Il 3 giugno 2017, a Staranzano, piccolo comune in provincia di Gorizia, un capo scout dell’Agesci ha sposato il suo compagno, consigliere comunale. Il parroco, don Francesco Fragiacomo, ha criticato apertamente questa scelta, dichiarando che ora, per il capo scout, «non ci sono più le condizioni per svolgere il suo ruolo di educatore» all’interno dell’Agesci. Il viceparroco è invece intervenuto alla celebrazione «come amico della coppia e come prete». Questo episodio non poteva non suscitare scalpore, dando il via a dichiarazioni di vario tipo. Sulla vicenda è intervenuto – il 22 giugno al consiglio presbiterale e il 24 giugno al consiglio pastorale diocesano – l’arcivescovo di Gorizia, Carlo Roberto Maria Redaelli. Riportiamo integralmente le sue parole.
La nostra diocesi è stata fatta oggetto di attenzione anche a livello nazionale per l’episodio successo a Staranzano. Come è stato evidente, ho preferito finora non intervenire in merito né a nome mio personale, né a nome della diocesi e ho anche invitato gli interessati a evitare pronunciamenti e a non prestarsi alle amplificazioni cercate dai mezzi di comunicazione sociale. Ritengo però ora opportuno offrire alcune riflessioni dal punto di vista del discernimento pastorale sia al consiglio presbiterale, sia al consiglio pastorale diocesano. Mi auguro che i criteri che indicherò possano essere applicati al caso concreto con pacatezza, rispetto e discrezione verso tutte le parti coinvolte.
Partirei da una citazione di un grande maestro del discernimento, il card. Carlo Maria Martini: «L’esempio biblico di cui mi servo per spiegare il distinguere e il discernere, è la descrizione del concilio di Gerusalemme (cf. At 15) dove si può vedere bene la dinamica di Chiesa. Se leggiamo attentamente il resoconto del concilio, rimaniamo stupiti nell’accorgerci che, dovendo risolvere un problema pratico molto difficile – la convivenza tra i cristiani provenienti dal giudaismo e i cristiani convertiti dal paganesimo –, non si fa ricorso alle Scritture o a una tradizione canonica, di cui c’era un primo embrione, ma si fa ricorso, anzitutto, alla riflessione sul vissuto nella grazia dello Spirito Santo! Ci sono tre grandi relazioni nel concilio di Gerusalemme: la prima, in cui Paolo riferisce su quanto lo Spirito Snto ha operato in tutte le comunità, e quindi prendendo coscienza di ciò che è il vissuto di grazia; la seconda, in cui Pietro si domanda quale relazione abbia il vissuto di oggi con gli eventi passati, qual è la continuità di grazia in cui esso si inserisce; la terza relazione, in cui Giacomo, a partire dalle parole di Paolo e di Pietro, propone un modo pratico di vivere insieme, un modo che tenga conto delle verità fondamentali. Questo atteggiamento è quello che si propone di ascoltare la voce dello Spirito e di trarne conseguenze per l’oggi, in umile obbedienza di quella Parola che ha parlato nella Chiesa e che ancora parla nel mgistero, nella forza della predicazione, nella lettura quotidiana della Scrittura, nella vita quotidiana dei fedeli, nell’esperienza della santità» (C.M. Martini, Cristiani coraggiosi. Laici testimoni nel mondo di oggi, In dialogo, Milano 2017, 123-124).
Mi sembra che in queste parole del card. Martini ci sia l’essenziale: in particolare l’invito a riflettere sul vissuto con la guida dello Spirito Santo, senza pretendere di avere dalla Scrittura o dalla tradizione canonica la risposta pronta per ogni circostanza, ma cogliendo gli aspetti di grazia in ogni avvenimento, vedendo poi come ogni nuova realtà interpella la fede e, infine, riuscendo a trovare soluzioni pratiche che garantiscano la comunione nella fedeltà al messaggio evangelico. Vorrei allora presentare la mia riflessione riprendendo questa triplice articolazione.
1. La grazia nel vissuto
Può sembrare strano che, di fronte a una realtà che ha creato contrasti e scalpore e ha evidenziato difficoltà, ci si domandi per prima cosa quali siano gli aspetti di grazia presenti in essa. Eppure non dobbiamo mai dimenticare ciò che afferma l’apostolo Paolo nella lettera ai Romani: «noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28). «Tutto concorre al bene»: non significa che tutto è bene e neppure che tutto è indifferente. Vuol dire piuttosto che dobbiamo avere la profonda convinzione che Dio guida la storia dell’umanità, della Chiesa e di ciascuno di noi e che tesse un percorso d’amore e di luce dentro il contraddittorio chiaroscuro delle nostre scelte. Quale può essere allora la grazia in questi avvenimenti? Non pretendo di esaurire questo interrogativo, ma vorrei solo accennare a qualche risposta.
Grazia, anzitutto, è l’essere qui oggi a confrontarsi nel consiglio presbiterale e poi in quello pastorale, organismi che a diverso titolo collaborano con il vescovo per la conduzione pastorale della diocesi. Certo, ogni consigliere è presente con sensibilità e idee diverse, con emozioni e giudizi differenti, ma tutti siamo accomunati dal desiderio di servire il Signore in questa Chiesa, nel rispetto e nell’amore verso tutti coloro che sono parte del popolo di Dio. Proprio per questo, allora, impegnati nell’esercizio non facile di un discernimento comune.
Grazia, sempre restando a noi, è la progressiva maturazione della convinzione che il discernimento stia diventando sempre più la cifra fondamentale dell’agire pastorale. Ormai, per fare solo un esempio, che i parroci, ma anche i loro collaboratori, in particolare i catechisti, conoscono bene, anche la semplice richiesta dei sacramenti non può essere risolta come in passato nella veloce annotazione sull’agenda di un nome e di un orario. I casi “normali” – lasciatemi passare questo termine – sono diventati un’eccezione. Difficile, per esempio, ricevere una domanda di battesimo da parte di genitori cattolici, sposati regolarmente in chiesa, credenti, praticanti, parte attiva della comunità parrocchiale, desiderosi e anche capaci di dare un’educazione cristiana ai figli e che presentino per il ruolo di padrini persone con caratteristiche simili alle loro.
Grazia è anche l’attenzione rispettosa, partecipe e talvolta sofferta ai cammini personali di ciascuno da parte della comunità cristiana e l’accompagnamento degli stessi. Non parliamo infatti di questioni astratte o di scuola, ma di scelte e percorsi di persone concrete. Ogni persona ha il diritto al rispetto, non va giudicata o condannata, le sue scelte (anche se non condivisibili) vanno prese seriamente. Ben sapendo che ognuno ha il dovere morale di cercare il bene e la verità. Il cristiano, in particolare, è chiamato a individuare la volontà di Dio per la propria vita nella concretezza della situazione in cui si trova. Lì infatti è la sua “grazia”. Un impegno che trova nell’assistenza dello Spirito, nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nel confronto con le indicazioni della Chiesa, nel sostegno della comunità e nel confronto con essa i mezzi per essere affrontato con autenticità. Come ci ha ricordato papa Francesco anche in diversi passaggi dell’Amoris laetitia, il processo che porta a precise scelte e le stessa attuazione di esse è condizionato da molti fattori, che possono rendere difficile l’adeguamento della propria vita alla proposta dell’ideale evangelico. In ogni caso ciascuno è tenuto a cercare non l’astratta perfezione, ma il meglio possibile nella concretezza del suo cammino. Chi accompagna pastoralmente le persone – e non solo i sacerdoti – deve tenere conto di tutto questo, non indulgere a facili giudizi, non sostituirsi alla responsabilità di ciascuno, ma insieme non rinunciare a proporre l’ideale evangelico sapendo ben distinguere le diverse situazioni di partenza. Perché il discernimento circa simili scelte personali (per esempio di convivenza) non può essere lo stesso per chi non ha avuto in precedenza la possibilità di un cammino cristiano e solo ora si sta riavvicinando alla fede (penso, per essere concreti, a chi chiede la cresima da adulto ed è disponibile a fare un percorso di ascolto del Vangelo, ma è di fatto in una situazione di convivenza) e per chi, invece, è cresciuto in ambito ecclesiale con molti aiuti e accompagnamenti e svolge un incarico dentro la comunità.
Grazia è poi il desiderio che tutti abbiamo che ogni persona – in particolare i giovani – possa trovare nella pienezza della proposta evangelica il compimento di quel desiderio di amore che l’essere immagine e somiglianza del Dio amore ha collocato nei nostri cuori.
Grazia è l’impegno a tenere in considerazione, con pazienza e intelligenza, i diversi modi di sentire diffusi oggi che, pur avendo aspetti di verità, sono spesso riduttivi. Per esempio, il ritenere che ciò che conta è che due persone si amino, a prescindere da chi sono, dagli impegni che hanno assunto, dalla responsabilità verso altri e anche dalla qualità del loro amore. O ancora, l’attenzione esclusiva all’adesso, per cui, riferendosi all’amore, bisogna guardare all’oggi, a chi si ama adesso: non conta il passato (e le relazioni precedenti), non conta il futuro (incerto). Un altro modo di pensare oggi condiviso è quello che concepisce la libertà come il fare quello che l’individuo ritiene a prescindere non solo dal confronto con ciò che è giusto e ciò che non lo è, ma anche dalla relazione con le persone e dalla responsabilità verso di esse e la comunità. C’è, infine, il giusto rifiuto dell’ipocrisia che rischia però di non distinguerla dalla riservatezza necessaria non per nascondere qualcosa (o persino per essere complici del male), ma per tutelare le persone, la loro dignità, le loro scelte (giuste o sbagliate che siano), la loro stessa evoluzione nel tempo (una persona non può essere inchiodata per sempre a una scelta compiuta nel passato) e anche per proteggere la comunità (in particolare i più fragili in essa) e il suo cammino.
Grazia è quindi anche l’attaccamento alla propria comunità, ma non in termini esclusivi e alternativi ad altri, ma dentro un respiro di autentica comunione ecclesiale.
Grazia è anche la consapevolezza della particolare responsabilità di chi ha un ruolo educativo dentro la comunità cristiana. Nessuno è perfetto, né sempre riesce a vivere in maniera del tutto coerente con gli ideali che propone agli altri, in particolare ai ragazzi e ai giovani. L’impegno a non essere oggi causa dell’amaro invito che Gesù faceva a proposito dei maestri del suo tempo – «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno» (Mt 23,3) – deve però essere sempre presente nel cuore e nella mente di chi ha un compito educativo (e, si può aggiungere, pastorale) e desidera davvero il bene delle persone che gli sono affidate. Occorre continuamente chiedere al Signore che purifichi il nostro cuore, la nostra vita, i nostri desideri, le nostre relazioni, le nostre azioni (e quanto più è forte il carisma educativo e l’influenza sui ragazzi e i giovani tanto più è necessario un percorso di umile purificazione).
Grazia è, infine, la consapevolezza della necessità di guadagnare un rapporto meno ingenuo con i mezzi di comunicazione sociale, così importanti oggi anche per la testimonianza evangelica. Ciò è necessario anzitutto quando c’è una relazione diretta, con pronunciamenti, interviste, dichiarazioni ecc. Ma è importante anche tener presente che le proprie parole e le proprie azioni con rilevanza pubblica, al di là della volontà e della buona fede di chi le pone, sono esposte a essere riprese dai mezzi di comunicazione sociale secondo la loro logica, che oggi spesso privilegia il particolare curioso, gli elementi scandalistici, le situazioni di contrasto, il gossip.
2. Il vissuto dentro il cammino della Chiesa
Seguendo, sia pure in termini analogici, il percorso della Chiesa di Gerusalemme come indicato dal card. Martini, occorre ora evidenziare la necessità di un pacato confronto con l’insegnamento ecclesiale. Un insegnamento che va ben compreso, anzitutto nella sua natura, prima ancora che nei suoi concreti contenuti.
Il Vangelo, e in genere la sacra Scrittura – lo sappiamo –, non si presentano come un manuale di principi e di indicazioni concrete riferibili a ogni situazione della vita. Se fosse così, il problema sarebbe assai semplice: basterebbe conoscere questi principi e indicazioni e attuarli nella propria vita e di conseguenza l’azione pastorale consisterebbe nel proporli con autorevolezza a tutti i cristiani. In realtà la Chiesa da sempre è impegnata, con l’aiuto dello Spirito e in particolare con l’utilizzo della riflessione teologica e l’apporto e il confronto delle esperienze e delle scienze umane, a discernere che cosa è richiesto dal Signore nelle diverse situazioni. Si tratta di un lavoro in continuo sviluppo e può riguardare l’approfondimento di aspetti noti della vita cristiana da considerare oggi in una prospettiva in parte nuova (è il caso dell’amore coniugale, su cui la riflessione teologica, il magistero e la vita del popolo di Dio negli ultimi decenni hanno compiuto notevoli passi) o anche tematiche inedite, che prima non esistevano o quasi (come la questione ambientale portata all’attenzione della coscienza ecclesiale dall’enciclica Laudato si’). Chi si aspetta o pretende sempre e comunque principi chiari, astratti e immodificabili e indicazioni normative vincolanti per ogni questione e per ogni circostanza, non può che restare deluso, ma dimostra anche di non avere una corretta visione della fede cristiana e del cammino della Chiesa incarnato nella storia.
Naturalmente, il fatto che ci sia uno sviluppo del pensiero e delle indicazioni della Chiesa su diverse problematiche – a volte anche molto accelerato – non deve portare a disattendere ciò che viene proposto autorevolmente per l’oggi. Anche questa sarebbe una distorsione della fede cristiana, un non accogliere il fatto che lo Spirito assiste hic et nunc il popolo di Dio e chi è chiamato a guidarlo nella concretezza dell’oggi con autorevolezza, ma anche con molta umiltà.
Umiltà tanto più necessaria quando si è di fronte a questioni nuove e complesse circa le quali la riflessione ecclesiale è ancora iniziale o comunque non del tutto matura, i pareri non sono concordi, le prassi pastorali non ancora ben definite (non c’è dubbio che almeno alcune questioni connesse con la sessualità umana, l’amore coniugale, la famiglia, la vita ecc. siano di questo tipo).
3. Un cammino pratico
Il terzo momento che il card. Martini ci richiamava, sempre a partire dall’analogia con l’esperienza della Chiesa di Gerusalemme, è quello di arrivare a una soluzione pratica che tenga conto delle verità fondamentali, rispetti il cammino di ciascuno e faccia maturare una reale comunione, superando tensioni e contrasti, spesso enfatizzati dalla passione e dall’emozione.
Un primo suggerimento che mi sento di offrire è quello di darci tempo. Un tempo necessario per lasciar decantare emozioni, giudizi affrettati, reazioni a caldo e un po’ sopra le righe. Non certo un tempo per dimenticare o a far finta di niente: sarebbe irresponsabile. Un tempo invece utile per le persone direttamente coinvolte per rivedere con calma i passi compiuti, verificarne le conseguenze (volute o non volute), ricalibrare le proprie scelte. Il tutto con autenticità e libertà e avendo davanti agli occhi il Signore, il bene della Chiesa e delle concrete comunità implicate. Un tempo ampio anche per l’AGESCI e per altre realtà ecclesiali di carattere educativo che devono affrontare tematiche nuove, come, ad esempio, la necessità di proporre oggi determinati valori con un approccio diverso rispetto al passato o anche di dover pensare a una formazione e a un accompagnamento degli stessi propri educatori, che talvolta compiono scelte personali, in particolare in tema di affetti, che fino a poco tempo fa non erano quasi ipotizzabili o comunque erano percepite come evidentemente incompatibili con il proprio compito.
Insisto perché siano queste realtà ecclesiali a operare il necessario discernimento e a giungere ad alcune indicazioni condivise e sagge, non per sottrarmi al mio impegno di pastore (che, per altro, partecipo con i sacerdoti, i diaconi e i cristiani più impegnati, come i membri del consiglio pastorale diocesano), ma per evitare che un mio pronunciamento possa essere visto come un intervento “autoritario” dall’alto e quindi accolto “obtorto collo”, e non invece come aiuto a discernere e compiere la volontà di Dio, o utilizzato quasi come alibi per evitare ai soggetti ecclesiali interessati la fatica, ma anche la positività, di un cammino non facile di discernimento.
Un secondo suggerimento che mi permetto di presentare soprattutto alla comunità di Staranzano e alle altre realtà vicine più direttamente implicate, è quello di utilizzare anzitutto un saggio consiglio di sant’Ignazio, maestro di discernimento del card. Martini e di papa Francesco: «ogni buon cristiano dev’essere più pronto a salvare una affermazione del prossimo che a condannarla» (Esercizi spirituali n. 22). Intendo cioè invitare a un atteggiamento di disponibilità gli uni verso gli altri, che parta dal presupposto della buona fede reciproca, trovi occasione di dialogo pacato e sincero, abbia la pazienza dell’ascolto, riannodi una comunione che resta vera anche in presenza di diverse sensibilità e accentuazioni (papa Francesco, parlando recentemente ai sacerdoti a Genova – ma la cosa vale per ogni cristiano –, ha citato un significativo esempio di un loro arcivescovo: «il cardinale Canestri, diceva che la Chiesa è come un fiume: l’importante è essere dentro il fiume. Se sei al centro o più a destra o più a sinistra, ma dentro il fiume, questo è una varietà lecita. L’importante è essere dentro il fiume. Tante volte noi vogliamo che il fiume si restringa soltanto dalla nostra parte e condanniamo gli altri… questa non è fraternità. Tutti dentro il fiume»: Incontro con sacerdoti, consacrati e seminaristi, Genova 27 maggio 2017). Solo partendo da questo atteggiamento si potrà arrivare anche a decisioni e a scelte che non siano una specie di armistizio provvisorio o un compromesso al ribasso, ma portino la comunità di Staranzano a una reale maturazione secondo il Vangelo.
Un’ultima indicazione che ritengo opportuna è quella di valorizzare in noi tutto ciò che può farci crescere come cristiani impegnati a servizio della Chiesa anche in presenza di situazioni inedite: la meditazione della Parola di Dio (che illumina, consola, converte); lo studio, la riflessione, il confronto (in varie realtà, compresi i consigli pastorali); la scelta delle priorità anche in dialogo con le proprie comunità (lo slogan, che spesso ripeto: “meno celebrazioni, più accompagnamenti” non è poi così superfluo…); la preghiera intensa per le persone che ci sono affidate; lo sguardo di empatia (meglio: lo sguardo di Gesù) verso chi incontriamo; il paziente ascolto di ognuno con la proposta dell’insegnamento cristiano in termini saggi che possa condurre alla sua accoglienza (o almeno al suo non rifiuto a priori); l’impegno della salvaguardia della comunione; il mettere davanti a tutto il regno di Dio con grande libertà da se stessi (compreso il proprio incarico, il proprio carisma, le proprie attese, i propri attaccamenti, le proprie sensibilità); la valutazione paziente di tempi e modi di intervento affinché siano costruttivi della comunione; il saggio utilizzo dei mezzi di comunicazione sociale.
Che lo Spirito ci aiuti ad andare avanti con coraggio e fiducia.
+ Carlo Roberto Maria Redaelli
arcivescovo di Gorizia
Caro fratello Vescovo, tante parole le sue, anche belle e profonde, solo che a mio povero parere non servono al caso in questione. Bisogna fare discernimento anche su casi così evidenti contrari al buon senso delle persone semplici? Che cosa c’e da discernere, mi chiedo, su due uomini che si sposano? Penso che avrebbe dovuto mostrare più coraggio nel dire con paressi a come stanno le cose senza il timore di entrare nel mirino delle solite associazioni gay. Il rispetto delle persone comporta anche metterle di fronte alle loro scelte sbagliate. Questo ha cercato di fare il suo parroco con il giovane scout e, ha quanto ne so, ne ha pagato le conseguenze con la rimozione. Pace e bene. F. Stefano Baldini orlandini da Firenze.
(Mt 5,33-37) Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. Sia invece il vostro parlare: “Si,si”, “No,no”; il più viene dal Maligno.