Le coppie che seguono il corso fidanzati mi citano il titolo di un vecchio film: Indovina chi viene a cena. L’ospite imprevisto – nella pellicola in questione – era il fidanzato “di colore” di una ragazza bianca.
Non è proprio la stessa cosa, ma nella prima serata del corso fidanzati che da anni apriamo con un piccolo aperitivo, ci rendiamo conto che continuano ad essere in aumento le coppie che arrivano da paesi stranieri (per lo più filippini e sudamericani), oltre a qualche coppia mista. Non manca il tocco esotico di una bella giapponese e di una lituana dall’aspetto statuario.
L’altra sera sul Chronicon scrivevo delle “invasioni arabe” nel nostro oratorio, e concludevo con una domanda di carattere spirituale: quando accade che l’incontro abbia la fede come il proprio centro? Nel caso del corso fidanzati, e più ancora nei percorsi di iniziazione cristiana, sembra che succeda proprio questo: la comunità incontra degli stranieri a partire da una domanda di fede. Debbo aggiungere che – per fortuna –, soprattutto al corso per i fidanzati, non sono da solo. In questi caso più che in altri il prete da solo non basta.
Mi ricordo il caso di Devis e Conchita, due ragazzi giovanissimi di origine sudamericana. Non potevano partecipare al corso di preparazione perché lui lavorava presso un bar ogni sera. Per questo abbiamo dovuto “inventare” un percorso apposito con una delle coppie guida. È stato un felice incontro. Le due coppie si sono adottate reciprocamente e la mia presenza era semplicemente di raccordo, discreta, un po’ marginale, affettuosa. Per potersi sentire a casa, chi viene da mondi lontani deve poter entrare in relazione con vissuti “familiari”, persone concrete, normali, ospitali, perché il vissuto possa diventare la lingua comune nella quale intendersi.
Molte volte, infatti, il problema principale nell’accompagnare cammini di fede con persone straniere è la difficoltà ad esprimere la fede in una lingua diversa dalla propria. È quello che succede spesso negli incontri con i genitori dei bambini del catechismo. Ci proviamo in tutti i modi a “dare la parola” a tutti, perché esprimano qualcosa di personale. Abbiamo provato anche ad interrogarli sulle loro consuetudini, le loro feste, i loro ricordi. Ma non è così semplice vincere l’imbarazzo, la ritrosia, le barriere linguistiche e culturali. Non è di per sé così diverso da quello che accade con molti italiani: in questo caso non è un problema di lingua madre ma di povertà di retroterra spirituale. Al di là di qualche generica considerazione sul senso della fede e sull’appartenenza ecclesiale, faticano ad emergere parole vere capaci di esprimere un vissuto reale di fede.
Per tutti la questione è proprio quella di ricostruire un terreno comune, un vissuto normale, una pratica quotidiana dove la fede ritrova le parole semplici e elementari. Poi possiamo cercare di condividere questo terreno comune.
Ci troviamo oggi in un frangente inedito. Modi diversi di praticare la fede si trovano a convivere sotto lo stesso tetto. Mi colpisce una possibile analogia. Quello che accade nella mia parrocchia, non è simile a quanto succede in tante famiglie “miste”?
Mi chiedo spesso come si articola la vita di fede quotidiana là dove un cattolico sposa un’ortodossa, un’asiatica di origine buddista vive insieme a un cattolico, un giovane credente praticante si incontra con una brasiliana di qualche setta pentecostale. Dai loro equilibri, e anche dai loro dissidi, la comunità cristiana avrebbe molto da imparare.
Per esempio, Liliana, che viene dalla Romania, partecipa all’eucaristia con Daniele ogni domenica nella nostra chiesa. In casa loro, però, lei ha chiesto di avere un angolo di preghiera davanti alle icone portate dal suo paese. Questa richiesta ha stimolato e aiutato la loro preghiera di coppia. Ora Daniele prega ogni sera insieme a sua moglie, e certamente i loro bambini impareranno a pregare davanti ad una icona. Hanno molto da regalarsi l’uno con l’altra.
Nel nostro piccolo, come parrocchia, non mancano alcuni segni simpatici di visibilità dove gli “stranieri” trovano posto. È ormai qualche anno che alla Via Crucis solenne del venerdì santo l’onore e l’onere di portare il grande crocifisso è affidati ai volontari filippini, che si lamentano perché pesa troppo poco. Senza parlare poi dei chierichetti che servono messa: ne abbiamo di tutti i continenti e gli italiani tendono ormai ad essere una minoranza poco rilevante.
Della presenza di stranieri nelle nostre comunità mi è capitato di parlare con padre Joseph, filippino che aiuta nella parrocchia limitrofa. Lui segue anche una cappellania di connazionali. Mi raccontava del difficile equilibrio di un accompagnamento che tenga conto delle esigenze dei nuovi arrivati e dell’opportunità che si inseriscano nella vita normale delle parrocchie che trovano.
Come spesso capita, abbiamo la possibilità di imparare gli uni dagli altri. Le nostre comunità sicuramente possono apprendere dalle cappellanie per stranieri l’attenzione a percorsi mirati, graduali, rispettosi degli usi e costumi dei paesi di provenienza. A loro volta, le comunità etniche potrebbero muovere qualche passo per sentirsi più a casa in un ambiente plurale come quello della parrocchia, dove c’è posto per tutti e dove tutti possono trovare il loro posto.
Nell’ultimo viaggio in Terra Santa, alla basilica del Padre nostro, ho comprato un’infinità di cartoline con la preghiera di Gesù scritta in tutte le lingue del mondo. Io ne so leggere giusto un paio e non di più, ma questa sera mentre recito piano il Padre nostro in italiano ne tengo davanti qualcuna pensando ai miei fratelli che, con una lingua diversa, invocano lo stesso Padre.
don Giuseppe