Ero in chiesa a pregare questo pomeriggio quando mi si è avvicinato un signore di una certa età. Commosso mi chiede: «Lei è il parroco?». Non posso che rispondergli di sì. E lui, allora, ha cominciato a raccontare dei suoi tempi, di quando in questa parrocchia è cresciuto, si è sposato, dei preti che ha incontrato. Si sentiva a casa anche se distante da diversi anni. Qui c’erano le sue radici, le radici della sua fede, ed era contento di raccontarle. Mi fa bene quando sento qualcuno che chiama questa comunità la “mia” parrocchia. In quell’aggettivo possessivo c’è un affetto riconoscente, un senso di appartenenza che ha strutturato dei cammini e li ha accompagnati.
Per fortuna non capita solo a chi è assente da 20 o 30 anni. L’altro giorno Giovanna è tornata dopo due mesi nei quali è dovuta andare a curare la madre perché era il suo turno. Tra fratelli e sorelle si danno il cambio e tornano al paesino di origine per accudirla. E Giovanna mi ha detto: «Una delle cose che più mi è mancata è la mia parrocchia». Non ho approfondito. Non so se si riferiva alla messa della domenica, alla gente che incontrava per strada, alle mie prediche o alle sue amiche. Succede in questo caso, come spesso nella vita, che impariamo ad apprezzare le cose quando ci mancano. Una parrocchia la stimi ancora di più quando ne sei lontano. È anche questo un modo di vivere il senso di appartenenza che aiuta ad identificarsi, e a non sentirsi dei numeri.
Ciascuno poi vive il suo legame in modi diversi. C’è chi rimanda la partenza delle ferie per non mancare alla festa patronale, oppure che concorda le proprie assenze con gli altri volontari per seguire la contabilità parrocchiale, o che si mette a disposizione come autista o come cuoco per i campi estivi dei ragazzi. È gente che sente la parrocchia come la propria casa, un territorio da custodire e presidiare. Come fa la Lina che quando sono assente controlla ogni sera i cancelli per assicurarsi che vengano chiusi. Sono in tanti a “presidiare” questa casa perché la sentono loro.
Poi ci sono quelli che vivono il senso di appartenenza in modo più nascosto. Sì, perché non ci sono solo i “militanti”; una parrocchia è fatta anche di presenze invisibili, ma che non sono per questo meno affezionate. Io sono fortunato, perché facendo il prete spesso vengo a conoscenza di cammini che si sono legati alla nostra comunità pur senza darlo a vedere. Spesso sono frequentanti “della domenica” che hanno affinato una sensibilità per ciò che ascoltano e che celebrano; a volte sono “cani sciolti” che incrociano la parrocchia per occasioni particolari, ma nelle quali si sentono accolti, interpretati, accompagnati. Questo basta perché si sentano a casa e vivano questo luogo come un posto caro, anche se non lo frequentano con assiduità. Sono cammini molto gratuiti, percorsi nascosti e “carsici” ma che “fanno corpo”, e costituiscono una parte essenziale di una parrocchia.
E io mi chiedo allora: «Chi sono i “miei” parrocchiani? Quali sono i confini della “mia” parrocchia?». Devo allargare il cuore per rispondere. Perché ci stiano dentro tutti, perché nessuno senta questa casa come più “sua” di altri, perché il senso di appartenenza non si chiuda in confini autoreferenziali ma si allarghi con il respiro stesso di Dio. Capisco infatti che questo senso di “appartenere a qualcuno” è tanto importante quanto insidioso. La civiltà parrocchiale (quella in lenta agonia, tanto per intenderci) era capace di un fortissimo senso di appartenenza che rischiava di diventare un campanilismo. Ora corriamo il pericolo contrario: non apparteniamo a nessuno, ci muoviamo in una società “liquida” come si sul dire, e per questo fatichiamo ad affezionarci. Tra l’altro questa rarefazione del senso dei legami non rende per questo automaticamente le parrocchie più elastiche e più accoglienti. È vero il contrario: rischiano solo di divenire più anonime. L’accoglienza va di pari passo con quella necessaria sicurezza che dona proprio una sorta di “patto di alleanza”.
Succede per la parrocchia quello che accade per ogni “insediamento umano”. Chi vi entra a far parte avverte la possibilità di sentirsi protetto e sicuro. La sua appartenenza cresce nella misura in cui – in tanti modi diversi – si sente egli stesso responsabile della comunità che lo ha accolto. Per questo sono grato nel vedere che ancora oggi e forse oggi in modo nuovo e particolare, la parrocchia è capace di interpretare questo “bisogno di appartenenza” senza farlo diventare criterio di esclusione.
D’altra parte è il Vangelo che ci conduce in questa direzione. Nella casa del Padre mio, dice Giovanni, ci sono molte dimore. La traduzione precedente suonava in maniera leggermente diversa: “Ci sono molti posti”. Mi piace non perdere il senso di entrambe le sottolineature. Da una parte l’idea che “c’è posto per tutti” e nessuno deve sentirsi escluso. Dall’altra un accenno alla varietà e alla differenza dei luoghi dove abitare, una casa dove prendere dimora.
Forse solo in paradiso funziona così. Per adesso ci stiamo solo provando a costruire luoghi nei quali il radicamento dell’abitare tenga insieme il respiro grande dell’ospitare. Dei luoghi dove il “noi” sia abbastanza largo da essere per tutti, e “molti” non diventino una folla generica, ma un popolo tenuto insieme da legami veri.
E io, mi chiedo, a chi appartengo? Sono ormai parecchi anni che servo questa comunità e mi accorgo di quanto siano cresciuti affetti e legami senza i quali non saprei neppure chi sono. Il senso di appartenenza cresce con quello della riconoscenza. Sono vincolato alle persone perché in debito con loro. Eppure sono vincoli di libertà e non catene. È il Signore che me li ha fatti incontrare, è nel nome del Vangelo che siamo diventati un popolo. È lui la radice di questa appartenenza, e quindi lui ne definisce i confini. Andare in profondità nei legami in nome del Vangelo apre ad orizzonti sconfinati che tolgono il fiato ed aprono ad infinite sorprese. Sono il parroco di questa parrocchia di città: sembra grande ma non è nulla in confronto al sogno di Dio che cerca un posto per tutti. Sono parroco di questa parrocchia, ma i suoi confini rimangono aperti perché nessuno vada perduto.
Forse, Signore, mi chiedi troppo e non so se ne sono capace. Per fortuna mi hai affidato a gente buona che mi vuole bene, che custodisce il mio ministero. Mi sento a casa, e per questo non ho paura di tenere le porte spalancate.
don Giuseppe