Il 18 luglio ricorre il 150° anniversario del più importante documento approvato dal concilio Vaticano I: la votazione e la promulgazione nella basilica di San Pietro della costituzione Pastor aeternus, che sanciva il primato e l’infallibilità del romano pontefice.
Narrano le cronache che quella mattina si scatenò su Roma un torrentizio temporale accompagnato da incessanti tuoni e fulmini. Alla mentalità cattolica dell’epoca, abituata a leggere nella meteorologia i segni della conduzione della storia ad opera della Provvidenza, sembrò l’annuncio di un fosco futuro.
Louis Veuillot, direttore de L’univers, una delle testate che avevano condotto con più decisione la battaglia a favore delle tesi ultramontane, cercò di rasserenare gli animi, sostenendo che non c’era nulla da temere: la strada che si apriva alla Chiesa sarebbe stata impervia, ma, in seguito alle decisioni dell’assise ecumenica non ci potevano essere dubbi sull’esito della battaglia in corso tra di essa e il mondo moderno. Infatti, ora «abbiamo un Mosè, anzi uno più grande di Mosè».
Ma, ad alimentare le inquietudini giocavano diversi fattori. Il documento aveva incontrato un ampio consenso. Solamente due, infatti, erano stati i non placet. Tuttavia, in aula erano presenti 535 padri conciliari, il 25% in meno rispetto al giorno in cui era stata aperta l’assise ecumenica. Buona parte della minoranza anti-infallibilista, un centinaio di vescovi, aveva deciso di non partecipare alla sessione, allontanandosi dalla capitale la sera prima della votazione. Altri suoi esponenti, come il card. Gustav-Adolf von Hohenlohe, una figura di peso nella curia anche perché fratello del primo ministro bavarese, avevano deciso di restare, ma di disertare la riunione.
Alle inquietudini sull’unità della Chiesa si aggiungevano preoccupazioni sul suo isolamento internazionale. A nessuno sfuggiva che, in quel giorno solenne, il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede si era quasi completamente astenuto dall’assistere alla congregazione: era l’indiretta, ma evidente, manifestazione delle perplessità espresse da numerose cancellerie sull’opportunità politica della costituzione.
Prima il sole, poi la tempesta
Ma, ancor più che la constatazione dei problemi posti dal presente, era un ricordo del passato a turbare l’animo degli esponenti dell’intransigentismo cattolico, che pure avevano vinto la battaglia per assicurare al governo della Chiesa l’auspicato regime di monarchia assoluta.
L’8 dicembre 1854, al momento della proclamazione del dogma dell’immacolata concezione di Maria – con cui Pio IX aveva in pratica anticipato il modo di conduzione della Chiesa universale che la decisione del 18 luglio 1870 avrebbe poi formalizzato – un raggio di sole aveva attraversato una vetrata della basilica di San Pietro, illuminando il volto del pontefice mentre stava dando lettura della nuova definizione dogmatica. Agli occhi di chi interpretava la realtà con la lente figurinista si era trattato di un segno inviato dal cielo per confermare la tesi con cui i cattolici intransigenti avevano accompagnato i lavori preparatori della proclamazione: il dogma apriva la nuova epoca del trionfo della Chiesa sugli errori del mondo moderno.
Aveva consolidato queste speranze il Concordato con l’impero austriaco firmato nel 1855. Non solo poneva fine alla tradizionale politica giuseppinista di Vienna, ma sembrava aprire la strada al riconoscimento del primato delle norme ecclesiastiche sulla legislazione civile.
Taparelli d’Azeglio su La Civiltà Cattolica scriveva una serie di articoli per attribuire all’intercessione della Madonna, certo gratificata dall’incremento del culto derivante dal riconoscimento ufficiale del titolo d’Immacolata, un intervento provvidenziale sul decorso della storia che avviava il ritorno a quella cristianità medievale in cui gli uomini e i popoli erano docilmente sottomessi alla sapiente direzione del papa.
Ma ben presto dalla storia arrivava una pesante smentita. Il governo dell’imperatore Francesco Giuseppe si guardava bene dall’accondiscendere alle attese romane nell’interpretazione del nuovo accordo, avviando una prassi che avrebbe portato alla sua denuncia.
Un’altra vicenda destava ancora più allarme. Il tradizionale difensore del temporalismo pontificio, l’imperatore dei francesi Napoleone III, si mostrava sensibile alle tesi del primo ministro piemontese, il separatista Camillo Cavour. Questi da tempo ricordava che lo Stato della Chiesa, con il suo rifiuto di ogni ammodernamento, costituiva il focolaio di una perenne agitazione mazziniana che, minacciando la stabilità politica della penisola, rappresentava ormai il più serio pericolo al mantenimento dell’ordine in tutto il continente europeo. Si profilava un comune interesse delle potenze ad eliminare questo fattore d’infezione.
Era cambiato il clima
La proclamazione nel 1861 del Regno d’Italia, formatosi in gran parte a spese dei possedimenti del pontefice e la sfiducia, nonostante la Convenzione di settembre del 1864 tra Torino e Parigi, sull’effettiva volontà politica di voler garantire al papa anche l’ultimo brandello di sovranità territoriale, che era ritenuta l’unica garanzia di una reale libertà di esercizio della funzione petrina, avevano minato le fiduciose aspettative degli intransigenti.
Il nuovo dogma mariano non aveva segnato il capovolgimento del processo storico di quella modernità che aveva sottratto all’autorità ecclesiastica sfere sempre più ampie di competenza nel guidare la vita individuale e collettiva degli uomini. Nonostante il raggio di sole che aveva illuminato Pio IX, dall’8 dicembre 1854 l’allontanamento della società contemporanea dalla Chiesa si era intensificato.
La decisione di puntare sul primato e l’infallibilità del papa ne era stata l’ovvia conseguenza. Occorreva serrare i ranghi della compagine ecclesiale, fissare un ferreo ordine della catena di comando, stabilire una insindacabile gerarchia della struttura ecclesiastica in modo che tutta la Chiesa potesse presentarsi compattamente unita sotto la direzione di un capo, unico e assoluto, alla battaglia decisiva che il mondo moderno si apprestava a sferrare contro di essa.
Agli occhi degli intransigenti, che, anziché cercare di afferrare i segni dei tempi, si nutrivano della nostalgia per una mitizzata cristianità medievale, i progetti di laicizzazione degli Stati moderni, in particolare di quello italiano, celavano ben altro obiettivo: una radicale scristianizzazione.
Ma, anziché un raggio di sole, un violento temporale aveva accompagnato la decisione di dotare il papato dello strumento di governo giudicato idoneo a respingere questo diabolico assalto. Non significava forse che, nel disegno divino sulla storia, era prevista per la Chiesa una prova ulteriore e ancora più dolorosa?
Qualche settimana dopo, il 20 settembre 1870, l’esercito italiano entrava in Roma per la breccia di Porta Pia, riducendo il papa, che aveva rifiutato di bandire la crociata contro i nuovi turchi, ma aveva voluto fosse a tutti evidente che cedeva i suoi diritti sovrani solo perché costretto dalla violenza delle armi, alla misera condizione di “prigioniero in Vaticano”.
La cultura intransigente interpretò allora la tempesta del 18 luglio 1870 come il preannuncio della consumazione finale dei tempi. Forse che il 28 dicembre di quell’anno una piena mai vista del Tevere non aveva messo in ginocchio una città che si apprestava a ricevere come nuovo sovrano Vittorio Emanuele II? Forse che catastrofi naturali e disordini sociali, della cui frequenza i nuovi mezzi di comunicazione di massa davano continua notizia, non erano segni evidenti che l’ira divina stava per riversarsi su uomini che avevano osato rivoltarsi contro colui che la decisione conciliare aveva trasformato da «vicario di Pietro» a «vicario di Dio» in terra?
Non lo scontro ma il dialogo
L’attesa dell’apocalisse durò qualche anno; poi gli intransigenti cambiarono registro: si cominciò a pensare a come valersi dei nuovi strumenti, tra cui anche la costituzione Pastor aeternus, per lanciare il nuovo detentore della sovranità, il laicato cattolico, alla riconquista di una società moderna che si era sottratta alla direzione ecclesiastica.
Molto di più continuò, invece, un approccio alla storia che si ostinava a rifuggire dalla puntuale analisi dei dati concreti, per appoggiarsi su una visione figurativa, miracolistica e provvidenzialistica delle vicende umane. La celebrazione del centenario della Rivoluzione francese, nel 1889, ne vide una fioritura.
Contemporaneamente, anche la Storia della Chiesa si professionalizzava, adeguandosi agli sviluppi di un sapere storico che ambiva a farsi scienza. Ne scaturiva una crescente divaricazione tra i criteri di lettura della storia egemoni nell’istituzione ecclesiastica e i metodi della moderna critica storica.
A ricucire lo strappo ci sarebbe voluto un ex professore di storia ecclesiastica al seminario di Bergamo che, diventato papa, si valeva proprio dei poteri sanciti il 18 luglio 1870 per convocare un nuovo Concilio quasi un secolo dopo l’assemblea sospesa, senza chiudere i lavori, in seguito alla guerra franco-prussiana.
Il Vaticano II, consapevole che un’efficace presenza della Chiesa richiedeva di sostituire il dialogo allo scontro con il mondo moderno, scopriva che condizione essenziale per discernere i segni dei tempi era un profondo ripensamento dell’atteggiamento verso la storia. Si apriva così un cammino che, accelerato da papa Francesco, è tuttora in corso.