Carcere, il grande inganno

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pastorale carcere

«Da ragazzino, conobbi la storia di Marcellino pane e vino», racconta Carmelo Musumeci[1] (riporto a senso). «Rimasi affascinato da quel bimbo che parlava con Gesù crocifisso e per di più si sentiva rispondere e vedeva gradire i doni che portava. Provai anch’io a parlare al Crocifisso, ma nessuno mi rispondeva. Allora provai a portargli qualche dono, ma non veniva gradito. Decisi allora che se non mi voleva per amico non lo avrei più cercato. E, se a fare il bambino buono non ottenevo niente, mi risolsi a intraprendere una strada che gli voltava le spalle».

La poesia del racconto nasconde il dramma che tormenta molte delle persone che vedono confluire i loro destini in un carcere. Introiettare l’esperienza (ripetuta) di sentirsi abbandonati, non ascoltati, non desiderati apre il varco a conclusioni disilluse del genere “tanto vale…”.

Una sensazione mi raggela nel brivido – non solo della pelle – nella mia esperienza di cappellano; quando qualcuno mi dice: «della mia vita non importa niente a nessuno, a nessuno interessa se sto bene o se sto male; nessuno mi chiede “quando torni a casa?” e quando uscirò di qui non troverò nessuno ad aspettarmi».

Il racconto ingenuo di Carmelo è il format di un reality che continua ad accumulare puntate quotidiane nelle carceri. Gente “ricercata”, ma non cercata, che smette di cercare. Ricercati da una giustizia che spesso si accontenta di trovare colpevoli, non di cercare verità. Ricercati che diventano mendicanti di futuro, in un’istituzione che, costruita e foraggiata a caro prezzo per reinserire i condannati nella società, impedisce loro di cercare un lavoro e una casa, presupposti minimi di un minimo di dignità. Ricercati che si portano in filigrana sui documenti il marchio “wanted” – “fine pena mai” a renderli indesiderabili da ogni ricerca di manodopera e da ogni offerta di alloggio.

Il IV Convegno nazionale

Cercatori instancabili di ciò che è perduto è il titolo che ha coperto ad Assisi[2] i lavori del IV Convegno nazionale dei cappellani e degli operatori e operatrici per la pastorale penitenziaria. Cercatori instancabili di “ciò” che è perduto (la libertà, la dignità, stima e autostima…) e soprattutto di “coloro” che si sono perduti.

Instancabili, perché sono ripetute e scoraggianti le frustrazioni che ti rimanda – di default – il sistema carcere. Occorre tenacia e ostinazione per non lasciarsi sgominare.

Instancabili, perché in ogni persona c’è una scintilla di umanità che niente riesce a spegnere, nemmeno il deposito della polvere ignifuga depositata da “anni di branda”.[3]

Cercatori di storie, che nel carcere possono rivelare «miseria come inattesa grandezza; storie di privazione della libertà e di liberazione». Nel carcere possiamo ascoltare storie, ma non possiamo “raccontare storie” che non reggerebbero alla «silenziosa domanda di autenticità» (Marta Cartabia). Narratori della Storia del Perduto che compendia ogni storia di perduti e le fa trovare il suo fine, dove altri vedono solo la fine.

Cercatori, perché «se davvero vogliamo pacificare questa società è necessario percorrere la strada delle domande che non possiamo eludere» (Rita Borsellino). Dal carcere sale inestinguibile la domanda: «Perché? Per quale fine volete la mia fine?».

Cercatori dagli occhi smarriti e bisognosi come quelli delle donne e dei discepoli al Sepolcro, perché «il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi» (Marcel Proust).

A tracciare le piste di ricerca, la lectio in tre tappe guidata da don Matteo Mioni sul capitolo 15 del Vangelo di Luca. Cercatore instancabile è il pastore della parabola, che contro ogni logica («Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una…?»: nessuno, Maestro!) va in cerca della pecora perduta. Cercatrice instancabile è la donna che mette sottosopra la casa alla ricerca di una moneta di poco valore, ritrovata la quale spende un capitale più ampio per fare festa. Cercatore instancabile è il padre prodigo, che combina ricerca e attesa, sta sulla porta per lasciare uscire il figlio che vuole andarsene e far entrare il figlio che non vuole fare festa. Cercatore dei figli, entrambi perduti, perduto anche lui per ritrovarli.

“Strada delle domande che non possiamo eludere” è quella che corre a spola tra il «Dove sei?», inquietudine di Dio, e «Dov’è tuo fratello?», responsabilità dell’uomo.

Occhi per vedere

Il carcere, queste nostre carceri, sono un “grande inganno”. Dovrebbero restituire cittadini rispettosi del patto sociale (la Costituzione) e delle sue derivazioni (le leggi); secondo il direttore di un istituto di pena danese, dovrebbe addirittura formare dei “buoni vicini di casa”.

Allo scopo destiniamo una quantità consistente di denaro pubblico (3 miliardi e 151 milioni per il DAP – Dipartimento Amministrazione Penitenziaria nel 2021). Più dei due terzi (il 67,83%) di questo capitale è stato investito nel personale di Polizia penitenziaria e solo il 10,2% ad «accoglienza, trattamento penitenziario e politiche di reinserimento delle persone sottoposte a misure giudiziarie».

Basti dire che un agente di polizia penitenziaria, al quale sono affidate prevalentemente mansioni di custodia, ha in carico (media nazionale) 1,9 persone detenute; un educatore, al quale sono affidate in prevalenza le finalità rieducative della pena, ha in carico (media nazionale) 78 persone detenute (con singoli casi di oltre 130 affidati) per comprendere che, per quanta buona volontà si possa profondere e per quanta professionalità si possa esprimere, il carcere non riesce a realizzare la finalità primariamente rieducativa della pena.

È questa la bugia che ci stiamo raccontando: non mettiamo i condannati in carcere perché possano uscirne migliori, ma semplicemente perché non li vogliamo vedere sulle nostre strade. Convinti che questo renda le nostre strade più sicure. Mentre le statistiche ci ripetono continuamente che se uno “sconta” per intero la pena in carcere, una volta tornato alla libertà affronta una probabilità vicina al 70% di commettere nuovi reati. La probabilità si abbassa sotto il 20% se l’esecuzione penale è stata affidata, almeno nella parte terminale, alle “misure alternative” al carcere.

E così portiamo il carcere nella periferia vuota. Indice, forse un poco freudiano, di una mentalità che preferisce allontanare, occultare, “seppellire” il problema (“chiudiamoli dentro e buttiamo via la chiave”) anziché risocializzare.

La nostra presenza in carcere vuol “far vedere” la comunità esterna presente alla vita di chi si trova fuori dalle mura della città e dentro le mura di un penitenziario. Reciprocamente, siamo gli occhi per far vedere alla società, anziché “dargliela a vedere”, la realtà di un sistema che assorbe una quantità ingente di risorse – non solo economiche – per svolgere un compito invocato dall’opinione pubblica, ma diverso dal dettato costituzionale. «Sono tanti in Italia gli occhi che entrano in carcere – diceva il garante nazionale Mauro Palma. Se restano vigili, possiamo cambiare le cose».

Orecchi per ascoltare

23 suicidi in carcere nei primi 4 mesi del 2022 (54 nell’intero 2021) non sono numeri neutri. Gridano. E gridano perché spesso non è stato ascoltato il grido delle persone. Un fenomeno disperato che riguarda anche gli operatori, in particolare gli agenti di Polizia penitenziaria (11 suicidi nel 2021).

Non è corretto comparare i dati, ma insieme denunciano un malessere diffuso tra le mura del carcere. Lo ha confermato Amerigo Fusco, commissario a Milano-Opera. Mancano per gli uni e per gli altri forme organizzate di ascolto.

Si aggiunge il dramma postumo dei “morti sconosciuti”. 1.800 persone circa che muoiono ogni anno senza che alcuno reclami la salma. Abbandonati da vivi e da morti.

I cappellani non hanno competenza per implementare una risposta istituzionale, ma possono supplire al cronico deficit di ascolto. Non dipende dai cappellani, ma sentiamo la responsabilità del nostro ministero. Che in gran parte si esprime proprio nell’ascolto.

Bocche per annunciare e denunciare

Nei laboratori che hanno impegnato un intero pomeriggio si è focalizzata l’attenzione su Stranieri, Disagio mentale, Ergastolo, Criminalità organizzata, Sex offenders, Minori.

Da tutti i forum sono emersi segnali allarmanti di carenze e incongruenze sistemiche. Come le contraddizioni dell’ergastolo ostativo;[4] l’assurdità della Legge Bossi-Fini,[5] che impedisce la concessione del permesso di soggiorno anche a persone che, nel tempo dell’esecuzione penale fuori dal carcere, abbiano avuto la possibilità di impostare un progetto di futuro “onesto”; i ritardi della giustizia che colpiscono una persona quando, nel tempo tra la commissione del crimine e la sentenza, si è “costruita una vita” (casa, lavoro, una famiglia…); l’incomprensibile esiguità del ricorso alle misure alternative al carcere, quando queste comportano una spesa inferiore di due terzi al mantenimento in carcere e promettono un’efficienza tre-quattro volte superiore quanto al reinserimento in società.

Cappellani e operatori pastorali non si rassegnano ad essere gli infermieri di un sistema malato. Non si accontentano di un annuncio consolatorio, anche se di consolazione c’è un grande bisogno. Sentono la responsabilità di “fare qualcosa” perché qualcosa si faccia. Per convertire una mentalità diffusa che, su basi mistificanti e disinformate, invoca più carcere nella convinzione di ottenere più sicurezza.

Il carcere non è l’unica forma di pena, dovrebbe anzi essere l’extrema ratio. Invece è l’ordinaria irratio. Il legislatore non sarà motivato a riformare né la giustizia né il diritto penale finché l’opinione pubblica vuole il carcere, questo carcere.

Nel convegno di Assisi, per molti aspetti tanto efficace, si sono sentiti tanti, dovuti e meritati ringraziamenti. Tra i partecipanti ho raccolto anche l’insufficienza di un ringraziamento reciproco e la richiesta di chiamare a corresponsabilità la comunità ecclesiale e la comunità civile.

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[1] La sua carriera criminale ha inizio all’età di 16 anni a Massa, in Toscana. In pochi anni diventa capo di un’organizzazione criminale dedita a rapine, traffico di droga, racket, tangenti e bische clandestine. Il Clan Musumeci è protagonista negli anni ’80 di una sanguinosa lotta con il Clan Tancredi, e Musumeci viene chiamato il “Boss della Versilia”. Viene arrestato il 22 ottobre 1991 con l’accusa dell’omicidio di Alessio Gozzani, ex portiere della Carrarese, amico di Tancredi. Nel 1992 viene condannato all’ergastolo ostativo. Nonostante le ostatività, è stato scarcerato nell’agosto 2018 con la liberazione condizionale (cf. Wikipedia).

[2] Domus Pacis, Santa Maria degli Angeli, 2-4 maggio 2022.

[3] Il termine gergale “anni di branda” indica il tempo trascorso in carcere, al netto dei giorni di liberazione anticipata che attenuano la contabilità della reclusione comminata in sentenza.

[4] Cf. Marcello Matté, La fine e il fine della pena, in SettimanaNews 4 febbraio 2017 (qui).

[5] Legge 30 luglio 2002, n. 189, in particolare art. 4.

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Un commento

  1. Claudio Bottazzi 15 maggio 2022

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