Dopo aver presentato il “Progetto Parrocchia” (cf. qui), perché è nato e quale metodo di lavoro si è dato, la relazione finale descrive alcuni “blocchi” incontrati sulla strada del necessario cambiamento e ne individua le cause. La terza parte proporrà delle piste operative.
Ci siamo chiesti quale cambiamento, quale conversione (missionaria) le parrocchie sono chiamate a perseguire. Ma ogni reale cambiamento suscita delle resistenze; le inevitabili resistenze nascono perché tutti noi (persone, gruppi, comunità) tendiamo ad aggrapparci allo status quo, alla “cultura” che, nel tempo, più o meno consapevolmente, abbiamo contribuito a costruire, insieme agli altri, nei nostri contesti di vita.
In questo senso, le resistenze sono, paradossalmente, degli indicatori di cambiamento che vanno accolti, riconosciuti e quindi affrontati insieme (sicuramente non giudicati con supponenza).
Ecco allora che, per cambiare, per convertirci, è necessario destrutturare alcune strutture, alcuni blocchi (materiali, mentali, di funzionamento ecc…). Ma quali blocchi siamo chiamati a decostruire (cosa)? Attraverso quali processi (come)? E chi è chiamato a partecipare a tali processi di decostruzione[1]?
Dei blocchi al cambiamento emergono dai racconti ascoltati in questi tre anni; ne ricordiamo alcuni:
- la centratura della vita della parrocchia nell’unico ministero del presbitero;
- alcune rigidità canonico-giuridiche relative, in particolare, alla presidenza e alla rappresentanza legale del parroco;
- il peso delle strutture materiali e della gestione economica della parrocchia;
- la parrocchia vissuta come luogo di dispensa e fruizione di servizi;
- la parrocchia quale luogo “totalizzante” nella comunicazione della fede (in sostituzione della famiglia, delle relazioni quotidiane, delle altre forme di socialità);
- la relazione presbiteri-laici caratterizzata più dal binomio cooptazione-esecuzione che non da una reale corresponsabilità;
- le ministerialità battesimali vissute come forme di sostituzione e supplenza della ministerialità del presbitero;
- le ministerialità (e l’esercizio della leadership in genere) come dimensioni individuali più che come espressioni della comunità;
- l’azione pastorale centrata su logiche funzionali ed esecutive (il “fare” come realizzazione di progetti indicati dai livelli diocesano e/o nazionale);
- preservare l’esistente per la paura di perdere il poco che c’è…
- una mancata messa a tema della gestione del potere, perlopiù inteso come potere distributivo (a somma uguale a zero, cioè più ne ho io, meno ne hai tu) e non generativo (a somma maggiore di zero, cioè più ne ho io, più ne hai tu; o, detto altrimenti, più vivo evangelicamente il mio ministero, meglio permetto anche a te di viverlo evangelicamente e meglio lo viviamo insieme).
Il come decostruire queste resistenze, per passare dal modello attuale di parrocchia ad una parrocchia missionaria, è quello che in fondo ci siamo chiesti in questi tre anni; dai racconti e dai contributi emerge l’importanza di una parrocchia “processuale” in grado di abitare i territori umani e sociali e le tensioni tra stabilità e cammino, tra confine e sconfinamento.
Ciò significa camminare insieme nell’incertezza, accettando il fatto che nessuno di noi sa come va a finire; significa superare la diffidenza dell’altro, del territorio, del mondo, mettendosi in ascolto e lasciandoci contaminare; significa uscire dalla logica del dentro/fuori per abitare la tensione tra “guardarsi dentro” e “guardare fuori” (communitas come cum-moenia – mura comuni; e come cum-munia – compiti/doni comuni, dove la radice cum richiama la centralità della parrocchia quale spazio relazionale segno del Vangelo).
Resta il fatto che non è semplice parlare di “conversione missionaria” quando «quelli che vengono continuano a chiederci di essere una stazione di servizio» (Biemmi 2021). La tentazione di fare strappi può essere forte (lasciando indietro chi non vuole cambiare); ancora più forte la tentazione di stagnare in una «struttura irrazionale e insana» (Fabris 2022).
Ecco allora che l’approccio sinodale e partecipativo può essere una strada per una parrocchia generativa; un processo di presa di coscienza dei blocchi non può essere fatto da uno o da pochi (illuminati) ed essere imposto ad altri.
Prendere coscienza insieme degli “imbuti” che bloccano il nostro essere parrocchie missionarie è il primo passo da fare insieme (ecco il chi): ascoltandoci (e, così facendo, ascoltare lo Spirito); riconoscendo la dignità, la differenza, il valore dell’altro; confrontandoci; decidendo insieme.
Passaggi e acquisizioni
L’ascolto di ciò che si muove nelle parrocchie attraverso l’analisi di pratiche pastorali di “confine” (cf. R. Covi), ha portato all’attenzione dei passaggi nodali che chiedono di essere abitati con cura e con perseveranza. Su questi passaggi, infatti, sembra aprirsi il cammino oppure rischiare la stagnazione.
Il nodo/nesso comunità cristiana-parrocchia (territorio parrocchiale)
Da tempo la comunità cristiana non è più coestensiva con la popolazione che abita il territorio parrocchiale, sia perché la maggioranza della popolazione non si ritiene più parte di essa (exculturazione della fede), sia per la mobilità che caratterizza la vita oggi, sia per il carattere elettivo delle relazioni significative.[2]
Questa mutata condizione (fine della cristianità o della civiltà parrocchiale) pone la comunità cristiana in un contesto inedito che le domanda una conversione missionaria, ossia una profonda revisione del suo vario esprimersi perché risulti a servizio della prossimità del Vangelo a tutti e a servizio della varietà dei cammini di fede.
Questa istanza di fondo si incrocia con altri aspetti della vita delle parrocchie, in particolare con la riduzione del numero dei presbiteri e l’emergere di nuove ministerialità, incoraggiate dal magistero e dalla riflessione teologica sulla scorta del Vaticano II, in particolare dell’ecclesiologia di comunione e secondo la categoria di “popolo di Dio” che cammina nella storia. Le pratiche che abbiamo preso in esame portano spesso in risalto questo intreccio di fattori.
Il nodo/nesso chiesa e regno di Dio
La comunità cristiana, in condizione di minoranza nel territorio, lo riconosce sempre più come spazio della sua missione e, per intuirne i passi, si trova provocata a discernere i segni dello Spirito di Dio, gli appelli del Regno che vi affiorano.
Lo Spirito del Risorto ha una precedenza rispetto alla comunità cristiana che, del regno di Dio, è «segno e strumento» (LG 1), è a servizio di una forma di vita che corrisponda al desiderio di Dio per gli uomini. È la vita segnata dalla fraternità, secondo giustizia e pace, in grado di avere cura del creato come casa comune, vita di cui la comunità cristiana celebra la fonte nella pasqua di Gesù Signore, legge le strade nella sua parola di cui lo Spirito sparge l’efficacia nel cuore e nei gesti di chiunque cerchi la vita buona con cuore sincero.
La precedenza dello Spirito, dei suoi appelli nel vivo della vita di uomini e donne, chiama la comunità cristiana a un atteggiamento estroverso, alla lettura dei “segni dei tempi”, per realizzare fedelmente la sua presenza. È proprio nel servire il Regno di Dio tra gli uomini che essa trova le sollecitazioni giuste per darsi la forma secondo il Vangelo. È la missione che le offre le indicazioni per disegnarsi come «segno e strumento». Vivere il servizio del vangelo le dà la forma del servizio (si pensi semplicemente alla adozione della lingua per annunciare e celebrare…). La Chiesa vive del servizio del Vangelo e mentre lo serve (esercita la “mediazione” – ministerialità, disegna la sua forma, edifica sé stessa, trovandovi sempre nuove ragioni di ascolto del Vangelo…).
Il nodo/nesso comunità cristiana e ministeri
L’urgenza di dare al vangelo accessibilità nel quotidiano fa capire come è ogni vita cristiana che è chiamata a concorrere a realizzarla. La rivisitazione del Nuovo Testamento e della tradizione della Chiesa a cui questo sollecita porta in risalto la radice battesimale della ministerialità della Chiesa che non è assorbita nel ministero di presidenza attraverso l’ordine sacro.
La “pienezza” del ministero episcopale non equivale a centralizzazione o concentrazione, dice piuttosto condizione che consente e sollecita il riconoscimento di ogni ministerialità che lo Spirito promuove nella comunità di discepoli del Signore.[3]
L’attenzione alle condizioni dell’annuncio e alle modalità richieste dal servizio dei cammini di fede è via per riconoscere e promuovere la ministerialità radicata nel battesimo e nutrita dell’eucaristia. In proposito, la riflessione teologica è già stata attivata dalle urgenze pastorali.[4] La ministerialità battesimale diviene il quadro per la riformulazione del ministero presbiterale, della sua configurazione come “parroco” (già in movimento secondo il CDC 517).
Assumere il carattere sistemico del cambiamento
Un nodo su cui istruisce in modo particolare l’analisi delle pratiche pastorali è il carattere sistemico del cambiamento nel quale le parrocchie sono coinvolte.
Esso può, di volta in volta, partire da una pratica sorta in circostanze particolari (anche di emergenza), o da un’intuizione o anche da una riflessione, poi però per radicarsi e durare implica necessariamente i tre livelli delle convinzioni, atteggiamenti, operatività (della teologia, dei modi di porsi, delle strutture), a livello dei singoli e del funzionamento istituzionale.
Ogni disarticolazione/disarmonia nel processo di cambiamento porta con sé perdita di energie e di opportunità. Rischia di generare stanchezza e stagnazione.[5]
La posta in gioco: un passaggio prospettico di fondo
Da parrocchia/e custodi della fede e della vita cristiana, supposta patrimonio sociale comune (secondo logiche spesso di “controllo”), a parrocchia lievito e sale, come comunità che si riconosce “minoranza”, che fa della lettura del territorio una via di ascolto dei segni dello Spirito, in vista del servizio alle diverse figure della fede, che suggerisce la varietà delle figure ministeriali da discernere e promuovere in stile di sinodalità.
Non va mai perso di vista che la questione di fondo è la figura della fede cristiana oggi, la sua figura adulta, e il servizio che è chiamata a rendere al regno di Dio.
Il cambiamento che ci ha colto di sorpresa e ha spiazzato una prassi pastorale collaudata può diventare kairòs per istruirci sulla gratuità del Vangelo che è poi la gratuità di Dio e farlo così riconoscere come la realtà più necessaria, quella che più ci dà gioia, poiché nel gratuito è “nascosto” ciò che più ci è necessario per la gioia della vita (Evangelii gaudium).
[1] Tali processi di decostruzione sono da intendersi, nella prospettiva di una conversione missionaria della parrocchia, come i primi necessari passi di costruzione. Non c’è reale costruzione se non attraverso il riconoscimento insieme dei blocchi che non ci permettono di cambiare.
[2] Il territorio da spazio geografico si sposta sempre più nella direzione di “contesto esistenziale” (cf. CPCPM 16).
[3] Cf. Ch. Theobald, Renouveler la théologie des ministères à partir des communautés, in RTL 54(2013), 1-31; J. Famerée, Quels ministères pour une Église synodale? In Spiritus 251(2023) 172-184.
[4] Cf. Papa Francesco, Messaggio per i 50 anni di Ministeria quaedam 15 agosto 2022): al n. 8 e 10 parla esplicitamente di “ministeri battesimali”.
[5] Qui il contributo delle scienze sociali e della formazione può dare un contributo non di poco conto.
La parrocchia è già abbastanza decostruita: ora è tempo di rimettere insieme i pezzi, per ricostruirla secondo una modalità rinnovata, che trova il suo fondamento nel Vaticano II. Per far questo bisogna non continuare a guardare con nostalgia al passato, non fossilizzarsi sui giochi di potere preti-laici, ordine-ministeri laicali,… Ma affermare che la generativita’ della Chiesa viene dallo Spirito, dai Sacramenti, dalla Parola e non dall’aggiornamento dei modelli sociologici, umani, storici,…