Dal 26 al 28 agosto ad Asiago si è svolto il primo incontro relativo al progetto “La Parrocchia del Triveneto: una sfida da accogliere”, organizzato dall’équipe coordinata da fratel Enzo Biemmi e sostenuta dall’ISSR di Verona e dalla Facoltà teologica del Triveneto. È l’inizio di un percorso che si snoderà in tre anni ed è sostenuto dalla CEI: un progetto di teologia pratica che approfondirà il grande tema della parrocchia in chiave missionaria. Pubblicheremo in tre puntate la relazione di fratel Biemmi.
Questo intervento non intende fare la sintesi dei lavori di gruppo (già presentata), ma di collocare quanto è emerso dai racconti in una riflessione pastorale più larga, in modo da renderci consapevoli della direzione da prendere. Di fatto, è il solo intervento propositivo di questa nostra tre giorni e per questo abbiamo voluto prepararlo con una certa cura.
È una riflessione che vi propongo come referente di questo progetto, ma è stata condivisa all’interno di un piccolo gruppo di noi in due tappe successive. È quindi anche il risultato di un lavoro comune. La proposta è divisa in tre parti.
La problematica
In questo primo punto proviamo a ridire in sintesi qual è la situazione rispetto alla parrocchia, i problemi che si pongono, le domande che ci facciamo. Cosa appare chiaro?
In Europa ci troviamo da tempo di fronte all’“arretramento o fine della civiltà parrocchiale” secondo l’espressione di Christoph Theobald.[1] L’affermazione piuttosto cruda non dice di per sé che sia finita la parrocchia (anche se più di uno lo crede) ma la forma della sua iscrizione sociale e territoriale tipica di una società di cristianità (coincidenza tra appartenenza civile e religiosa in un territorio preciso).
Se per alcune aree europee questo arretramento è già una fine, in altre, tra cui l’Italia, questo dato convive con un altro: continuità di una parziale identificazione, attese e domande proprie di una società di cristianità, la parrocchia come luogo di servizi religiosi. Questo costituisce una delle fatiche e delle frustrazioni più grandi per i parroci e gli operatori pastorali. Come si fa a parlare di “missione” quando quelli che vengono continuano a chiederci di essere una stazione di servizio?
In questo quadro si è inserita brutalmente la pandemia. «La pandemia è stata come una grande burrasca (o tempesta), che dall’albero parrocchia ha fatto cadere tante foglie e qualche ramo: l’albero ora è più spoglio e lascia vedere con chiarezza nodi problematici». «Ha funzionato anche come lente di ingrandimento, evidenziando problemi che c’erano anche prima e su cui anche prima riflettevamo in forme diverse (con l’impressione di essere in ritardo…): ad es. nel campo dell’IC, della corresponsabilità/ministerialità, del rapporto con il territorio… In questo senso la pandemia sembra aver agito da “acceleratore”».[2] Nello stesso tempo, la pandemia ha obbligato a smettere alcune cose e fatto nascere, come la tempesta Vaia, una nuova generatività anche se fragile. Capiamo bene la frase di papa Francesco: «Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla».
A partire soprattutto dagli anni ’80 la reazione delle diverse Chiese europee è stata di dedicare tutte le proprie energie alla ricomposizione del territorio ecclesiale: come reimpiantare la Chiesa in una cultura che l’ha emarginata o espulsa. Questo è stato fatto secondo una duplice strategia:
- quella della resistenza, che consiste nell’accettare l’esculturazione del cristianesimo in Europa, puntare sulla sua crescita e vitalità in altri continenti e qui costituirsi come “piccolo resto” più evangelico, con un ruolo contro-culturale di testimonianza. Il problema, secondo questa strategia, non è il cristianesimo e la forma di Chiesa, perché la fede è sempre uguale a se stessa, il problema è questa cultura. Non si parla quindi di riforma, ma di resistenza e radicalità di una minoranza;
- quella del ripensamento dell’identità del cristianesimo, della forma di Chiesa, della sua iscrizione territoriale, non contro ma dentro l’attuale cultura, di una rivisitazione del cristianesimo discendendo «verso quei “luoghi” elementari dell’esistenza umana e sociale dove nascono le nostre convinzioni».[3]
Per quanto riguarda il ripensamento della parrocchia nella sua modalità organizzativa, questo ha preso forme diverse riassumibili in due: le unità pastorali o aggregazioni simili; il rimodellamento interno alle parrocchie secondo modalità diverse in base ai contesti culturali e sociali. Il contesto urbano, per esempio, vede già volti di parrocchie molto diverse tra di loro.
La strategia di riorganizzazione, quando si è basata essenzialmente sul criterio del numero dei preti e quello di coprire un territorio sempre più vasto conservando tutto, ha mostrato in questi anni molti limiti, di natura diversa. Le “unità pastorali” come tentativo di soluzione possono essere nient’altro che un modello tridentino, portandolo al sovraccarico e qualche volta al collasso, aumentando i problemi organizzativi e il peso sulle spalle dei preti che restano e dei pochi laici che collaborano.
Arnaud Join-Lambert, di area belga, afferma: «La nostra ipotesi è che si sia fatto ricadere sulla parrocchia più di quanto essa non potesse accogliere (“tutto, per tutti, in un luogo”) in scala sempre più grande» (l’unità pastorale come la “parrocchiona”). Aumentare l’impegno organizzativo diminuisce sempre di più la possibilità per la comunità ecclesiale di rispondere alla necessità di vivere il vangelo e di annunciarlo. Anche i laici associati sperimentano questa fatica.
François Moog dice che le unità pastorali e i gruppi pastorali che sono nati per sostenerle sono spesso una variante ecclesiologica del modello precedente, in quanto sono sempre “alcuni” ad avere l’incarico del tutto e per tutti.[4]
Queste osservazioni suonano come un giudizio pesante su quanto fatto finora, ma non mettono di per sé in discussione la scelta (per tanti versi inevitabile se non l’unica possibile), ma invitano a verificare i criteri con la quale è stata fatta e viene condotta.
In alcuni gruppi questa questione è stata affrontata e i due racconti sono, da questo punto di vista, confortanti: si può rimodulare la presenza della Chiesa su un territorio non per semplice ampiamento di scala, ma facendo di questo un modo di mettere in atto un nuovo stile e un nuovo modo di essere comunità.
C’è ampio consenso sull’appello a una conversione missionaria della parrocchia e di tutte le forme pastorali. Due i numeri di EG che fanno da riferimento: il n. 27[5] e il n. 28.[6] Il codice “conversione missionaria” è ormai un dato condiviso, sia dai pronunciamenti del magistero,[7] sia dalla riflessione teologico-pastorale, sia da chi lavora alla base. Così condiviso e così ripetuto da divenire uno slogan.
Ma proprio su questo punto emerge un problema: come transitare dal modello attuale di parrocchia a una Chiesa missionaria? Il problema è pratico. Il problema sono i processi di transizione, il “tuilage”[8] tra una forma presente e una da creare: come transitare il cambiamento.[9]
Infine – e non è poco – resta da chiarire se la parrocchia è in grado di cambiare, visto che si tratta di una istituzione di per sé nata per il mantenimento e la conservazione e che non ha nel suo DNA una logica missionaria. O, al di là delle dichiarazioni e della difesa a spada tratta del “cattolicesimo popolare italiano”, questa parrocchia non è in grado di cambiare ed è meglio che gradualmente scompaia, a favore di altre forme di vita ecclesiale sorte in questi ultimi tempi? Continuiamo o no a puntare sulla parrocchia?
È su questa questione di fondo che tornerò alla fine di questa riflessione, perché è su questo che siamo chiamati a fare una scelta di campo.
Alcune convinzioni condivise
Dentro questo quadro, ricco di sfide e di interrogativi, si sono già delineate alcune convinzioni e anche alcuni indicatori di direzione, che proviamo semplicemente a nominare. Sono dei punti di riferimento abbastanza condivisi.
1) Una prima convinzione, rafforzata dal Covid ma già presente prima, è la necessità di tornare all’essenziale. Questo richiede un atto di discernimento che consiste nel riconoscere quello che finisce e quello che emerge nei cambiamenti attuali di società e di Chiesa. «Che cosa è essenziale nella vita della comunità cristiana, nella vita di fede, nel variare delle condizioni? In quali forme l’essenziale si può ridisegnare in modo che la perdita di una modalità non significhi perdita della vita nella fede? A livello di celebrazione-preghiera, di catechesi-formazione, di carità?».[10] È la domanda che ci siamo fatti nei gruppi.
2) La condizione per questo discernimento sull’essenziale è che la Chiesa non rimanga attaccata alle proprie strutture. La Chiesa non deve difendere le sue strutture, perché è cosciente di una missione che la supera e la anticipa: corre sempre dietro alla sua forma. Di conseguenza non è attaccata alla struttura parrocchiale come tale. Ciò che le importa è di dare al popolo di Dio la possibilità e i mezzi concreti di riunirsi, di praticare la fede e di avere il loro posto nella società.[11]
3) Nel ripensamento della parrocchia, quello che è in gioco non è solamente e tanto un rimodellamento istituzionale, ma una vera riforma interiore della Chiesa, di cui non conosciamo ancora tutte le conseguenze. Nella relazione costitutiva tra strutture e figura di Chiesa, la conversione delle strutture è condizione per una riforma di Chiesa.
4) Due sono le coordinate che devono orientare l’evoluzione missionaria della parrocchia: l’assunzione comune della missione di annuncio del vangelo, rendendolo disponibile a tutti; il posto e lo statuto della comunità cristiana nella società, come prossimità e segno della carità di Cristo. Queste sono le condizioni perché abbia senso accettare volentieri di essere una minoranza evangelica, e non una setta o un’espressione di controcultura.
5) Nel compito di rendere a tutti disponibile il vangelo (che è la prima coordinata) è prioritario che la parrocchia si configuri come lungo che si prende cura della fede di chiunque o fede elementare (Theobald), cioè della fiducia nella vita che mantiene la sua promessa di riuscita (di salvezza) contenuta già in ogni nascita. In questo senso per missione va inteso prima di tutto il servizio al Regno e non alla Chiesa e al suo accrescimento. Il riferimento diventano gli incontri di Gesù con la gente, non finalizzati prima di tutto a fare discepoli, ma a restituire vita. L’iscrizione della fede nelle esperienze fondamentali della vita è, dunque, la prima forma di “Chiesa in uscita”, dal mondo sacro alla vita delle persone. La vita della gente è alfabeto di Dio. Se una parrocchia fa questo, essa è missionaria.
6) Nello stesso tempo, la parrocchia va riconfigurata in modo che sia in grado di proporre nella libertà la fede discepolare o cristica, attraverso il kerigma come è inteso da EG 164,[12] e di nutrire la vita di fede dei credenti attraverso l’ascolto della Parola, momenti di interiorità, spazi di condivisione e di solidarietà, come indicato dalla prima comunità cristiana nel libro degli Atti.
7) La prossimità è la seconda coordinata di una parrocchia missionaria. Essa si esprime come solidarietà verso ogni forma di emarginazione, esclusione, violenza e ingiustizia e si traduce in un contributo per una umanità più fraterna e solidale, rendendo prossima la signoria di Dio.
8) L’assunzione della missionarietà come criterio di riforma chiede anche una rivisitazione dei funzionamenti interni della comunità, uno stile sinodale e di corresponsabilità, un’estensione della ministerialità, una ridefinizione del ministero del presbitero non nella linea del “pivot” (che sa circondarsi dei fedeli) ma del traghettatore, che sa realmente “esistere” per mettersi da parte, che esercita l’autorità per autorizzare i fedeli a divenire liberi e autonomi.[13] Un’altra immagine significativa per ridire nella prospettiva di una comunità missionaria la funzione del presbitero è quella del servizio «delle midolla e delle giunture» (Eb 4,12), del servizio di comunione che veglia alla crescita della comunità.
Quello della sinodalità dal basso e del ripensamento delle ministerialità ecclesiali sarà il nostro secondo punto di osservazione il prossimo anno.
Dalla condizione della secolarizzazione e dal dramma della pandemia esce una Chiesa ferita come la società in cui essa vive, dimagrita e interrogata (Laiti). Proprio questa condizione di fragilità appare favorevole per lo scongelamento delle sue strutture attuali e la loro rimodulazione in chiave missionaria.
[1] Christoph Theobald, Urgenze pastorali. Per una pedagogia della riforma, EDB, Bologna 2019, 81.
[2] Giuseppe Laiti, Verso una chiesa tra le case della gente. Prima lettura delle “schede di ritorno”. Si tratta della sintesi presentata da don Giuseppe Laiti sul lavoro di discernimento del clero di Verona nell’anno pastorale 2020-2021.
[3] Theobald parla di “accommodement” e di “dépassement”.
[4] Fançois Moog, La Participation des laïcs à la charge pastorale. Une évaluation théologique du c. 517 § 2 (Théologie à l’Université 14), DDB, Parigi 2010.
[5] «Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione…».
[6] «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità».
[7] Va segnalato in particolare per la Chiesa italiana il documento sulla conversione missionaria delle parrocchie, che ha anticipato molti temi presenti in Evangelii gaudium: CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, 2004.
[8] Si veda : Le “tuilage” en pastorale. Comment faire du neuf sans désavouer le passé? «Lumen Vitae» 2020 n. 4.
[9] Si tratta di tenere in tensione due versetti del vangelo: «vino nuovo in otri nuovi» (Mc 2,22) e «Ogni scriba divenuto discepolo è simile a un padrone di casa che trae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
[10] Giuseppe Laiti, ibidem.
[11] Mgr Claude Dagens, Le réaménagement des paroisses en France. Une réforme intérieure, in Les regroupement paroissiaux. Bilan et perspectives, «Lumen» Vitae 2012, n° 1, 104.
[12] «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti, e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno, per illuminarti, per rafforzarti, per liberarti».
[13] Christoph Theobald, Urgenze pastorali, o.c., 248.
Bene… Interessante…
Aspetto nei prossimi articoli la continuazione di quanto è stato elaborato nel convegno; un apporto salutare per una mia rivisitazione e conferma di alcune convinzioni che fortunatamente nel mio particolare percorso di sacerdote a servizio, ho maturato nelle varie comunità che in cui ho sostato qualche anno.
La mia non più giovane età non mi permetterà di approdare nelle “nuove indie”, ma non posso che gioire e sperare che lo stesso Spirito che ha guidato la chiesa nei primi anni ci faccia remare verso nuovi lidi, allontanando il pensiero che dopo ci sara solo “il diluvio”… Con simpatia all’articolista e ai conduttori – relatori/animatori del Convegno.
Raffaele – Parroco di San Martino in Peschera d/G