Rileggo quello che ho scritto ieri. Ho provato a raccontare alcune tipologie dei miei parrocchiani. Mi fa bene pensare a loro, ricordare i volti, i nomi, le storie, le abitudini e anche le manie. Scoprire la caratteristica di ciascuno mi aiuta a volergli bene, a sentirlo come unico e prezioso.
Quando mi prendono in giro, e colpiscono nel segno i miei lati ridicoli e goffi, se riesco ad andare oltre la mia suscettibilità capisco che ne ricevo del bene. Il rapporto diventa più sciolto e più sereno se riusciamo a non immaginarci perfetti, se guardiamo con ironia anche i nostri limiti; è più semplice poi dirsi le cose che contano davvero.
La fraternità di una parrocchia è un esperimento profetico: quello di mettere insieme un’umanità variegata e improbabile, che proprio perché non omogenea ha solo nel Vangelo il proprio baricentro.
Così provo a continuare il racconto. Dopo gli storpi e i maniaci, avevo lasciato indietro i “buoni”. Già il fatto che li ho messi per ultimi è indicativo: tanto loro non si lamentano mai!
Prima ancora di dire chi sono è importante dire che ci sono, esistono. Non diamolo troppo per scontato: dire che ci sono, significa andare contro i luoghi comuni che ci fanno credere che il mondo è cattivo, gli uomini sono lupi gli uni con gli altri… Per credere al contrario, devi proprio incontrare uno di loro, un uomo o una donna che semplicemente sono “buoni”. Li voglio ricordare per nome perché poi ciascuno ha una sua caratteristica distintiva.
Mario, per esempio, arriva prima. Vado a trovare un ammalato e scopro che Mario è passato prima di me a portargli la spesa. Incontro Peppino che cerca lavoro e vengo a sapere che Mario gli ha appena procurato due o tre traslochi da fare. Muore Giuseppina, storico personaggio delle case popolari, e il marito ringrazia ufficialmente Mario per l’aiuto e la vicinanza che gli ha offerto durante il periodo della malattia. Insomma, Mario arriva prima. Non lo vedi muoversi, te ne accorgi perché tu arrivi dopo e lui è già passato.
Mariuccia è un’istintiva; sembra nata apposta per fare le cose gratis. Basta vedere come si comporta con sua suocera. Sono anni che la vecchia non fa altro che lanciarle maledizioni, trattarla male, e suscitare inutili sensi di colpa nel marito. E lei come risponde? Moltiplicando il bene: le prepara da mangiare, la lava e le cambia i pannoloni, va trovarla ogni giorno, anche se il viaggio è disagevole e le sue gambe la reggono a fatica. Ma lei è fatta così. Anche a dirle di stare a casa, di risparmiarsi un po’, non serve a niente. Il suo è un bene che dilaga da ogni parte senza che lei nemmeno se ne accorga.
Il nome di Giuseppe è sulla bocca di tutti. Non certo perché sia un personaggio chiacchierato da rotocalco, ma perché è difficile trovare qualcuno cui non abbia fatto un piacere. Durante la scorsa benedizione delle famiglie, la signora Giovanna mi ha accolto mettendomi in guardia dal marito poco credente e un po’ anticlericale. Io ho provato ad entrare in comunicazione con molta discrezione. Ma ad un certo punto è saltato fuori il nome di Giuseppe, che lui aveva incontrato nel mondo del lavoro. È stato come un passepartout magico e potente. La buona fama di un parrocchiano aveva aperto una porta che sembrava sprangata. E mi fa bene ricordare che una parrocchia vive il suo compito di annunciare il Vangelo anche – e non poco – attraverso la “buona fama” dei suoi parrocchiani comuni e normali.
Giancarlo lavora in amministrazione. La precisione e la competenza sono i suoi marchi di fabbrica. Se c’è una “rogna” amministrativa, se ne fa carico lui. Ma la cosa che più mi commuove è che ogni volta che gli domando un piacere, o gli sottopongo una richiesta – a volte nel timore di gravare troppo le sue spalle – in realtà lui risponde come un ragazzino alla sua prima esperienza: «Va bene, cosa devo fare?». È uno di quelli che dice sempre di sì.
Qualche volta, nei suoi confronti, e nei confronti di altri collaboratori, mi accorgo che devo usare molta attenzione per non abusare della loro generosità. Mi ricordo la signora Antonietta; ero appena arrivato in parrocchia, e mi disse: «Don Giuseppe, lei mi dica sempre quello che c’è da fare, e qualche volta mi impedisca di farlo». L’ho presa in parola, le dico sempre tutto, ma qualche volta le dico anche: «Questa sera stai a casa, non venire, è bene che ti riposi».
I buoni sono così: tra l’ingenuo e il genuino. Da una parte, sembrano indifesi e, a volte, lo sono. Il bene li espone ai colpi della vita, ad essere “usati” da chi si approfitta di loro, eppure il loro tratto genuino prevale, alla lunga vince, perché quello che rimane è un senso di bene senza alcuna contraffazione.
Ti accorgi della differenza quando incontri qualcuno che fa del bene con una doppia intenzione: per affermare se stesso, per guadagnare credito, per non scontentare le aspettative altrui, per essere accettato… Vale per i buoni quello che diciamo per i prodotti doc: “diffidate delle imitazioni”! Il bene non è qualcosa che serve, ha ragione di fine e non di mezzo.
La carrellata potrebbe continuare, perché i buoni non finiscono mai, la loro presenza nascosta anima la mia parrocchia. Ma mi fermo qui, guardandoli con un pizzico di rammarico e di invidia, perché so di non essere ancora come loro.
don Giuseppe