Proprio mentre sto uscendo di casa per andare a trovare Guglielmina, arriva l’addetto delle pompe funebri a consegnarmi il foglio del comune per le esequie di domani. Il nome e il cognome del defunto non mi dicono niente. Nessun parente è passato ad avvertirmi, e in casa non troverò sicuramente nessuno perché è morto in casa di riposo.
Quando entro nell’appartamento di Guglielmina, malata terminale che da settimane vado regolarmente a trovare, mi colpisce la differenza di situazioni. Qui mi sento di casa, condivido con i figli i passaggi della fase terminale, il declino inarrestabile e l’insufficienza delle cure mediche. Ma mi capita anche di vivere con loro momenti di straordinaria normalità, non sequestrati dall’incombenza della morte, e istanti di preghiera e di condivisione della fede. Il tutto insieme ad una cura non invasiva e sobria, una bella umanità preoccupata di accompagnare fino all’ultimo senza eccessi e senza voler allungare ad ogni costo il corso di questa vita giunta al suo termine. Faccio loro compagnia, e il più delle volte imparo. Mi sembra che qui il vangelo sia di casa. Spezzare la Parola è possibile senza troppe forzature.
Dalla parte opposta – come nel caso del foglio anonimo recapitato di fretta –, sembra esserci solo una strana relazione che si crea per un attimo, in modo funzionale e con un profilo piuttosto burocratico.
Mentre torno a casa, mi scopro a pensare che non sto accompagnando Guglielmina a titolo personale. C’è tutta una fraternità e una comunità che pian piano e nascostamente conduce lei e i familiari verso il passaggio definitivo. Capita di rado, ma quando accade è una bella cosa. Tutta la comunità cristiana è una rete di relazioni che potrebbe rendersi delicatamente presente in un momento critico dell’esistenza delle persone come è quello della morte. Ci sono modi diversi, tipologie di accompagnamento differenziate, che possiamo mettere in atto e che, di fatto, accadono magari disordinatamente e che chiederebbero maggiore cura.
Ci sono storie, come quelle di Guglielmina, di persone note e care alla comunità, che tutti vivono, a cui tanti partecipano con l’affetto e la preghiera. Non capita spesso, ma sono momenti forti per la parrocchia, che cementano il senso di comunione tra le persone, stimolano aiuti reciproci concreti e fanno crescere il clima della preghiera. Una come Guglielmina che, per tutta la vita, si è spesa per la parrocchia, anche nella malattia e nella debolezza estrema continua a regalare e ad offrire qualcosa, e ci insegna a morire come un dono.
Ma non vorrei sottovalutare forme di accompagnamento più nascoste e meno appariscenti.
Ieri mattina, al bar dell’angolo, la signora Rosanna mi ha riferito che Attilio è stato ricoverato in ospedale. Lei va regolarmente a trovarlo e tiene i contatti con i familiari lontani. La sua presenza è anche per me un tramite indispensabile. Così come quella di Luigi che, ogni settimana, si reca a far visita a qualche parrocchiano ormai lungodegente nelle case di cura. Quando ritorna, mi aggiorna in maniera un poco confusa della situazione dell’uno o dell’altra, ma anche questo permette a loro di sentirsi ancora vivi e partecipi di una comunità.
A questo proposito, penso a quanto possa essere prezioso il servizio di chi porta la comunione ai malati. Ivana, che ha portato la comunione ad una donna anziana fino alla sua morte, mi racconta che i parenti sono rimasti affezionati a lei e la chiamano regolarmente. Quella comunione ha creato un legame profondo, anche e proprio attraverso la morte.
A proposito della comunione: capita sempre di meno che mi chiamino per un’unzione degli infermi e soprattutto è raro che lo facciano all’ultimo momento. Rimane, l’unzione, un segno bello ed efficace per accompagnare con la grazia il momento difficile della fine della vita. Ricordo qualche celebrazione commossa e sentita, dove una famiglia si stringeva attorno a chi affrontava la morte con tutta la fede e l’affetto possibile, e il sacramento ne era un segno straordinario.
Non è stato così per Franco, i cui parenti mi hanno chiamato ieri sera all’improvviso. Un tempo, mi sarei infastidito di più per una richiesta fatta “fuori tempo massimo”, con l’unica preoccupazione di non spaventare il morente con l’arrivo del prete. Ma poi, quando sono entrato in casa, ho capito che poteva far bene a loro, che avevano bisogno di trovare parole e gesti per vivere un congedo e che non riuscivano a trovarli da soli.
In situazioni come queste, così come per il funerale che dovrò celebrare domani, di cui non so assolutamente nulla, mi è di grande aiuto l’icona del buon ladrone. Ci sono situazioni che trovano la svolta della grazia all’ultimo istante. Dio non lascia nulla di intentato per offrire una possibilità di bene. Io non so come, ma anche nelle situazioni più apparentemente distanti e inadeguate c’è spazio per un soffio della grazia. Per questo cerco di andare oltre un gesto che può apparire solo di routine e di tradizione, e provo a porre attenzione alle sorprese dello Spirito onorando con fedeltà il mio compito.
Questi pensieri sull’accompagnare al morire mi fanno voler ancora più bene alla mia parrocchia. Questa forma di chiesa così antica e fragile, in crisi e mai vinta, ha la possibilità unica di abitare un territorio, riuscendo ad essere vicino alla vita quotidiana nei suoi passaggi decisivi. Me la immagino come una rete di relazioni che si fanno prossime alla vita di tutti. Non solo. Questo lavoro nascosto è una straordinaria scuola che chiede a ciascuno di noi ogni volta di convertirsi anzitutto ad uno stile discreto, affettuoso e rispettoso. È di fronte alla morte che impariamo il senso del poco da dire e del molto da tacere. È qui che qualche volta riascoltiamo come nuove pagine di Vangelo che alimentano la nostra fragile speranza.
Nel rosario di questa sera mi ricorderà come faccio da tempo, ogni giorno, di Guglielmina. Ma dirò qualche Ave Maria anche per chi non conosco e si avvicina al momento del proprio congedo. D’altra parte, la preghiera stessa lo dice: «Adesso e nell’ora della nostra morte. Amen». So di certo che Maria ascolterà questa mia preghiera e la sua materna dolcezza si farà vicina anche attraverso l’umanità di tanti miei parrocchiani, che saranno il tramite della tenerezza di Dio per chi muore.
don Giuseppe