C’era una volta … la piazza, la fontana e il campanile. Luoghi di relazione, di vita e di fede. I centri storici meno vecchi hanno almeno mille anni. Tutto quello che c’è attorno è stato costruito da noi. Sono questi i posti dove si sono formate le identità e le culture, perché il modo di essere di una popolazione ha molto a che fare con la forma dei luoghi in cui si abita. Hanno costituito lo spazio nel quale gli uomini e le donne hanno imparato a incontrarsi, a misurarsi con se stessi e con gli altri.
Oggi, invece …. le nostre città sono diventate, da un lato, le aree dove si concentrano le risorse finanziarie e umane più qualificate e consistenti e, dall’altro, la calamita che attira un numero crescente di persone alla ricerca di una qualche possibilità di vita: migranti, esuli, esclusi. È questa la dinamica di fondo che rende le città contemporanee così ambivalenti: in una distanza geografica molto limitata si ritrovano gli ambiti finanziari, economici, tecnologici più avanzati, e masse di diseredati sprofondate nella miseria, non solo economica. È quanto rileva papa Francesco nella Evangelii gaudium scrivendo: «La città produce una sorta di permanente ambivalenza… offre ai suoi cittadini infinite possibilità… (ma appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti)»,[1] tanto che, a fianco dei «cittadini», vi sono anche i «non cittadini», i «cittadini a metà» e gli «avanzi urbani».[2]
1. Città osservabile e società urbana
Ogni insediamento umano è costituito da due diverse entità. Una, facile da descrivere, che è la città che vediamo, la città fisica, un oggetto sempre imponente, anche quando non è di dimensioni grandissime. Potremmo chiamarla la città visibile o, meglio, la città osservabile, quella cioè fatta di costruito, edifici e strutture, ma anche di persone fisiche e di animali e di tutti gli oggetti che vi si collocano.
Strettamente interconnessa con questa città ne esiste un’altra che non è osservabile con alcun tipo di lunghezza d’onda fisica, ma che produce, causa, costruisce, la città visibile. È la società urbana, con tutte le sue caratteristiche, demografiche, economiche, politiche e culturali, senza le quali la città non sarebbe così com’è, perché la città non è un fatto naturale, una montagna di pietra su cui la «muffa umana» si distende, adattandosi, ma un artefatto, prodotto a seguito di determinati processi sociali, non sempre trasparenti e non sempre ricostruibili nel loro percorso di realizzazione, ma in ogni caso esistenti.
Questa «città visibile», nella sua complessità, è stata oggetto di studi che ne hanno messo in luce le forme di deterioramento interiore: disintegrazione del tessuto sociale con l’affermarsi di individualismo e competitività; situazione di anonimato e perdita del vincolo sociale, senza identificazioni simboliche tra abitanti e habitat; distruzione dello spazio pubblico e nascita dello spazio funzionale: nella città moderna il luogo d’abitazione si riduce a coprire la funzione residenziale; non è più il luogo sulla base del quale si strutturano e si sintetizzano le varie attività umane.[3]
2. Mobilità, dislocazione, eterotopia
È possibile raccogliere tali mutamenti attorno a tre parole-chiave: mobilità, dislocazione ed eterotopia.
La mobilità
Afferma il filosofo Jean-Luc Nancy che «la città è innanzitutto una circolazione, un trasporto, una corsa, una mobilità, un’oscillazione, una vibrazione. Da ovunque essa rimanda ovunque e fuori da sé: ma il suo fuori è sempre meno la campagna […]; è piuttosto il fuori indefinito della città stessa che si allontana e riurbanizza sempre più lontano. […] Ogni luogo urbano rinvia ad altri luoghi e non esiste o non consiste che in tale rinvio».[4]
Da sempre, è nella città che si scambia, ci si incontra, ci si muove. E proprio per questo, la città è il luogo dove l’individuo sente di poter respirare più intensamente il senso di libertà e di movimento di cui è costantemente alla ricerca.
Ma, nella città contemporanea, gli scambi e gli incontri sono definiti dalla possibilità di determinare in modo nuovo la distanza e la prossimità, grazie alle risorse tecnologiche, istituzionali e infrastrutturali oggi disponibili. In questo senso, scrive ancora Nancy, la città è sempre più espressione del dispiegarsi della tecnica nella nostra vita quotidiana: «Anzi, è come se la città raccogliesse ed esprimesse l’essenza della tecnica. Come se sostituisse la natura con un altro spazio-tempo […]. Tutto nella città è preso da una diversa concatenazione […]. Questa è la verità tecnica: aprire passaggi in tutte le direzioni e senz’alcuna vocazione finale, andirivieni, eventi piuttosto che avventi».[5]
«La città contemporanea non riesce più − e forse vi non aspira nemmeno − a essere il luogo dove l’esperienza comune viene filtrata e sedimentata. Non ne ha più né il tempo né il modo. Il suo ideale non è più quello di essere il «luogo del vissuto», ma piuttosto quello di diventare il «luogo del vivente», sistema di opportunità, contenitore di possibilità, rinunciando a qualunque identità e consistenza preordinate, viste come degli obiettivi impedimenti alla dinamica del possibile. Il che concretamente significa che, nella città contemporanea, il luogo non ha più valore se non in chiave strumentale e comunque provvisoria e contingente, come punto di appoggio per l’azione e la realizzazione, mediante le quali diventa possibile il suo stesso superamento».[6]
Ciò comporta la difficoltà a fissare con un minimo di senso e di precisione i confini della città; e ancor più difficile è stabilire il suo dentro e il suo fuori: chi vive la città non è detto che coincida con chi vi abita. E, d’altra parte, il nascere in un luogo è sempre meno frequentemente l’elemento che prevede l’abitare in un dato posto.
Ciò significa che la città contemporanea tende a svilupparsi in tutte le direzioni, dentro e fuori di sé. Per esistere essa ha bisogno di essere totalità sparpagliata attraversata da genti, flussi e funzioni che vanno altrove e che fanno qualcosa di diverso dall’essere la vita e la coscienza della città.
La dislocazione e l’eterotopia
A Michel Foucault dobbiamo l’elaborazione del concetto di dislocazione per l’organizzazione spaziale della vita sociale.[7] All’inizio della modernità, l’organizzazione della vita sociale era caratterizzata dalla localizzazione: ogni luogo, stabile e ben delimitato, è collocato entro una gerarchia spaziale che coinvolge non solo la sfera terrestre, ma anche quella celeste, simbolicamente incarnate nella figura del monaco e del contadino.
Con la modernità si afferma la logica dell’estensione. Le grandi scoperte geografiche, le revisioni delle conoscenze astronomiche, l’avvento dei nuovi mezzi di trasporto, la diffusione dell’innovazione economica e sociale scardinano le vecchie gerarchie e aprono nuove possibilità. Emergono nuove figure esemplari, quali l’esploratore, il viaggiatore, il commerciante, l’innovatore. Ma, sebbene dinamizzato, nell’era dell’estensione, il movimento rimane caratterizzato dall’aspirazione a ricreare un’omogeneità. L’ampliamento è quantitativo più che qualitativo, e l’innovazione, così come la scoperta, avanza lungo una direttrice ben precisa, secondo una logica di tipo lineare.
Il nostro tempo, invece, è caratterizzato dalla capacità di stabilire delle relazioni tra punti differenti e lontani: nessun luogo esiste più per se stesso, ma sempre in relazione ad altro; ogni luogo viene continuamente dislocato, aperto, interconnesso. Il pendolare, il turista, l’uomo d’affari sono le figure archetipiche di questa fase e sono caratterizzate da movimenti ripetuti, iterativi, frammentati.
Ma tutto ciò non spegne il desiderio di trovare luoghi o spazi in cui poter ritrovare se stessi: di qui il concetto di «eterotopia» a significare luoghi reali, effettivi e che pure «costituiscono dei contro-luoghi, specie di utopie effettivamente realizzate, nelle quali i luoghi reali vengono al contempo rappresentati, contestati, sovvertiti».[8]
In quella sequenza senza fine di eventi e accadimenti in cui è inserita, e di cui semplicemente è teatro, la città contemporanea subisce un continuo processo di dislocazione per cui i diversi luoghi tendono ad acquisire significati diversificati e funzioni sempre più specializzate.
Ciò deriva dalla tendenza alla specializzazione di ambiti spaziali in base a determinate funzioni: la zona industriale attrezzata, le grandi stazioni ferroviarie, gli aeroporti, le cittadelle universitarie, le aree commerciali, i servizi pubblici, il centro commerciale.
La città contemporanea tende a coincidere sempre più strettamente con il suo sistema di funzioni, mentre si riduce fortemente il valore integrativo del luogo. Ciò implica un indebolimento del tessuto che tiene insieme queste diverse funzioni, ognuna delle quali tende a essere espressione di un codice tecnico specifico, che, proprio perché tale, è più intensamente collegato con altri luoghi simili sparsi in tutto il mondo di quanto non lo sia con ciò che gli sta fisicamente attorno.
Ciò accade anche sui piani che riguardano più direttamente la produzione culturale e i modi della socialità contemporanea. I parchi del divertimento, le isole pedonali, le piazze attrezzate, ma anche gli oratori, i centri d’ascolto e i centri sociali, tendono anch’essi a essere luoghi specializzati e dotati di un codice proprio, che vale solo al loro interno e il cui scopo è quello di sostenere una socialità che fatica a darsi in modo autonomo.
Il cittadino della città del nuovo secolo struttura la propria socialità avendo in testa una mappa di luoghi e di tempi dentro e fuori la città in cui vive. Una socialità che sempre meno si dà in maniera spontanea, semplicemente come espressione del contesto locale, e sempre più ha a che fare invece con l’attraversamento di eterotopie: per i ragazzi di oggi, andare a scuola è prima di tutto un’occasione di socialità con i coetanei; perdere il lavoro significa trovarsi esclusi da circuiti relazionali; passare il pomeriggio in un centro commerciale è un modo per incontrare qualcuno con cui scambiare qualche parola.
Ma eterotopie finiscono per formarsi anche come luoghi dove vengono concentrati tutti coloro che sono inadatti rispetto alla vita contemporanea. Ogni città ha le sue «discariche» dove vengono collocate quelle «vite di scarto»[9] che non si vogliono vedere e che non si sa come integrare: i centri di permanenza temporanea, le carceri superaffollate, i ghetti urbani, i campi rom, i palazzi abusivi.
Tutto ciò configura una situazione nuova, nella quale ci troviamo ad avere a che fare con una doppia differenziazione: oltre a quella dei ruoli, anche quella dei luoghi. Una volta spezzettati i ruoli rivestiti dalla singola persona umana (genitore, lavoratore, consumatore, fedele, ecc.), la differenziazione si estende ora all’organizzazione spaziale del mondo sociale, ai luoghi nei quali conduciamo la nostra vita quotidiana. La città diventa un agglomerato di funzioni e di popolazioni diverse, che rischiano di non sapere più esattamente da che cosa sono tenute insieme.
La città non vive più per se stessa, ma vive − mediante le sue funzioni − in rapporto ad altri luoghi, altre popolazioni, altri interessi, altre reti: la sua vitalità dipende da queste connessioni. E la stessa socialità rimane significativa se segue questi processi, mentre, laddove se ne distacca, diventa una specie di cascame. Il baricentro della città contemporanea non è più la socialità interna, quella fra gli abitanti. Il suo centro di gravità sta piuttosto nell’essere un insieme di funzioni, di luoghi capaci di produrre eventi, di controllare popolazioni, di generare flussi (materiali e immateriali) che la attraversano e che, almeno in parte, sono fuori dal suo controllo.
Lo sganciamento tra funzioni, flussi, reti e rapporti intersoggettivi della socialità umana tende a rendere questi ultimi irrilevanti, quasi superflui.
Persino nei quartieri «residuali», la socialità − di strada o di quartiere − tende a rattrappirsi e a esistere sempre meno come fatto diffuso e spontaneo. Persino in queste aree, si vede il sorgere di luoghi protetti e appositi dove si cerca di creare le condizioni per rendere la socialità ancora sperimentabile − i centri di ascolto, il centro famiglia, i centri sociali.
Così, se già con la seconda fase − quella dell’estensione − la città, intesa come polis, era venuta meno − tanto che si era dovuto creare un riferimento politico più grande con lo stato nazionale −, con la fase della dislocazione la città non è più nemmeno il contenitore nel quale la vita sociale può e di fatto ha luogo. La socialità fa sempre più fatica a riprodursi in modo autonomo perché essa esiste sempre più solo in rapporto alle funzioni che organizzano la vita della città, chiedendo quasi un’attenzione specifica, un lavoro ad hoc affinché gli esseri umani continuino ad avere la capacità di avere relazioni tra di loro.
3. La parrocchia e la città
Questi profondi cambiamenti interpellano la stessa configurazione ecclesiale: «Nella città abbiamo bisogno di altre “mappe”, altri paradigmi che ci aiutino a riposizionare i nostri pensieri e i nostri atteggiamenti. Non possiamo rimanere disorientati, perché tale sconcerto ci porta a sbagliare strada ….».[10]
Se, infatti, la preoccupazione essenziale della seconda metà del secolo scorso sembrava essere quella di costruire luoghi di culto nei quartieri di espansione delle varie città,[11] non altrettanta attenzione veniva contestualmente posta alla necessità di impostare una pastorale diversa che tenesse conto dei veloci cambiamenti in atto nella società. Tanto da potersi affermare che mentre ogni quartiere si dota di una nuova chiesa, «la pastorale della parrocchia è abbarbicata alle impostazioni della Chiesa rurale, e non sembra aver mai preso totalmente sul serio, almeno fino ai nostri giorni, la città in quanto tale. Per Comblin la pastorale urbana non esiste in senso vero e proprio: quanto si fa nelle città non è che la trasposizione di quanto si fa e si è fatto (anche con successo) nelle campagne. La città è stata considerata come un aggregato di paesi, ciascuno con la propria parrocchia, non come una realtà unica e organica. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Si corre ai ripari con la costituzione di organismi di collegamento che però hanno vita difficile e raramente raggiungono effetti apprezzabili. È l’impianto di fondo che andrebbe riconsiderato».[12]
È inevitabile, allora, ed è ormai noto, che la stessa istituzione parrocchia vive una profonda crisi: una crisi di identità: è spesso vista come il retaggio di un mondo che non esiste più; una crisi di rappresentanza: è ormai privata del suo ruolo simbolico nella società; una crisi di significato: non sembra più rispondere ai nuovi bisogni religiosi.[13]
Nella Evangelii gaudium, papa Francesco, se da un lato riconosce che «la parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità», dall’altro non manca di sottolineare che «dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione».[14]
Alcuni tentativi di riflessione[15] sono stati posti in essere, e alcune esperienze[16] stanno prendendo piede, ma il tema dell’essere parrocchia oggi in una città non è ancora, a pieno titolo, presente nell’agenda pastorale delle chiese locali italiane.
La conversione pastorale, premessa inevitabile per la pastorale in una grande città, passa attraverso il superamento di due posizioni contrapposte ma ugualmente discutibili. La prima è l’accomodazione allo spirito del tempo, che finisce in un relativismo senza idee né cuore che, dice papa Francesco, «lascia l’uomo affidato a se stesso ed emancipato dalla mano di Dio»;[17] la seconda è la chiusura istituzionale, tipica di una sotto-cultura ecclesiastica, di taglio clericale, che punta solo sulle sicurezze e cerca di difendersi perché vede nel mondo una minaccia e in fondo ignora la realtà. Il clericalismo è una difficoltà oggettiva che condiziona molte scelte pastorali, anche quando si nutre di verbalismo e dichiara di voler cambiare perché … tutto resti come prima!
La mobilità, l’accesso e la fruizione dei servizi, il luogo del lavoro, la ricerca stessa di luoghi di socializzazione producono un nuovo rapporto con il territorio, e interpellano in maniera particolare quel mondo parrocchiale basato, per definizione, sul territorio di residenza dei suoi fedeli. Oggi il quartiere non è più l’unità di base della vita.
Fintanto che la parrocchia si limiterà all’approccio territoriale essa continuerà ad avere tra i suoi «fruitori» gli anziani e i bambini.
Essa può, e deve, continuare a offrire un prezioso punto di riferimento alla città; la semplice presenza fisica dell’edificio «chiesa parrocchiale» ricorda alla città il «perché» del vivere e lo mantiene vivo.
Essa sta a dire che «nessuno è escluso dalla Chiesa, e anche il più povero e il più isolato appartiene a una comunità cristiana per il solo fatto di trovarsi da qualche parte».[18]
Le è chiesto però la capacità di essere «porta aperta» a tutti coloro che a essa si accostano, di mettersi a servizio dell’umanizzazione della città e di rompere con un atteggiamento esclusivamente territoriale e monocellulare. Resta come la «contestazione della solitudine» che segna la vita della città e la «grammatica di base» della vita ecclesiale, ma non è «la cornice per capire la città», ha necessità di aprirsi alle altre realtà ecclesiali presenti sul territorio.
Quale stile per una parrocchia in una grande città?
Lasciarsi interrogare dalla città e dai suoi mutamenti ha dato vita a una serie di risposte, variegate nelle loro formulazioni e strutturazioni, ma accomunate dal desiderio di «sconfinare» sia fisicamente dalla «struttura-parrocchia» con i suoi annessi servizi, sia di andare oltre le consuetudini che caratterizzano la vita parrocchiale: orari, celebrazioni…
Arnaud Join-Lambert in «Verso parrocchie liquide?» presenta alcune esperienze.[19]
Le citykichen, presente soprattutto in area tedesca, luoghi aperti a tutti, descritti come «oasi di silenzio», «luoghi di maturazione della fede», «luoghi di pausa» presenti nella city che è, per sua natura, caratterizzata da una concentrazione di servizi, dalla densità di edifici adibiti a servizi, poche abitazioni private; una zona dinamica, attrattiva, dove si mescolano impiegati e passanti, turisti e clienti. A seconda del servizio che offrono, assumono nomi diversi: kulturkirche, jugendkirche, angebotskirche…[20] «… questi luoghi d’incontro sono contrassegnati dal bello (esposizioni, concerti, creazioni artistiche e culturali, ecc.), dal bene (sostegno ai migranti, alle persone precarizzate, ecc.) e dal vero (formazioni, conferenze, scambi, ecc.)».[21]
L’autore cita ancora una serie di esperienze definite «incubatori» o startup. I primi sono progetti di una certa ampiezza, che hanno come scopo non solo l’approccio spirituale, ma soprattutto l’incontro di persone attorno a tematiche comuni. L’esperienza di Notre Dame de Pentecôte sul sagrato delle Défense offre occasioni di incontro ad associazioni di categorie con lo scopo di favorire l’incontro tra l’esperienza della fede e la vita professionale.
Le seconde sono luoghi in cui l’attività economica (caffè, albergo…) diventa occasione per sperimentare l’ospitalità come esperienza di incontro e di accoglienza.
«Sia per gli incubatori sia per le startup, quel che è in gioco principalmente sembra essere provocare e curare l’incontro. Il contatto diretto e fisico con tutti coloro, uomini e donne, che sono lontani dalle parrocchie è l’obiettivo comune di tali iniziative».[22]
La presenza di queste iniziative richiede alla parrocchia di ristrutturarsi in forma di «rete» e in «comunione di comunità».[23] Cambiamenti possibili solo a partire dall’acquisizione di reali convincimenti circa la necessità di mutare rotta e di adottare conseguenti atteggiamenti interiori.
Più che queste sue nuove strutturazioni, vorremmo qui indicare lo stile che dovrebbe caratterizzare la presenza della Chiesa, e della parrocchia in particolare, nella città.
Una presenza accogliente: se l’istituzione parrocchiale non è più sufficiente per comunicare il vangelo nello spazio urbano essa resta, in virtù della sua visibilità, un luogo in cui «chiunque» si può rifugiare, a suo piacimento. Accoglienza vuol dire attenzione alle persone, autentica apertura verso gli altri, un autentico interesse per quel che si è, in uno spirito di gratuità, con il desiderio di ricevere da queste persone qualche cosa del loro itinerario di vita o della loro esperienza di fede. Questa disposizione ad accogliere è sempre più necessaria, se consideriamo l’individualismo moderno incentrato sull’emergenza del soggetto e sulla terziarizzazione della vita. I nostri contemporanei meritano di essere accolti in ciò che essi vivono, in ciò che essi divengono, in ciò che essi sono. È il primo indice di rispetto che essi possono ricevere dalla comunità. «Questa accoglienza per ciascuno li riconosce come dei soggetti; è proprio ciò che l’individuo urbano rivendica come sua essenza. Riconoscerlo poi come un attore; colui che impara a creare la sua identità personale con gli altri. E lo riconosce finalmente come partner; perché viene coinvolto in un impegno con gli altri».[24]
Una presenza solidale. Inserita nel tessuto urbano la parrocchia non può non essere partecipe dei suoi problemi e delle sue sfide. È compito della comunità «coltivare la città» affinché diventi abitabile per tutti e che ciascuno possa trovare il proprio posto, in particolare le persone che vivono nella precarietà. L’opzione preferenziale per i più poveri è la «prima dimora della carità». «Come sono belle le città – scrive papa Francesco – che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo. Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!».[25]
Infine, una presenza umile. Un esserci che sfugge ai criteri d’efficacia tecnica e di redditività economica che domina la vita urbana. È presenza di ascolto della gente sola della città, della gente ferita nel cuore e anche nel corpo. È stima lucida e fiduciosa nei riguardi dei nostri contemporanei, nei riguardi delle loro ricerche e dei loro interrogativi. È un farsi compagnia lungo le affollate strade della città nella consapevolezza che, nella condivisione del cammino, ciascuno comunica qualcosa del vangelo in una «conversazione amichevole» (Paolo VI).
Antonio Mastantuono è docente di teologia pastorale, Pontificia Università Lateranense.
Il contributo è tratto dal n. 6/2016 di Orientamenti pastorali, edita dal Centro editoriale dehoniano.
[1] Francesco, Evangelii gaudium, n.74
[2] Ivi
[3] Tra gli studiosi che hanno fatto oggetto di riflessione le caratteristiche e i cambiamenti indotti dalla città, un posto particolare occupa Z. Bauman; in particolare abbiamo fatto rifierimento a: Z. Bauman, La società individualizzata. Come cambia la nostra esperienza, Il Mulino, Bologna 2001; Id., Fiducia e paura nella città, Bruno Mondadori, Milano 2005; Id., Individualmente insieme, Diabasis, Milano 2008; inoltre, L. Migliorini – L. Venini, Città e legami sociali, Carocci, Roma 2002; M. Colucci, La città solidale. Elementi per una nuova dinamica della qualità urbana, Franco Angeli, Milano 2001; P. Ceri, La società vunerabile. Quale sicurezza, quale libertà, Laterza, Roma-Bari 2003; C. Giaccardi – M. Magatti, L’Io globale. Dinamiche della socialità contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2005.
[4] J.-L. Nancy, La città lontana, Ombre Corte, Verona 2002, 43-48.
[5] Ivi, 47-48.
[6] M. Magatti, «Sulla nuova questione urbana. Dalle periferie ai quartieri sensibili», in Caritas Italiana (a cura di), La città abbandonata. Dove sono e come cambiano le periferie italiane, Il Mulino, Bologna 2007, 22.
[7] Cf. M. Foucault, Eterotopia. Luoghi e non luoghi metropolitani, Mimesis, Milano 1994.
[8] Ivi, 13.
[9] Cf. Z. Bauman, Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2004. Ricordiamo qui la denuncia della cultura dello scarto e la lotta contro di essa uno degli assi portanti del magistero di papa Francesco.
[10] Francesco, «Discorso ai partecipanti al I Congresso della pastorale delle grandi città», in L.M. Sistach (a cura di), La pastorale delle grandi città. Atti del I Congresso internazionale, LEV, Città del Vaticano 2015, 319.
[11] Ricordiamo il progetto Ventidue chiese per ventidue concili voluto dal Card. Montini a Milano nel 1961 per rispondere al fabbisogno di nuove chiese dovuto alla crescita edilizia e demografica della città, o l’iniziativa promossa dalla diocesi di Roma nel 1990 50 chiese per Roma 2000. Cf. C. Gnech (a cura di), Ventidue chiese per ventidue concili, Comitato per le nuove chiese, Milano 1969; C. De Carli (a cura di), Le nuove chiese della diocesi di Milano 1945-1993, Vita e Pensiero, Milano, 1994.
[12] G. Frosini, Babele o Gerusalemme? Teologia delle realtà terrestri 1. La città, EDB, Bologna 2007, 11-12.
[13] Cf. L. Bressan, La parrocchia oggi. Identità, trasformazioni, sfide, EDB, Bologna 2004, 77 ss.
[14] Francesco, Evangelii gaudium, n.28.
[15] Cf. Dieu en ville. Évangile et Églises dans l’espace urbain. Textes du Congrès de la Sociéte internationale de théologie pratique, Novalis, Outremont (Québec) 1998; G. Routhier-A. Borras (edd.), Paroisses et ministère. Métamophorses du paysage paroissial et avenir de la mission, Médiaspaul, Montréal 2001; «Défis actuel de la pastorale urbaine. Arriver en ville» , in Lumen Vitae 56 (2011), 362-447; L.M. Sistach (a cura di), La pastorale delle grandi città. Atti del I Congresso internazionale, LEV, Città del Vaticano 2015.
[16] Cf. A. Join-Lambert, «Verso parrocchie “liquide”? Nuovi sentieri di un cristianesimo per tutti», in La rivista del clero italiano 96(2015), 209-223.
[17] Francesco, Discorso ai partecipanti al I Congresso della pastorale delle grandi città, 319.
[18] F. Moog, «La conversion missionnaire des communautés paroissales. Un défi pour la nuovelle évangélisation», in Lumen vitae 67(2012), 206
[19] Cf. A. Join-Lambert, Verso parrocchie «liquide»?, 212-214. La categoria «liquidità» – formulata da Z. Bauman per descrivere la società contemporanea – utilizzata dall’autore leggere i rapporti sociali diviene una premessa fondamentale per «proporre alcune ipotesi perché il vangelo possa continuare ad essere annunciato a tutti, nei minimi anfratti della società occidentale, secondo le modalità di socializzazione e le espressioni culturali dei nostri tempi» (Ivi, 221).
[20] Cf. www.citykirchenprojekte.de.
[21] A. Join-Lambert, Verso parrocchie «liquide»?, 213.
[22] Ivi, 214
[23] A tali nuove forme è dedicato l’articolo di A. Bonora La parrocchia come rete, presente in questo dossier.
[24] A. Borras, «La comunicazione del vangelo nella grande città: spazi, agenti, condizioni», in L.M. Sistach (a cura di), La pastorale delle grandi città, 198.
[25] Francesco, Evangelii gaudium, n.210.