Data per morta mille volte, la parrocchia è ancora lì. Come ha detto papa Francesco: «La parrocchia non è una struttura caduca; … perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse» (EG 28). I racconti, le ironie, gli approcci accademici e seriosi, le testimonianze ecc.: sono stati usati tutti i tipi di registro. Uno fra i più efficaci è quello di considerare nel microcosmo parrocchiale i singoli elementi, fra i più consueti e i più scontati, ma capaci di illuminare l’intero.
È quello che Davide Caldirola e Antonio Torresin, prevosti del clero milanese, perseguono da anni con una serie di volumi, nati tutti dalla collaborazione con Settimana prima e Settimananews.it ora. Prima sulla figura del prete (I sentimenti del prete, I verbi del prete, I sogni del prete; già tradotti in varie lingue), ora sulla dimensione parrocchiale: Un giorno in parrocchia. Storie di una comunità come tante altre, EDB, pp. 208, € 18,00).
Capaci di saggi più corposi e di volumi più specialistici, i due autori hanno affrontato il tema perché sono parroci, sono convinti della priorità delle comunità territoriali e perché si divertono. Li immagino in poltrona dopo pranzo, alle prese con la pipa e un buon bicchiere. Mentre decidono il tema da affrontare. Se scoppia la risata, è quello giusto. L’allegria apre la mente e il cuore e arriva alla preghiera.
Scrivono assieme. Non ho mai capito la differenza degli stili. Siamo abituati alle doppie firme: dai televisivi Garinei-Giovannini, ai romanzieri Fruttero-Lucentini, ai teologi Flick-Alszeghy, ai comici Ficarra-Picone. I nostri due hanno fatto vita comune con altri preti, lavorando alla formazione dei giovani presbiteri, prima di assumersi la responsabilità parrocchiale.
La parrocchia è «un esperimento profetico: quello di mettere insieme un’umanità variegata e improbabile che, proprio perché non omogenea, ha solo nel Vangelo il proprio baricentro». Sembra noiosa e ripetitiva, ma quando la gente manca per qualche tempo e torna, ripete con Giovanna: «Una delle cose che più mi è mancata è la mia parrocchia». È immersa nei «non luoghi» della vita cittadina e i suoi confini sembrano labili, ma garantisce «un indispensabile radicamento nel territorio, che poi significa un legame indispensabile con la vita ordinaria». «Una parrocchia può fare tante o pochissime cose, ma il suo senso non dipende dalla sua utilità. C’è un’unica cosa che certamente può e deve fare ancora oggi: pregare. O meglio: intercedere».
Può succedere di tutto: il bar dove «passa la vita», le chiavi regolarmente perse (il mio vecchio parroco che le perdeva tutti i giorni si piazzava davanti alla statua di sant’Antonio e con tono minaccioso diceva «Se non mi fai trovare le chiavi ti giro dall’altra parte» e il mazzo tornava fuori), le polemiche fra i cori (nella mia parrocchia ad uno di questo è stato dato il nome «facciamoci del male»), i piccoli risentimenti fra i volontari, la spiacevole esperienza dei ladri, le nuove figure delle badanti e degli stranieri. Le immancabili partite di calcio: «Alle quattro del pomeriggio in oratorio c’era la partita di ritorno della semifinale del torneo di calcio dei ragazzi della terza e quarta elementare. Sono stato esplicitamente invitato, forse per motivi scaramantici. L’allenatore mi ha detto che, a differenza delle suore, i preti portano bene. Per fortuna abbiamo vinto».
Sulle malattie parrocchiali ci sarebbe molto da dire. Nella sua recente lettera pastorale mons. Erio Castellucci, vescovo di Modena, le enumera così: maldicenza acuta, lamentosi cronica, emiparesi parrocchiale («si è sempre fatto così»), perfettismo paranoico, calcolosi comunitaria (contano i numeri), attivismo ansiogeno, miopia pastorale ecc. Ma ci sono anche generosità straordinarie e profondità spirituali sorprendenti: dal silenzio della preghiera e del dolore al racconto del Vangelo («mi accorgevo che piano piano ci stavo prendendo gusto»); dalla confessione («mi piacerebbe avere un piccolo frigo-bar in confessionale. Oltre i 15 anni di distanza dal sacramento si dovrebbe stappare una buona bottiglia di spumante e fare festa») alla cura dei morenti (come nel caso di Guglielmina, attorniata «da una cura non invasiva e sobria, una bella umanità preoccupata di accompagnare fino all’ultimo senza eccessi e senza voler allungare a ogni costo il corso di questa vita giunta al suo temine. Mi sembra che qui il Vangelo sia di casa»); dai casi complicati (il figlio omosessuale che giustifica domande scomode, «come e quando ne parliamo tra preti?», «che tipo di accoglienza possono trovare nelle nostre parrocchie?») al vecchio sacerdote (non mi sento rottamato, «non sono mai stato così bene come da quando ho dato le dimissioni da parroco»).
Oltre al Vangelo non c’è una sola citazione dotta, ma ad un certo punto, in una parentesi, si lasciano scappare alcuni riferimenti preziosi: Bonhoeffer, von Balthasar, De Foucauld, Vanier, Barsotti, Bianchi, Thévenot, de Chergé. Ma i nomi più cari sono due, poco citati e molto presenti: Martini e papa Francesco.
Torresin A. – Caldirola D., Un giorno in parrocchia. Storie di una comunità come tante altre, EDB, pp. 208, € 18,00.