In tempi imperiali e di poteri assoluti la seconda linea poteva avere una sua giustificazione. Oggi no. Il titolo di «vescovo emerito di Roma» aiuta a rientrare nella prima linea di successione, più umana, più attendibile e credibile.

In un’Europa scristianizzata – ma che io credo avverta di nuovo, intimamente, il bisogno dell’incanto di un Dio prossimo all’umano – ciò che serve è un linguaggio evocativo, semplice, fraterno, non altisonante, non retorico, non calato dall’alto. Più in generale – a un mondo complesso, dai tanti volti, che vorrebbe unirsi ma teme di uniformarsi – corrisponde molto più un linguaggio simile, con uno  stile simile, alle origini del cristianesimo.

Ha detto Francesco a Santa Marta il 23 ottobre 2015: «i tempi fanno quello che devono: cambiano» e «i cristiani devono fare quello che vuole Cristo: valutare i tempi e cambiare con loro, restando saldi nella verità del Vangelo».  Dire questo sembra − a una parte − rompere con la tradizione. Ma non è così, per la citata dinamicità delle tradizioni. Presentando il pensiero del genio cattolico di Giambattista Vico, Isaiah Berlin, così lo ha riassunto:

I primitivi non vivono né possono vivere la loro vita secondo principi immutabili, atemporali, perché allora non ci sarebbe crescita né mutamento storico, ma soltanto eterna ripetizione, come nella vita degli animali. L’uomo è una creatura che si auto-trasforma; il soddisfacimento di ciascuna serie di bisogni modifica il suo carattere e genera nuovi bisogni e nuove forme di vita: egli è un perpetuo crescere, guidato dalla Provvidenza che opera attraverso le sue passioni, attraverso i suoi stessi vizi. Non esiste un nocciolo fisso, immutabile comune a tutti gli uomini in tutti i tempi: nella vita e nella storia umane non c’è nulla che possa essere compreso se non in ragione di un processo.

Papato e profezia

Ecco, i processi! Sono passaggi decisivi per capire Francesco e il suo paradigma del primato del tempo sullo spazio. Nella famosa intervista rilasciata a padre Antonio Spadaro nel 2013, alla domanda «perché una Chiesa che torni all’ordine teocratico non andrebbe bene?», rispondeva:

Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio.

La profezia di Fratelli tutti − di unità nella diversità − nel richiamare il motivo del primus inter pares esprime il criterio con cui Francesco sta plasmando pure il nuovo collegio cardinalizio. La migliore descrizione, secondo me, dell’intendimento di Francesco l’ha data ancora padre Antonio Spadaro su La Civiltà Cattolica:

Potremmo meglio pensarla (la Chiesa) come una relazione sinfonica di note diverse che insieme danno vita a una composizione. Ma non si tratta di una sinfonia dove le parti sono già scritte e assegnate per l’esecuzione, ma di un concerto jazz, dove si suona seguendo l’ispirazione condivisa del momento. Questo è il ritmo del futuro: il jazz.

Resto nella metafora musicale: è il jazz, anche a mio avviso, a interpretare al meglio il tempo che viviamo. La tradizione cristiano-cattolica, se vissuta dinamicamente, è tra le poche che può aiutare il modo a darsi un governo fraterno, senza la pretesa folle della omologazione.

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8 Commenti

  1. Marco Ansalone 14 gennaio 2023
    • anima errante 15 gennaio 2023
      • Marco Ansalone 16 gennaio 2023
  2. Maria Giovanna 14 gennaio 2023
    • anima errante 14 gennaio 2023
  3. Fabio 13 gennaio 2023
    • anima errante 14 gennaio 2023
  4. Dario Busolini 13 gennaio 2023

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