Per l’ennesima volta, uscendo di chiesa, sono quasi inciampato sulla zingara appollaiata sui gradini con il bambino in braccio (suo o non suo sarebbe tutto da capire). Faccio due metri e mi ferma Cesare, un omone grande e grosso del gruppo sportivo, che mi dice: «Quella lì non possiamo cacciarla via? L’ho vista l’altro giorno spendere le monete alle macchinette del bar, e adesso è ancora qui a chiedere soldi». Cinque metri dopo mi ferma Maria Teresa, una zelante operatrice della Caritas parrocchiale, che mi dice con fare concitato e quasi aggressivo: «Ma per quella mamma con bambino possibile che la nostra parrocchia non faccia nulla? Dobbiamo aiutarla!».
La mia prima reazione sarebbe stata quella di mandare al diavolo tutti: la zingara, Cesare e Maria Teresa.
Quasi ogni domenica qualcuno mi ripropone il medesimo quesito. La presenza dei questuanti alle porte delle nostre chiese interroga la comunità che spesso si divide e non sa che cosa fare. A dire il vero io con lei.
Rifletto anzitutto su questa diversa reazione. Da una parte, la mia testa sta con Cesare: dare soldi significa incrementare un’attività illegale, lo sfruttamento di donne e soprattutto di bambini; non risolve alcun problema, dimentica altre povertà che non hanno l’arroganza di imporsi. Finisce per incrementare una forma assistenziale di aiuto che non intacca alla radice i problemi che creano la povertà, ma li mantiene.
Cesare ha tutte le ragioni di questo mondo. Ma la sua reazione è fin troppo fredda, e tante volte è una facile giustificazione per un’indifferenza che ormai si abitua alla presenza dei poveri come se fossero solo un fastidioso inconveniente da scacciare, come si scaccia una mosca dal naso.
Maria Teresa, invece, reagisce di pancia: lei non pensa a tutte le conseguenze, vede un bambino al freddo e sulla strada e sente che “deve” fare qualcosa. Magari è la reazione ad un senso di colpa, tipico di chi ha una casa comoda e riscaldata e un pranzo fin troppo abbondante. Magari è quel senso di onnipotenza che pensa sempre di dover “risolvere i problemi degli altri”. Eppure è un istinto che ha qualcosa di evangelico: i poveri sono un appello al quale non possiamo sottrarci. È questo un caso nel quale la testa e la pancia sono distanti, sembrano non intendersi.
Qualsiasi risposta posso dare a Cesare e a Maria Teresa mi lascia insoddisfatto. È come se mi lasciasse con le ossa rotte. Una frattura che non si aggiusta. E, quel che è peggio, anche la comunità ne esce spaccata. A pensarci bene, Cesare e Maria Teresa non si salutano più dopo un litigata proprio sulla presenza degli zingari e degli accattoni.
Sento di dover fare io per primo la fatica di riconnettere pancia e testa. Provo allora a ragionare. La loro presenza francamente mi infastidisce. Ma questo “fastidio” di cosa mi parla? Non voglio essere colluso con un sistema illegale e ingiusto che utilizza la povertà dei poveri a favore dei propri interessi. Sono certo che dare la mia offerta non riduce ma piuttosto rischia di incrementare lo sfruttamento dei bambini per l’accattonaggio. Se il trucco di far leva sul buon cuore funziona, qualcuno se ne servirà certamente.
D’altra parte, la presenza di queste persone mi rimanda a problemi che vanno al di là del piazzale della mia chiesa. Viviamo in una società che produce una divaricazione sempre maggiore e più ingiusta tra ricchi e poveri, che crea scarti e condizioni marginali. Non posso dimenticare che il mio benessere è pagato dalla condizione di miseria di qualcuno che non ha accesso agli stessi benefici.
Eppure tutti i ragionamenti che posso fare non riusciranno mai a cacciare lontano il pensiero che l’elemosina è il “grado zero” della carità. L’incontro di questa mattina, guarda caso, è capitato proprio dopo che in chiesa avevo proclamato il vangelo di Matteo: «Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Mt 6,2-4).
Le parole della Scrittura, tra l’altro, mi rimandano ad una lezione di stile. Tante volte ho fatto l’elemosina con rabbia e con risentimento, quasi buttando addosso i soldi alla gente che me li chiedeva, annullando con l’arroganza del mio gesto il piccolo beneficio economico che concedevo.
Quella dell’elemosina rimane una pratica ineliminabile. Casomai il problema è che oggi è diventato complicato anche fare l’elemosina. Io cerco di fare così. Non do soldi – in genere – alle porte della chiesa. Piuttosto, provo a destinare una parte del mio stipendio alla carità, secondo il principio della decima. A questo livello cerco di favorire – oltre le emergenze umanitarie del momento – quelle organizzazioni che sono in grado di affrontare con professionalità anche il problema dell’accattonaggio.
Oltre a questo, però, ogni tanto, quando posso, mi faccio carico di rispondere alla richiesta dell’elemosina, non con dei soldi ma spendendo un po’ del mio tempo. Accompagno qualcuno a prendere un cappuccino con brioche, al supermercato a fare la spesa ecc. Corro il rischio di una relazione difficile che non sempre so dove mi conduce: lo so per esperienza che mi espongo ad ulteriori imbrogli, e che i miei “clienti” cercheranno di farmi sentire in colpa qualunque cosa io faccia, proprio perché sono un prete.
Per ora, sono riuscito solo a trovare questi due atteggiamenti come risposta alla loro presenza scomoda. Per il resto sopporto il fastidio come una spina nel fianco, che mi rimanda ad una insuperabile incompiutezza di ogni carità, che mi chiede di continuare a pensare e ad agire in cerca di qualcosa di più.
Mi hanno aiutato le parole di papa Francesco rivolte alle comunità rom e sinti. Le sintetizzo in due slogan: «Non date occasioni per parlare male di voi» e «Mandate i vostri figli a scuola». Mi piacerebbe essere capace di una carità che non solo dona ma anche esige. Che cerca il bene perché stimola ciascuno ad essere protagonista del proprio bene. Ma ogni volta che mi trovo davanti ad un volto concreto e alle insistenti e seccanti richieste di assistenza, le parole mi vengono meno. Ho provato a dire più volte ad una zingara che quel bambino dovrebbe essere a scuola ma non vi racconto la riposta che ho ricevuto. Esito fallimentare.
Così pure rimango incerto su cosa rispondere a Cesare e a Maria Teresa. Forse posso solo dire di no ad entrambi: non possiamo cacciarli via a forza, se li mandiamo via noi, andranno comunque da qualche altra parte, e spostare il problema non è una soluzione. Ma devo anche dire che non siamo in grado come parrocchia di farci carico di quella zingara con il suo bambino. Dovremmo sapere dove abita, visitare il suo accampamento e magari non saremmo bene accetti. Per agire in questi campi occorre una professionalità che non abbiamo, ma possiamo attivarci per sostenere le organizzazioni che si dedicano in modo specifico al problema.
Mi tocca dire solo di no, non c’è via di scampo. Prego Dio che mi conservi questa inquietudine e questa incertezza, e che mi aiuti semplicemente a diventare più generoso.
don Giuseppe