Il consiglio pastorale e il parroco, don Antonio Torresin, della parrocchia di san Vito al Giambellino (Milano), hanno steso un progetto pastorale dal titolo Una soglia sempre aperta. Un anno di lavoro (2018-2019) per raccontare la memoria e il presente della comunità cristiana. La terza parte, titolata Il sogno, la riprendiamo integralmente (Parrocchia di San Vito al Giambellino, Milano).
Sognare non è facile e, a volte, i sogni sembrano confondersi con degli incubi, nei quali si addensano le nostre paure. Anche come comunità cristiana abbiamo delle paure, dei fantasmi che abitano la nostra mente e che ci impediscono di immaginare il futuro, di sognare appunto.
Veniamo da un passato glorioso, come Chiesa e come parrocchia, una tradizione ricca e intensa, un mondo dove la cristianità permeava il vissuto della città, della gente, e la parrocchia era il centro della vita. Ora stiamo assistendo al crollo di quel mondo, di quella cristianità, di quella forma di parrocchia, che non esiste più.
I segni di questo crollo sono evidenti: le chiese si svuotano, gli oratori non sono più il luogo scontato di aggregazione dei ragazzi e dei giovani, le forze diminuiscono.
Eppure continuiamo a credere nel futuro della parrocchia come istituzione di vicinanza del Vangelo alla vita degli uomini e delle donne. Non sarà una fotocopia della parrocchia degli anni 30 o 60 o 80, quel mondo non c’è più, ma allora che cosa sarà?
La fine della cristianità come inizio di una nuova visione
L’inizio del sogno passa dall’elaborazione di un lutto. Ci sono molti cristiani che pensano semplicemente che sarebbe bello tornare ad essere quello che eravamo negli anni degli inizi della nostra parrocchia, o nel momento più burrascoso e vivace degli anni 60-80, dove in un caso come nell’altro la parrocchia era il centro della vita del quartiere e tutti, in un modo o nell’altro, passavano da qui.
Il primo passo è accettare che la parrocchia non sia più il centro del villaggio. La città metropolitana non ha più un centro, nemmeno i suoi quartieri; le persone si dislocano in appartenenze multiple e differenziate. Se la parrocchia non è più il centro “inevitabile”, significa che molti non passano più abitualmente dai suoi tempi e nei suoi luoghi.
Eppure la parrocchia non è finita, il Vangelo non smette di essere una parola di speranza destinata a tutti. «Non c’è nulla da temere da quello che è successo. Questo tempo che infrange i nostri sogni è capace anche di aprire i nostri occhi» (Giuliano Zanchi, Rimessi in viaggio. Immagini di una Chiesa che verrà).
Che cosa abbiamo scoperto, che cosa possiamo vedere meglio? La parrocchia non è più il centro e il tutto della vita di una città. È una casa in mezzo alle case, ai margini di un mondo che non è più convenzionalmente cristiano.
I credenti sono parte di questo mondo, vivono nella città e insieme agli altri uomini e donne condividono la vita con le sue contraddizioni e le sue aspirazioni. Non si è spenta la fede, ma vive confusamente nelle trame della vita. I cristiani devono di nuovo “rimettersi in viaggio”, ritrovare un contatto con la vita e la ricerca di senso che in modo confuso circola nelle strade della loro città.
Occorre riattivare una relazione tra la parrocchia e la città al di là di una estraneità che, in certi momenti, ha visto i due luoghi separati se non in competizione, estranei l’uno all’altro. La casa che è la parrocchia deve ritrovare un legame con le case degli uomini.
Una duplice conversione
C’è un episodio del libro degli Atti che può essere di ispirazione. Si tratta della duplice conversione di Pietro e del pagano Cornelio, descritta nel capitolo 10 del racconto lucano. È uno snodo importante del cammino missionario della Chiesa delle origini. Viene descritto il passaggio da una Chiesa ancora tendenzialmente “etnica”, giudaica, a una Chiesa che si apre a coloro che ancora non conoscono il Vangelo. Ma questo comporta una duplice conversione che viene raccontata come due porte che devono aprirsi. Da una parte, Pietro lascia entrare nella sua casa gli inviati di un pagano, Cornelio, che lo invita presso di sé. Dall’altra, Cornelio apre la sua casa alla visita di Pietro. In quel momento Pietro comprende che «Dio non fa preferenze, ma chiunque teme Dio e pratica la giustizia è a lui gradito».
Che cosa significa per noi?
Questo è anche lo stimolo che ci è venuto dal Sinodo minore della nostra diocesi sulla “Chiesa dalle genti”, che ha provocato le nostre comunità a pensarsi come generate dal convergere di uomini e donne credenti provenienti da altre culture e nazioni (B. Scapin, Milano: Indetto un sinodo “minore”). Una Chiesa dalle genti non vive ripiegata su se stessa, non si adagia nella ripetizione del “si è sempre fatto così”, ma vuole restare aperta alle novità che lo Spirito suscita, vuole restare una soglia sempre aperta (P. Martinelli, Milano: “Chiesa dalle Genti”).
Dobbiamo aprire le nostre porte e lasciare che la vita degli uomini e delle donne entri e scombini i nostri luoghi con domande e con doni inaspettati, e dobbiamo imparare a visitare la vita degli uomini là dove essi vivono, scoprendo che già lo Spirito ci precede e apre al Vangelo il cuore di uomini e donne che lo cercano senza ancora conoscerlo. Per questo abbiamo scelto come immagine quella della “soglia” come di un luogo di passaggio che indica un movimento di entrata e di uscita.
Dobbiamo imparare ad ospitare e ad essere ospitati, con lo stesso stile di Gesù la cui “santità ospitale” (Christoph Theobald) era in grado di accendere la fede negli incontri della vita, ad ospitare l’umano facendosi ospite nella vita degli uomini e delle donne che incontrava.
Ripensare le pratiche pastorali
In questo senso dobbiamo ripensare le nostre pratiche pastorali in una dimensione missionaria, come ci indica papa Francesco in Evangelii gaudium: ogni azione pastorale non è volta alla sopravvivenza dell’esistente ma deve avere come intendimento l’incontro con le persone, il sorgere di relazioni generative per la fede degli uomini e delle donne.
Una soglia che deve essere sempre aperta nei due sensi, che deve essere custodita perché ogni passante possa essere ospitato e perché la parrocchia non sia un luogo chiuso ma estroverso, teso verso la città che abita, capace di uscire per entrare nella vita degli uomini e delle donne della nostra città.
Entrare
Il Signore ci raduna. I primi ad essere ospitati siamo proprio noi, i discepoli di Gesù. Come i due viandanti di Emmaus, disorientati e delusi, messi alla prova dalla vita, ogni domenica siamo raccolti dal Maestro nella locanda per ascoltare la sua Parola e ritrovare la grazia della sua presenza.
È il momento sorgivo del nostro essere parrocchia, casa della fede. Lo facciamo perché portiamo alla mensa i nostri giorni e le nostre fatiche, perché custodiamo un clima familiare e domestico delle nostre assemblee.
Qui ospitati, ospitiamo: perché quella Parola e quel cibo non sono solo per noi, ma lo possiamo e dobbiamo condividere con chiunque cerca parole di speranza e forza per la vita.
L’eucaristia domenicale non è il raduno dei perfetti ma il rifugio per i deboli, il pane per i poveri. E la messa della domenica rimane lo spazio più aperto e accogliente.
Accogliere le storie degli uomini e delle donne. Tutte le altre pratiche pastorali (incontri in occasione dei sacramenti – dell’iniziazione, del battesimo, della cresima, dei funerali…) sono preziose perché in esse possiamo accogliere pezzi di vita delle persone, dare parola alle domande di senso, ascoltare la ricerca e le fatiche della vita, condividere pezzi di strada con uomini e donne a partire da dove si trovano.
Per questo è importante “dare loro la parola”, esercitare una pratica di ascolto prima che di insegnamento. Convertire le pratiche pastorali in luoghi di ospitalità e di ascolto richiede un lavoro delicato di discernimento, di attenzione per costruire relazioni.
Rileggere tutte le pratiche pastorali come luoghi di ospitalità (lasciare entrare la vita). È nella vita con le sue “faglie” che la fede riemerge e torna a smuovere il cuore. La vita è segnata da momenti di grazia – che a volte coincidono con momenti di crisi –, attimi che ci fanno affacciare sul mistero che abita l’esistenza. Noi vorremmo essere capaci di ospitare la vita, le storie, le persone perché in questi passaggi possa di nuovo risuonare una Parola evangelica di speranza.
Forse questo ci chiede di non cadere nell’ansia prestazionale e di curare di più il clima di relazioni tra credenti, che siano autentiche e ospitali. Ogni discepolo, non solo i preti o i catechisti, ma chiunque in nome della parrocchia entra in relazione con chi passa negli spazi e nei tempi di una parrocchia, custodisce la soglia perché quel passaggio sia un momento di condivisione della fede.
Uscire
Abitare le faglie della vita (nascita, morte, amore, lavoro…). La cura per le relazioni non inizia e non finisce nella parrocchia, ma trova il suo luogo naturale anzitutto “fuori”, nella vita quotidiana, nelle pratiche di buon vicinato, nelle relazioni che instauriamo per via di amicizia, nei luoghi di lavoro. È qui che dobbiamo “uscire”, è questa la vita che occorre frequentare abitualmente come luogo della nostra cura pastorale.
Soprattutto nelle “faglie” della vita: la nascita, la morte, il sorgere di un amore, la prova di una malattia.
Sono passaggi che chiedono di essere accompagnati da relazioni di amicizia che noi offriamo in nome della fede, con la discrezione e il tatto che l’umanità richiede, con la fedeltà e la pazienza che rendono affidabili e il calore del Vangelo.
Lasciarci ospitare (visita). La soglia che dobbiamo attraversare non è solo quella che ci porta dalla parrocchia alle vie della nostra città, ma è anche quella delle case degli uomini dai quali vorremmo lasciarci ospitare.
Bussiamo alle loro porte da poveri, senza «bastone né bisaccia», ma solo per offrire una relazione nel nome di Gesù, un’amicizia che si fa compagna di vita.
Alcune pratiche pastorali in questo senso andranno particolarmente valorizzate: la visita alle famiglie per la benedizione di Natale, la visita agli ammalati per portare l’eucaristia, la visita alle famiglie povere. Sono momenti preziosi perché lì ci facciamo ospitare e, da mendicanti, offriamo il poco che abbiamo, l’essenziale che serve, la speranza del Vangelo.
Sostenere la testimonianza (formazione, preghiera). Questo stile pastorale di “uscita” e di testimonianza va sostenuto. Ogni credente che si sente responsabile – in qualche modo – della vita e della fede della nostra parrocchia, diventa soggetto di evangelizzazione là dove vive e nelle “visite” che, in nome della parrocchia, può intraprendere.
Ma questo stile di evangelizzazione va sostenuto. A questo servono i momenti formativi e i tempi ordinari di preghiera.
Nella formazione impariamo a tradurre il Vangelo nella lingua degli uomini e delle donne nostri contemporanei, a interpretare il tempo che stiamo vivendo e a condividere le domande che gli incontri fanno sorgere in noi. Nella preghiera portiamo le storie che incontriamo e impariamo ad intercedere, affidiamo ciò a colui che tutto può e davanti a cui sentiamo tutta la nostra impotenza e povertà.
Stare in rete con le altre parrocchie. Infine, il movimento di “uscita” passa da una comunione più forte con le altre parrocchie, dal fare rete con il territorio in cui viviamo. Non siamo soli e non siamo gli unici.
Ci mettiamo volentieri in comunione con altri credenti che condividono lo stesso Vangelo, perché ci sono situazioni che solo insieme possiamo affrontare e perché solo in comunione con la Chiesa diocesana e con le altre parrocchie possiamo immaginare come sarà la parrocchia di domani.
Un luogo sintetico e simbolico: la soglia dell’eucaristia domenicale. Ogni domenica attraversiamo la porta della chiesa. Veniamo da una settimana di incontri, di lavoro, di fatiche e di speranze. Entriamo insieme come popolo di Dio, in compagnia di tanti altri, vicini e lontani, che solo cercano uno spazio e un tempo di incontro con il Signore.
Quella soglia è preziosa: serve che sia curata, che qualcuno prepari la mensa e spezzi la Parola, intoni il canto e curi il clima della preghiera. Entrando vorremmo che ciascuno si sentisse a casa e potesse trovare il silenzio e la gioia di una preghiera piena di fede. Da quella soglia usciamo. Insieme, come corpo del Signore, che tali ci ha resi con il suo corpo e il suo sangue.
Insieme nella gioia di una famiglia che si ritrova, si saluta e si sente parte di una più grande famiglia. Il sagrato è per noi uno spazio prezioso: qui possiamo soffermarci, vivere attimi di ascolto e di amicizia, senza fretta e senza altre occupazioni. Poi ci aspetta la vita, la settimana, il lavoro, gli incontri, le responsabilità. Ma è un appuntamento che ogni volta ci attende, e che ci tiene in vita.
Dal sogno al progetto
Una Chiesa in discernimento. È importante provare a sognare, avere un’“immaginazione” spirituale di come potrebbe essere la parrocchia di domani, perché senza una “visione” rischiamo di arrancare, di non saper dove andare. Rimane una domanda: “e adesso che cosa dobbiamo fare?” O meglio: “che cosa ci chiede lo Spirito? Quali passi dobbiamo compiere? Quali le priorità?”.
Nella descrizione del sogno ci sono già alcuni spunti per ripensare le pratiche pastorali e per immaginare nuovi passi. Ma, sapendo che non possiamo fare tutto e subito, occorre che la parrocchia, ogni volta si chieda: “oggi che cosa possiamo fare realmente?”.
Si tratta di compiere un discernimento. All’inizio di ogni anno pastorale è forse questa la domanda “tremenda” (da fare con il “timor di Dio”, con fede) che ci chiede di metterci in ascolto di quello che lo Spirito suggerisce, nella storia, alla nostra Chiesa. Per trovare una risposta, occorre ascoltare.
Il bene possibile. Mettersi in ascolto della parola di Dio e delle condizioni concrete della vita della parrocchia. Perché la risposta sul “bene possibile” non si ricava per deduzione, ma chiede un paziente ascolto che mette insieme intuizioni, risorse, occasioni, circostanze, forze e fragilità.
La nascita stessa di questo progetto pastorale è il frutto di un discernimento: ci è parso che ora ci fossero le condizioni per compiere questa operazione sintetica.
I passi che verranno li decideremo insieme, perché nessuno da solo può compiere un tale discernimento, né il parroco o i preti, né i singoli laici.
Questo è proprio il compito del consiglio pastorale, che ogni anno prova a delineare i passi concreti con cui dare corpo al sogno di una Chiesa come una “soglia sempre aperta”.