Non sparate sulla parrocchia

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La parrocchia nel tunnel della crisi

Il vento gelido di un’acre contestazione ha investito anche la parrocchia,[1] ma la sorte non è quella di finire, bensì solo di trasformarsi, tanto meno bisogna sparare su di essa per affrettarne la fine. Don Primo Mazzolari, il grande parroco di Bozzolo e di Cicognara, il prete italiano che Giovanni XXIII chiamò «la tromba dello Spirito Santo nel mantovano», ebbe a scrivere: «La parrocchia, che fu ed è, e non può non essere, la cellula della Chiesa, oggi è in crisi. Non si tratta di pessimismo o d’un modo di dire, è un fatto, che nessuno sinceramente può negare o fingere di non vedere».[2]

Le ragioni della crisi della parrocchia non sono tutte facilmente decifrabili, ma certamente rimandano, fra l’altro, ai grandi cambiamenti socio-culturali avvenuti a metà del secolo scorso: erano rivolgimenti sociali così vasti e radicali che molti si spinsero a parlare di superamento della parrocchia. La crisi della parrocchia, già denunciata prima del concilio, ha conosciuto, per così dire, un aggravamento, nel primo post-concilio: uno dei sintomi più evidenti di tale disagio è stato percepito dalla difficoltà a parlarne con la sicurezza di una volta, poiché nuove aggregazioni della vita di Chiesa (gruppi, movimenti e associazioni) sorgevano e s’espandevano di solito al di fuori dei suoi confini, insinuando il dubbio che esse potessero porsi come realtà ecclesiali alternative alla parrocchia stessa.

Da sorella minore a sorella maggiore

Si potrebbe dire che la parrocchia appariva come la sorella minore fra le altre aggregazioni ecclesiali. Fortunatamente oggi i sintomi di crisi divengono segni di speranza: la parrocchia torna al centro dell’attenzione pastorale. Qualcuno ha parlato, con un termine che non ci piace (gli slogan sono una rovina nella pastorale), di «rivincita della parrocchia» (Luca Bressan). Si tratta d’altro: si è tornati anzitutto al buonsenso (ve l’immaginate una pastorale senza parrocchia?) e poi s’è preso a riguardare saggiamente la parrocchia (troppo spesso divenuto oggetto solo delle scienze umane) all’interno dell’ecclesiologia conciliare e, in particolare, e a ricollocarne la riflessione nell’alveo del mistero della Chiesa locale.

Una domanda s’impone. A quali condizioni la parrocchia ha riacquistato e può consolidare le ragioni della sua validità? La domanda merita diverse e raffinate risposte.

Intanto si può accennare a due di esse. La prima: bisogna porre il tema della parrocchia “in contesto”, ripensarla cioè in stretto e vitale innesto con la situazione socio-culturale, che oggi è assai diversa da quella di un passato anche recente. La seconda: rileggere la parrocchia in termini teologici, riconsegnando alle considerazioni di natura storica e sociologica un valore di complemento, sia pure molto utile e senz’altro anche necessario.

La parrocchia «nostra ostinazione»[3]

Nel cuore del primo post-concilio, a partire dalla seconda metà degli anni 80, fiorisce un’impegnata riflessione teologico-pastorale sull’identità della parrocchia a diversi livelli e su differenti sollecitazioni, ad esempio storiche[4] e giuridiche.[5] Teologicamente si riprendono e si approfondiscono le tesi di K. Rahner e Y. Congar,[6] tendendo a descrivere la natura propria di Chiesa con cui si deve leggere l’identità della parrocchia,[7] senza tuttavia arrivare ad una conclusione definitiva né circa il rapporto parrocchia-Chiesa diocesana, né circa il rapporto tra parrocchia e altre comunità ecclesiali.[8]

Questa ricca riflessione teologico-pastorale non sempre ha influito, in modo esplicito, sull’opera pastorale. Spesso, purtroppo, il ripensare la parrocchia avviene nei soli termini della “riorganizzazione” istituzionale e strutturale, senza porsi interrogativi di natura teologica. Eppure, la teologia è arrivata a formulare proposizioni importanti sulla natura e sulla missione della parrocchia. Fra le altre, queste:

  • la parrocchia è chiesa locale;
  • il parroco è pastore proprio;
  • la caratteristica fondamentale attribuitale dal Codice sta nel dire che è comunità di fedeli in rapporto organico con una diocesi per mezzo del parroco;
  • la cura pastorale spetta alla comunità e non è il “fardello” del parroco.

 Ormai è sempre più consolidato lo sforzo d’operare una lettura teologica e pastorale dell’identità della parrocchia e della sua missione e, alla stessa luce teologico-pastorale, quello di rivitalizzare le forme della presenza e dell’azione pastorale,[9] sulla scia dell’ecclesiologia conciliare, ma anche sulla falsariga di quanto (a peso di carta è poco), il concilio ha detto sulla parrocchia.[10]

La parrocchia non è morta, ma vive

La parrocchia c’è: non è morta, al massimo è malata. Da questa constatazione si può e si deve partire. È la prima affermazione realistica, base di ogni discorso successivo. Prima di dire in quale stato sociale si trovi, quali difficoltà pastorali manifesti, in quale crisi o in quale eventuale policrisi sia irretita, è necessario dire anzitutto che la parrocchia c’è. Ha senso ed è doveroso porre l’accento sulle risorse di cui ancora dispone, sulle possibilità inespresse che essa possiede, anziché sugli aspetti di carenza diversa che essa accusa. Anzi, un’ottica di speranza, che per l’opera pastorale è del tutto doverosa, consiglia che anche gli aspetti difettosi o di vistoso limite che la parrocchia possiede vanno osservati e interpretati sullo sfondo della realtà esistente, la quale, al di là delle opacità d’ogni genere (il peccato personale, comunitario e anche quello che si sedimenta sul traliccio delle strutture), lascia pur sempre intravedere molte luci.

Va goduta, pertanto, la constatazione fatta con ponderato giudizio: «La parrocchia vive ancora, nonostante i diversi de profundis della secolarizzazione», alla quale, però, fanno seguito domande impegnative che richiedono una seria analisi: «quali sono le motivazioni della sua importanza? Sono solo sociologiche (la parrocchia come risorsa di integrazione comunitaria nel territorio)? E quali forme nuove dovrà assumere per essere all’altezza dei mutamenti socio-culturali, accelerati e vorticosi, del nostro tempo?».[11]

La bellezza che parrocchia già possiede

La parrocchia possiede già una varietà di ricchezze missionarie, che l’avvantaggiano in modo straordinario anche rispetto ad altre comunità cristiane.

La prima bellezza di una parrocchia è che è una famiglia, nella quale possono esprimersi i dinamismi d’una paternità, d’una fraternità e d’una sororità sacramentali, che la rendono capace d’interpretare, con maggiore realismo, il mistero della Chiesa, «casa di Dio» (cf. 1Tm 3,15), nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito (cf. Ef 2,19-22), la dimora di Dio con gli uomini (cf. Ap 21,3).[12]

La parrocchia è la casa bella. Oggi si sente il doppio bisogno della casa e della bellezza: la casa, quale segno e spazio in cui si realizza e si verifica la propria identità; la bellezza, quale via, spesso disertata o sconosciuta, che si pone come uscita di sicurezza in un tempo asfittico, che si offre come strada possibile in un tempo di crisi del senso e dei valori.

La parrocchia, quale casa bella, vuole proporsi come alternativa a tutti i luoghi del “disincontro”, ossia i luoghi nei quali non trovano più posto rispetto e amicizia, solidarietà e attenzione, cura dell’uomo e apertura alla trascendenza. La parrocchia è un luogo dove si realizza invece l’incontro, che è più del semplice rovescio del disincontro: è luogo in cui si fa l’esperienza della fraternità battesimale e della convivialità eucaristica, del perdono sacramentale e della scelta privilegiata dell’ultimo quale memoria speciale di Cristo che con l’ultimo vuole identificarsi (cf. Mt 25).

La bellezza che la parrocchia deve conquistare

C’è una bellezza sempre più espandibile e profonda a cui la parrocchia può e deve tendere.

1. La parrocchia e la bellezza della sua vita. La bellezza della parrocchia non è qualcosa di sovrapposto, ma emerge da quello che la parrocchia è; è il colore delle sue note caratteristiche, direi delle sue grazie. In concreto, la bellezza della parrocchia è:

  • il colore della sua prossimità con gli ambienti di vita;
  • il colore dell’essere il primo luogo d’accoglienza della Chiesa;
  • il colore della sua disponibilità d’apertura a tutti;
  • il colore della sua capacità di porre le persone a contatto;
  • il colore dell’essere luogo educativo ai valori umani e ai comportamenti ecclesiali;
  • il colore della sua capacità di assicurare continuità alla missione.

2. La parrocchia e la bellezza dei suoi luoghi. La bellezza della parrocchia è data dalla qualità spirituale e anche umana che connota i servizi che vengono resi in quattro punti della chiesa parrocchiale:

  • il battistero con lo splendore della figliolanza divina che ha la potenza di generare;
  • l’ambone con la luminosità della Parola creatrice e consolatrice;
  • l’altare con la sua sacralità;
  • il confessionale con la sua carica segreta di consolazione e di rigenerazione.

Quando questi luoghi sono fervidi, frequentati e animati da sapienza evangelica, allora la parrocchia si fa bella quasi con le sue stesse mani, perché s’avvantaggia dei dinamismi di purificazione, di crescita, di armonizzazione che riesce essa stessa ad attivare.

Ridare alla parrocchia la centralità che le spetta

La centralità di cui la parrocchia ha diritto e bisogno non va intesa nei termini di un primato vanitoso; si tratta piuttosto di una centralità rivendicata dalla sua natura teologica di comunità la più vicina alla Chiesa diocesana: essa è la comunità «eminente fra tutte quelle presenti in una diocesi».[13] Stante l’importanza teologica che la parrocchia ha e conserva nel tempo, essa è da considerare il laboratorio privilegiato di rinnovamento pastorale specie in tre ambiti complementari: quale luogo della pastorale ordinaria, quale luogo della corresponsabilità pastorale, quale luogo della dinamica missionaria.

La parrocchia, inoltre, è centrale in un senso molto serio: l’annuncio del Vangelo – nessuno lo può negare e nessuno lo dimentichi – ha sempre avuto bisogno d’uno spazio e un d’un tempo in cui radunare in assemblea i credenti; in questo senso, va intesa l’espressione di Giorgio La Pira: «Il cristianesimo è storia e geografia». Sul territorio i cristiani sono chiamati a dare la loro testimonianza di vita, ma anche ad accogliere, con apertura e fraternità, i segni con i quali lo Spirito li precede nella loro vita quotidiana.

La comunità parrocchiale è sollecitata a cogliere e decifrare il significato profondo delle relazioni umane, dell’annuncio di fede e della testimonianza tra gli uomini e le donne che abitano in un territorio, ma altresì a riconoscere la necessità della comunione e della collaborazione con altre presenze pastorali vicine, che le consentono di aprire nuovi orizzonti pastorali per raggiungere tutte le situazioni e gli ambienti di vita. In una parola sola, la parrocchia è proprio la realtà che s’offre al Vangelo come medium per l’espansione e la pratica del Vangelo.


[1] Tra gli ultimi e non senza ragione: D. Hervieu-Leger, Verso un nuovo cristianesimo? Introduzione alla sociologia del cristianesimo occidentale, Brescia 1989.
[2] La parrocchia, La Locusta, Vicenza 19634, p. 7.
[3] Cf. P. Scabini, Parrocchia, in M. Midali – R. Tonelli (a cura), Dizionario di Pastorale Giovanile, Torino, 1989, pp. 654-667.
[4] Cf. V. Bo, La storia della parrocchia, in V. Bo – S. Dianich – G. Cardaropoli, Parrocchia e pastorale parrocchiale. Storia teologia e linee pastorali, Bologna 1986, pp. 14-56. Per la storia della parrocchia nel primo millennio cristiano, cfr. anche: V. Bo, Storia della parrocchia. I secoli delle origini (sec. IV-V), Roma 1988; Id., Storia della parrocchia. I secoli dell’infanzia (sec VI-XI), Roma 1990.
[5] Cf. F. Coccopalmerio, Quaedam de conceptu paroeciae iuxta doctinam Vaticani II, in Periodica de re morali, canonica, liturgica 70 (1981) 119-140; Aa.Vv., La parrocchia e le sue strutture, Bologna 1987, pp. 5-27.
[6] Cf. K. Rahner, Pacifiche considerazioni sul principio parrocchiale, in Saggi sulla Chiesa, Roma 1966, pp. 337-394; K. Rahner, Per una teologia della parrocchia, in H. Rahner (a cura), La parrocchia. Dalla teologia alla prassi, Roma 1963 (1956), pp. 39-57.
[7] Cf. S. Dianich, La teologia della parrocchia, in Aa.Vv., Parrocchia e pastorale parrocchiale. Storia teologia e linee pastorali, Bologna 1986, pp. 57-103; Aa.Vv. (quaderni teologici del seminario di Brescia), La parrocchia come chiesa locale, Brescia 1993; S. Lanza, La chiesa si realizza in un luogo: riflessione teologico-pastorale, in N. Ciola (a cura), La parrocchia in un’ecclesiologia di comunione, Bologna 1995, pp. 109-158.
[8] Cf. G. Canobbio, Comunità ecclesiali di base: un’alternativa alla parrocchia ?, in Aa.Vv., La parrocchia come chiesa locale, Brescia 1993, pp. 117-147.
[9] Cf. F.G. Brambilla, Mutamenti e nuove forme della parrocchia. Una riflessione ecclesiologica, in Aa.Vv., Ripensare la parrocchia, Bologna 2004, 53-58.
[10] Cf. F. Coccopalmerio, Il concetto di parrocchia nel Vaticano II, in La Scuola Cattolica 106 (1978) 123-142.
[11] A. Staglianò, Introduzione a: Servizio nazionale per il Progetto culturale della CEI, Ripensare la parrocchia, Bologna 2004, p. 10. Il clima della secolarizzazione, pur essendo segnato da ambivalenza, è certamente caratterizzato da freddezza verso il fenomeno religioso in generale, ha scalfito anche il carattere religioso-familiare della parrocchia: cf. G. Verrengia, parrocchia, urbanesimo e secolarizzazione, Napoli 1978; L. Diotallevi, Il rompicapo della secolarizzazione italiana, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2001.
[12] Cf. Lumen gentium, n. 6.
[13] Giovanni Paolo II, Pastores gregis, n. 45.

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