Con questo parole scarne e immediate possiamo raccogliere i sentimenti e le aspettative che ci abitano mentre siamo affacciati al mondo d.p. (dopo la pandemia). Un ritorno alla normalità – ormai l’abbiamo compreso – molto lento e instabile che ci consente di valutare con maggiore attenzione i rischi e le risorse di un cambiamento d’epoca.
Il primo a metterci in guardia dal rischio di sprecare l’occasione della crisi pandemica ancora in corso è stato proprio papa Francesco: «Ora, nel grande sforzo di ricominciare, quanto è dannoso il pessimismo, il vedere tutto nero, il ripetere che nulla tornerà più come prima! […] Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi»[1].
Discernimento e sapienza di vita
Diversi aspetti del nostro mondo relazionale sono venuti meno, segnano una ferita importante nel tessuto sociale e psicologico, ma nello stesso tempo il ritorno ossessionato a quella normalità a.p. porta in sé il pericolo di sprecare un’occasione di cambiamento racchiusa in questa crisi.
La parola stessa sappiamo come evochi la dimensione della valutazione e del ripensamento: quale mondo d.p. desideriamo? Quale normalità vogliamo vivere nel d.p.? Siamo esposti su un vero e proprio crinale che richiede da noi capacità di scelta e sapienza di vita.
Questa pandemia diventa uno spreco nella misura in cui ci accontenteremo di cambiare le forme esteriori senza incidere sulla realtà. La cultura dello spreco infatti si nutre di facili soluzioni e pericolosi compromessi: disposta a sacrificare anche i beni più preziosi nel nome del profitto e del rigidismo. Nell’incrocio avanti e dopo pandemia si trova la responsabilità di una comunità in cerca di senso, di giustizia e di valori.
L’indigenza della libertà e la paura del futuro costituiscono le caratteristiche fondamentali di questo tempo: ad esse occorre reagire con determinazione senza ricorrere ai facili espedienti di rimozione. Fare a meno delle domande che stanno emergendo o eliminare il desiderio di riscatto che è emerso soprattutto durante il primo lockdown vuol dire sprecare l’appello che sale da ogni angolo della storia.
La pandemia come tragedia globale è giunta quale richiamo lampante alla famiglia umana, al fine di «ripensare i nostri stili di vita, le nostre relazioni, l’organizzazione delle nostre società e soprattutto il senso della nostra esistenza»[2].
Il cambiamento d’epoca – accelerato dalla pandemia – coinvolge anche il cattolicesimo che si trova compromesso con un vero e proprio processo di secolarizzazione provocante «una rimessa in discussione del suo funzionamento all’interno di un universo culturale in cambiamento»[3]. Come cristiani, immersi nell’unica umanità, siamo chiamati ad accogliere il grido multiforme di salvezza/salute che sale per mezzo di ogni razza, credo e cultura: perché nulla vada sprecato in questa crisi.
Dopo più di 50 anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II la pandemia ha contrassegnato un resettamento di numerose pratiche e stili ecclesiali che già richiedevano una doverosa ri-comprensione: si rende urgente a questo punto un radicale processo di interpretazione dei segni della storia da parte della chiesa che non può rimanere indifferente.
La tentazione del voltare frettolosamente pagina costituirebbe un’omissione letale pensando di poter tornare a “vivere sani in un mondo malato”. Il dramma della pandemia ha messo letteralmente in ginocchio tutta la ‘macchina parrocchiale’ con i suoi incontri, schemi e appuntamenti fissi: pensiamo ancora di poter rimanere legati a dimensioni pastorali ormai superate?
Assistiamo inermi al disagio di una comunità ecclesiale nostalgica di quella cristianità che non esiste più: siamo consapevoli che non possiamo continuare a limitarci a rispondere a bisogni scaduti o alle attese di pochi veterani?
Il tempo breve e urgente
A tal proposito desidero offrire la prima di quattro riflessioni – a mo’ di condivisione – in merito alle sfide che ci attendono: i prossimi mesi potrebbero essere vissuti come un sincero momento di discernimento comunitario affinché ogni realtà ecclesiale possa comprendere e attuare le modalità di conversione pastorale richieste dal tempo presente.
Non bastano le soluzioni pronte o le indicazioni dall’alto, occorre contestualizzare con cura – e in maniera sinodale – i bisogni, le attese e le potenzialità della comunità locale per fornirle gli aiuti necessari. Non è più il tempo di perdersi nei convegni, nelle belle prospettive o nei sogni audaci: è necessario scegliere dopo paziente discernimento.
Scegliere di sperimentare attraverso nuove forme senza pretendere l’immediata efficacia: la comunità che discerne – docile allo Spirito Santo – si lascia condurre verso opzioni prima non esplorate ma adatte a rispondere alle sfide del mutato panorama socio-culturale.
Già nel 2008 da buon gesuita, il card. Carlo Maria Martini, metteva in risalto questa urgenza: «Oggi in Europa, specie in Europa occidentale, la situazione della chiesa esige delle decisioni. Vi sono comunità dove non troviamo più giovani. […] Dove trovano i ragazzi quei tesori di cui ai miei tempi si pensava di non poter fare a meno?»[4].
Scegliere di decidere vuol dire non rischiare di sprecare un’occasione! Nel prossimo appuntamento rifletteremo sul primo rischio da cogliere: la pratica ecclesiale dei battezzati e delle battezzate è in continua evoluzione, agiamo di conseguenza?
[1] Papa Francesco, Omelia Messa di Pentecoste, 31 maggio 2020.
[2] Papa Francesco, Fratelli tutti, n. 33.
[3] F.-A. Isambert, La sécularisation interne du christianisme, in Revue francaise de Sociologie, XVII (1976), 573-89.
[4] C. M. Martini, Conversazioni notturne a Gerusalemme. Sul rischio della fede, Mondadori, Milano 2008, 42-43.