Stella Morra, teologa, interviene nel dibattito sul modello “parrocchia” della pastorale, innescato da due interventi di don Gigi Maistrello (prima e seconda parte). Sul tema è già intervenuto don Antonio Torresin. Stella Morra ha pubblicato per EDB Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale.
Mi inserisco nel dibattito sulla forma di Chiesa che è rappresentato dalla parrocchia, cambiando già il titolo. Infatti questa è la prima questione seria: che cos’è che non deve morire? Una forma specifica, se pur gloriosa e per tanti secoli utilissima, del modo in cui la Chiesa ha strutturato la sua presenza tra le case della gente, oppure il filo ininterrotto di una Tradizione vivente, capace di trasmettere la benedizione dell’Evangelo nella concretezza della vita degli uomini e delle donne e di esserne un luogo di esperienza?
Questa domanda è decisiva, ovviamente. Ma è importante renderla “operativa” e non solo domanda di orizzonte teorico. Proviamo a dare qualche elemento per questa operatività.
Come ha funzionato la parrocchia
Le “forme” servono: l’esperienza cristiana non è una gnosi/insegnamento, né una pura illuminazione interiore. È una vita incarnata che, dunque, necessita di luoghi, tempi, spazi, incontri, parole, gesti, segni, simbolica, come tutte le cose della vita.
Ma le forme non servono ai perfetti, al contrario servono proprio agli imperfetti: presupporre una parrocchia che funzioni solo a condizione che chi la guida sia pieno di doti e di dedizione nega l’idea stessa di una forma che nasce per proteggere il popolo di Dio dagli abusi sempre possibili degli individui. Anche un pastore limitato in una forma-struttura che funziona è “contenuto”, e gli effetti dei suoi limiti sono mitigati dall’“impersonalità” della forma di Chiesa.
La parrocchia ha funzionato così per secoli: ha “costretto” i preti alla residenza in mezzo alla gente, ha garantito almeno il minimo dei sacramenti e (dopo il concilio di Trento) dell’insegnamento e della formazione, ha costituito un luogo di riferimento nel territorio e così via…
Come ogni forma, ha avuto limiti che, nello svolgersi dei secoli e nel cambiamento dei modi di vita delle persone, si sono esasperati e sono peggiorati: la determinazione centralizzata e unidirezionale dei ruoli (il papa nomina i vescovi, i vescovi nominano i parroci), che era garanzia di non legame ai potentati locali, si è assommata ai cambiamenti nel reclutamento del clero con effetti deleteri.
Fino agli anni ’50 (almeno in Italia), il clero reclutava gli aspiranti per la maggior parte tra i più intelligenti delle classi povere, come possibilità anche di studio e di ascesa sociale; ora il reclutamento avviene in genere tra le persone in complessità esistenziale… Così oggi spesso il parroco è un estraneo, da trattare con “cura” (sai com’è il parroco…).
Accanto a questo, una parrocchia pensata in una società che da secoli viveva sul principio di stabilità (si nasceva, si cresceva, ci si sposava e spesso si moriva nello stesso territorio parrocchiale) e che ha esasperato questo aspetto con una giuridizzazione esagerata (ci si sposa nella propria parrocchia, si fa catechismo nella propria parrocchia ecc…), non ha per nulla fatto i conti con una società che ha eletto la mobilità a ideale assoluto e che si confronta comunque con una instabilità necessaria e inevitabile (quasi nessuno di noi risiede e lavora quotidianamente nel territorio della stessa parrocchia, ad esempio).
Ruoli e modi da ripensare
Il primo dato che balza agli occhi e con cui bisogna fare i conti è che non è più possibile avere una sola forma di vita credente, efficiente per tutti e in ogni stagione della vita. E ogni pretesa di trovare una soluzione (siano unità pastorali, responsabilità laicali o ministeriali di porzioni di Chiesa, fraternità sacerdotali, proposte di movimenti, o qualsiasi altra) rimane testimonianza di una logica clericale, centralizzata e unidirezionale “dall’alto al basso”.
Servono Chiese locali che, sotto la custodia dell’unità esercitata dal vescovo (solo soggetto pieno di questo compito), custodiscano una sinfonia di forme diverse, che non avranno tutte la stessa importanza, né la stessa permanenza, ma tutte si riferiscano al vescovo. È in fondo quello che già accade: gruppi, movimenti, centri culturali, pastorale d’ambiente e così via, esistono già.
Forse ciò che deve morire è l’assolutizzazione della centralità della forma-parrocchia? Forse si tratta di cambiare il punto di vista nostro nella descrizione delle forme in cui la Tradizione è garantita come viva per una porzione del popolo di Dio?
Credo che le parrocchie esisteranno ancora e non per poco tempo, e saranno ancora luoghi vitali per molti: ma a condizione che non pensino di essere “la Chiesa” tout court e che non tutte le energie ecclesiali siano investite nel riempire le caselle dei ruoli a qualsiasi costo esasperando tutti. Spostare la centralità sulla Chiesa locale, diocesana, come il concilio Vaticano II ci invita a fare, non è operazione teorica e non è neppure ancora iniziata forse.
Un’osservazione conclusiva: questa logica diversa implica che sia la forma di Chiesa ad ascoltare la vita e non la forma di Chiesa a cercare di trasformare le esistenze (e poi lamentarsi di non riuscire a farlo), provocando fasulli meccanismi di idealizzazione. Solo un esempio per spiegare: nessuno oggi può coltivare le relazioni a cui tiene con tutto il tempo, con perenne disponibilità, con totale libertà. E spesso telefono, social e Skype ci aiutano a trovare modi di relazioni con figli lontani, con amici che possiamo vedere di persona magari solo una volta all’anno. Perché il luogo dell’esperienza ecclesiale dovrebbe essere diverso ed essere caratterizzato da una presenza (prete, diacono o laico che sia) ancora una volta “strano e diverso”, che ha tutto il tempo, che è sempre disponibile, e così via?
La vita cristiana chiede a tutti un sovrappiù di vigilanza e di discernimento, perché tutto ciò non diventi fredda burocrazia o funzionariato meccanico… Ma il problema è la qualità e la verità della relazione, non la forma in cui avviene.
C’è, come ci dice Francesco spesso, una conversione di sguardo da compiere e una creatività da mettere in opera con responsabilità e riconoscendo ciò che già è all’opera. In caso contrario, rischiamo di mettere sempre vino nuovo in otri vecchi.