A volte mi dico che in parrocchia si parla troppo. Questa mattina in sacrestia, prima della messa, la suora non mi ha lasciato spazio per prepararmi: aveva probabilmente bisogno di parlare. Come d’altro canto succede spesso in chiesa: le donne (ma gli uomini non sono da meno) prima del rosario parlottano (“ciacolano” direbbe Fernanda, che è veneta), creando un sottofondo fastidioso. Ci vorrebbe un po’ di silenzio. Ma chi sono io per reclamare?
Se penso alla mia mattinata, di parole ne ho sparate a raffica: dal predichino alla messa, alla meditazione che mi ha chiesto don Ivano per un gruppo di preti amici, alle chiacchiere scambiate per strada con la gente che ho incontrato, fino alle lunghe telefonate che ho dovuto fare una volta rientrato in parrocchia. Anch’io di parole ne dico fin troppe. Proprio per questo a volte provo una grande nostalgia del silenzio. Non è che ce ne siano pochi di silenzi, lungo la giornata, forse facciamo fatica a raccoglierli. Provo farlo stasera, sapendo che non tutti i silenzi sono uguali e che c’è bisogno di accoglierli e di comprenderli.
Per esempio. Oggi, incontrando per strada Gisella, mi sono lasciato andare ad una critica nei confronti di Ada, che presta il suo servizio al bar dell’oratorio. Me ne sono pentito subito dopo, ma ormai il danno era fatto. Mi dispiace, perché ho detto parole ingenerose, e soprattutto ho il fondato timore che queste stesse parole si propagheranno come un cancro. Ada non ne esce bene, ma – a dire il vero – non ne esco bene neppure io (e neppure Gisella, che di sicuro andrà in giro a riferire quanto le ho detto, alimentando la propria fama di pettegola). Se avessi fatto silenzio, sarebbe stato meglio. Mi dico che sono tante le situazioni nelle quali sarebbe più saggio tacere.
Ci sono silenzi che ti mancano e ci sono silenzi che ti pesano. Sul sagrato ho incontrato Daniele che, per l’ennesima volta, mi ha aggiornato sulla situazione di suo nipote Filippo che ha una grave disabilità. Tutte le volte che il nonno ne parla gli vengono le lacrime agli occhi. Io resto in imbarazzo di fronte a quest’uomo grande e grosso, disarmato davanti alla sofferenza del nipote, e mi accorgo di non avere parole da regalargli. Avverto come un peso e una mancanza questo silenzio, ma forse Daniele ne ha bisogno. Non gli servono le mie parole di conforto ma può sentirsi un po’ a casa raccontando la sua fatica. E per questo gli basta il mio silenzio.
Diverso ancora è il silenzio di quando le parole le avresti, ma ti accorgi che non sono opportune. Edvige è venuta oggi a parlarmi del suo gruppo di ascolto della Parola. Il responsabile, Luigi, ultimamente arriva poco preparato e introduce la serata in modo confuso. Si capisce che l’età lascia il segno, ma, come tanti vecchi, non “molla il pallino”. Problemi come questi ne incrocio a decine. Avrei molto da dire sia su Luigi che su Edvige, che probabilmente mira a prenderne il posto. Avverto la tentazione di entrare con parole un po’ dure o con qualche giudizio affrettato e ingeneroso. Ma intuisco che non è questo il momento di parlare, anche se non mi mancherebbero gli argomenti. Il problema in questo caso come in molti altri, non è solo che cosa dire ma come e quando. Una parola fuori posto è come una verità priva di carità: alla fine non è del tutto vera.
C’è un terzo silenzio che mi capita di vivere e di cui sento di avere bisogno. Mi torna alla mente ogni volta che apro una bottiglia di vino rosso d’annata: memore degli insegnamenti ricevuti, la stappo molto prima di assaporarne il contenuto perché il vino ha bisogno di decantare. Mi capita spesso di sentire il bisogno di lasciar decantare ascolti e incontri troppo intensi, troppo ravvicinati, troppo difficili… troppo! Ci tante cose che non posso subito comprendere ma posso custodire, e per questo ci vuole silenzio. Mi è caro quel versetto con cui Luca ritma i primi capitoli del vangelo dell’infanzia: Maria conserva e custodisce nel cuore tutto quello che accade meditandolo, ruminando, contenendo nel suo silenzio le parole misteriose che le sono state affidate. Così ci sono silenzi necessari per interiorizzare e rileggere la vita.
A volte mi capita di pensare alla parrocchia come ad una possibile oasi di silenzio. Non faccio fatica a rappresentarmi istantanee che descrivono questa vocazione al silenzio di una parrocchia. Franco lavora viaggiando tutta la settimana in giro per il mondo. Quando riesce a tornare a casa non perde mai la messa della domenica come sosta della sua vita frenetica. Mi dice sempre che celebrare la festa insieme alla comunità è per lui un vero momento di riposo. Quando penso a lui, mi sento responsabile per le parole e i silenzi che “presiedo” nella celebrazione. Capisco che troppe parole o parole fuori posto disturberebbero il suo riposo, suonerebbero come stonate; e percepisco l’importanza dei silenzi e delle pause con cui la liturgia ritma la preghiera.
Un’oasi così serve anche a chi ci arriva per caso o per altre vie. Luisa mi racconta che non riesce a stare in chiesa quando c’è tanta gente, soffre la folla, forse perché nella sua vita è già abbastanza assediata da persone che le fanno mancare il fiato. Allora entra in chiesa quando non c’è nessuno. Nella penombra, nella quiete e nel silenzio trova anche lei la strada per incontrare il Signore e per lasciarsi trovare da lui.
Tutte queste parole mi rimandano stasera all’importanza e alla delicatezza dei momenti che chiudono la mia giornata. Il silenzio della sera non è uno dei più facili. A volta la stanchezza mi impedisce di gustare questo spazio di decantazione. Spesso lo spreco cercando distrazioni, quasi a compensare la fatica del giorno. Altre volte lo riduco, lo accorcio quasi ne avessi paura. Quel silenzio mi aspetta, mi accoglie mi chiama: è il segreto dove deporre la bellezza e la fatica dei giorni per riconsegnarli nelle mani del Padre.
don Giuseppe