Il papa a Timor Est: il caso Belo

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Il nome di Carlos Felipe Ximenes Belo, già vescovo di Dili, non è stato pronunciato. Papa Francesco nel viaggio asiatico in cui ha attraversato trionfalmente Timor Est non ne ha fatto cenno.

Gli abusi di cui è accusato e che hanno provocato il suo allontanamento dal paese nel 2002 e il successivo approdo in Portogallo (con alcuni anni di presenza in Mozambico) sono stati ignorati. Belo non rientra nella cerchia degli amici del pontefice come il vescovo Gustavo Oscar Zanchetta (condannato dal tribunale di Oràn, Argentina), p. Marko Ivan Rupnik (estromesso dalla Compagnia di Gesù) o fr. Enzo Bianchi (censurato dalla Segreteria di stato). Essi sono stati variamente «coperti». Le loro vicende giuridiche rallentate. L’esito finale in parte riconsiderato.

La reticenza di papa Francesco su Belo ha quindi altre ragioni. Si può comprendere non sulla linea di un ritorno indietro rispetto alla denuncia, alla difesa delle vittime e alla necessità di nuove prassi per la salvaguardia dei minori e dei fragili. È piuttosto comprensibile sulla linea che va dalla consapevolezza della Chiesa locale − che alimenta anche la coscienza civile del popolo − e la volontà papale di indicare un futuro percorribile e condiviso nel contesto religioso e geo-politico dell’area.

Denunce e censure

Nel settembre del 2022 il giornalista olandese Tjiyske Lingsma sulla rivista De Groene dà voce ad alcune delle vittime del vescovo che raccontano del suo modus operandi nei confronti di ragazzi e seminaristi. La Santa Sede conferma le censure e i limiti posti alla sua azione pastorale (anche nel 2021) e il nunzio in Timor, mons. Marco Sprizzi, ne parla alla televisione nazionale.

Tuttavia, nulla scalfisce il larghissimo sostegno della popolazione che considera Belo fra i padri della patria, eroe dell’indipendenza del paese, difensore delle vittime della repressione indonesiana (oltre centomila morti), dopo l’abbandono dei portoghesi, premio Nobel per la pace nel 1996. La sua immagine campeggia sui murales e la convinzione della sua innocenza è largamente condivisa. Non sono mancate richieste di una sua presenza in occasione della visita del papa.

L’atteggiamento dei responsabili delle comunità è di imbarazzo e di grande discrezione. Non ne parlano e considerano ormai archiviato il caso. In parallelo, vi è un secondo evento: la condanna civile e la riduzione allo stato laicale dell’americano Richard Daschabch riconosciuto colpevole di abusi su diverse ragazze orfane. Anche in questo caso, molto meno clamoroso del primo, non è scattato il boato dello scandalo. Le vittime restano silenziose e le denunce si perdono nei meandri degli uffici.

Parole misurate

Il papa non ha assecondato per nulla l’innocentismo diffuso e tanto mento l’eventuale presenza di Belo. Nel programma non si prevedeva un incontro con le vittime e, a livello locale, non è sorta alcuna richiesta. Assente ogni manifestazione di dissenso.

E, tuttavia, indicazioni generali ma non generiche nei confronti della custodia dei bambini sono state pronunciate:

«E non dimentichiamo tanti bambini e adolescenti offesi nella loro dignità, un fenomeno che sta affiorando in tutto il mondo: tutti siamo chiamati ad agire per prevenire ogni tipo di abuso e garantire una crescita serena dei nostri ragazzi».

E ai preti e ai religiosi ha ricordato che l’onore espresso dall’appellativo «Amu» (signore) con cui vengono chiamati li obbliga alla diffidenza verso l’esercizio di un potere dispotico che è all’origine degli abusi:

«Però, questo non deve farvi sentire superiori al popolo: voi venite dal popolo, siete nati da madri del popolo, siete cresciuti con il popolo. Non dimenticate la cultura del popolo che avete ricevuto. Non siete superiori. Non deve neanche indurvi nella tentazione della superbia e del potere».

Sul caso specifico si era espresso l’anno scorso in un’intervista all’Associated Press:

«Si tratta di una cosa molto vecchia, la consapevolezza di oggi non esisteva. E quando è venuto fuori il caso del vescovo di Timor Est, ho detto: “Sì, che venga alla luce del sole”. Non ho intenzione di insabbiare tutto. Ma si tratta di decisioni prese venticinque anni fa, quando non c’era questa consapevolezza».

Rimane la richiesta delle organizzazioni internazionali delle vittime e tutta la pesantezza dei vissuti di queste ultime. Fino a quando la coscienza ecclesiale, civile e culturale non porta a maturazione un’attenzione condivisa, consapevole e rispettosa, la denuncia si ritorce in una devastante contro-accusa: un «nuovo colonialismo», il tentativo di distruggere «la nostra identità di popolo e di stato, oltre alla nostra religione».

Può succedere che la discrezione o una parola prudente sia il modo più efficace per impedire i ritorni all’indietro. Conclusione, credo, legittima, ma discutibile.

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4 Commenti

  1. Giorgio Montresor 14 settembre 2024
    • Giorgio Montresor 14 settembre 2024
  2. Francesco Pieri 13 settembre 2024
  3. Marco 13 settembre 2024

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