Catechesi del Buon Pastore: una testimonianza

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buon pastore

Tutto ci fu chiaro quel pomeriggio in cui le catechiste della Catechesi del Buon Pastore ci fecero vivere l’esperienza di un tipico incontro proposto ai nostri figli. In quella stanza dove tutto era soave e attenuato – la luce, il tono delle voci, le parole scelte, il legno delle figure con cui ricostruire la parabola della pecorella smarrita – io, che prima di essere un genitore del Buon Pastore fui un bambino del Buon Pastore, rivivendo pochi minuti di quella stessa catechesi, complice forse la voce della stessa catechista che 35 anni dopo è ancora lì a prendersi cura dei miei figli, ebbi improvvisamente la sensazione di avere tutto chiaro. Se la mia fede ha resistito, molto, se non tutto, lo devo a come mi fu presentato Gesù nell’Atrio del Buon Pastore della Parrocchia di Santa Lucia a Roma.

La bussola

Avevo circa 4 anni quando entrai nell’atrio, il luogo in cui si conosce Gesù secondo il metodo del Buon Pastore. Di quei primi incontri ho sempre portato con me una nostalgia che in ogni fase della vita mi ha aiutato a ricercare e riconoscere Gesù.

Paolo VI soleva ripetere – e dopo di lui anche i suoi successori – che Gesù non è un’idea, ma una persona. Troppe volte un credente si trova di fronte a maestri impigriti o inariditi che insegnano il Gesù idea, il Gesù sistema di regole. Niente ha messo a dura prova la mia fede quanto certi animatori e certe omelie, e credo sia valso per tanti. Quanto dolore quando qualcuno mi dice «ho fatto la scuola cattolica» oppure «ho frequentato tutto il catechismo fino alla cresima» come premessa di un discorso sulla fede persa e mai più ritrovata.

Ma se proviamo a immedesimarci in un bambino cui si inizia a parlare di Gesù solo a 8 anni, negli anni dei primi confronti con le autorità, le leggi, i divieti, in cui si vive nel pieno un sistema di doveri e pur accettandolo ancora acriticamente lo si attribuisce alla sfera del mondo dei «grandi» e delle loro richieste.

«Bambini, Gesù ci ama, quindi aiutate la mamma a sparecchiare a cena, fate i bravi e ascoltate i grandi». Questa frase, essendo tornato a frequentare le Messe dei bambini, la sento ancora molto spesso. Un bambino non può che sentirsi solo di fronte a un mondo giudicante, proprio nel momento in cui è naturale cercare fratelli e alleati con cui sostituire temporaneamente il modello dei genitori.

Dunque, quando mi passa la voglia di aiutare, perché magari ho i miei pensieri e le mie difficoltà, ne deduco che Gesù potrebbe non volermi più bene e tutto sommato penso di poterne fare a meno in cambio di un po’ di comodità e tempo per me stesso. Attenzione, qui non si vuole in alcun modo rifiutare la dottrina in favore del mero spiritualismo, cosa che il Buon Pastore non fa assolutamente.

Posso solo affermare con certezza che in questi momenti di difficoltà che ogni giovanissimo credente affronta, io mi sono ricordato del Dio che mi è stato insegnato con alcune pratiche che hanno aiutato a imprimere dei riferimenti, come i punti cardinali scritti sul quadrante della bussola.

Il metodo

Il metodo ideato da Sofia Cavalletti non fa altro che porre al centro la testimonianza del Dio padre buono che Gesù ci ha voluto dare, rovesciando il vuoto legalismo in cui rischiavamo di finire, fedeli senza amore. L’annuncio di Dio e del Regno dei Cieli non viene insegnato con lezioni frontali e lavagne, ma così come faceva Gesù, con le parabole.

E come si racconta una parabola a un bambino? Niente di meglio del gioco, degli oggetti in legno e di uno spazio in cui il bambino può ricostruire da solo l’annuncio appena ascoltato e riviverlo secondo i suoi tempi. Così come Maria Montessori aveva intuito per la scuola, Sofia Cavalletti intuì che il momento fondamentale dell’apprendimento è nello sforzo che il bambino fa per soddisfare la sua curiosità.

Se un bambino più piccolo prende una sedia per salirci sopra e arrivare a osservare qualcosa che altri bambini stanno osservando, sta già imparando. Il peggior errore che possiamo fare è interrompere quel momento di apprendimento pensando di aiutarlo prendendo quel bambino in braccio e mettendolo da noi su quella sedia.

Solo oggi, che lo sto vivendo nuovamente da genitore, mi rendo conto del bene ricevuto. Quando un amico non credente riconosce nella mia fede un dono ricevuto dalla mia famiglia, non è andato perduto grazie alla catechesi del Buon Pastore che mi ha insegnato a collocarlo in una relazione con il Padre, con il Regno dei Cieli e con l’assemblea dei cristiani.

E così, giocando con gli scrigni di legno che contenevano le parabole fin dai 4 anni, ho scoperto il buon pastore che conosce ogni pecora, che conosceva il mio nome prima che nascessi, il padre che mi avrebbe cercato e atteso pure se mi fossi perduto. Ho toccato una perla come quella perduta, ho fatto il pane azzimo, ho visto e toccato un granellino di senape in tutta la sua minuzia, ho scoperto di essere in cammino lungo una storia della salvezza srotolandone il lungo cartellone delle tappe, ho preparato l’altare componendo e ricostruendo sul quaderno ogni passaggio, ho disegnato il calendario liturgico e le parti della Messa, scoprendo l’importanza e il significato di ogni piccolo gesto compiuto la domenica.

Forse anche per questo, a differenza di molti miei coetanei, non ho mai vissuto la Messa come un’imposizione noiosa. Questa bussola mi ha aiutato a cercare sempre qualcuno con cui condividere il cammino di fede, a non fermarmi di fronte a un’omelia che non mi diceva nulla o a un maestro che non mi scaldava il cuore.

Il filo della fede, di mano in mano

Ho cercato e trovato Gesù in tanti contesti e in tanti volti: preti, suore, gesuiti, monaci, amici, corsi, gruppi e ogni volta che ho sentito la fede inaridirsi ho saputo riconoscere che c’era bisogno non già di incoraggiare l’inaridimento quanto invece di cercare nuove sorgenti per irrigare ancora.

Ricordo un amico che si faceva (e credo faccia tutt’ora) il segno della croce ogni volta che passava davanti a una chiesa. Mi diceva che era una cosa che gli aveva insegnato la nonna. Lui non aveva più la fede ma si faceva il segno della croce. Era insieme un modo di tenere un legame, un flebile filo, ma allo stesso tempo mi metteva tristezza pensare che per quel mio amico quella chiesa era solo un luogo vuoto, una sorta di tomba.

Io, quando mi trovo lontano da casa e passo davanti a una chiesa, la prima cosa che penso è «se dovesse capitare qualunque cosa, se dovessi perdere tutto, ecco dove bussare». Certo, non è detto che mi venga aperto, ma questo è un tema per un altro articolo. Anche questo sento di doverlo al modo in cui mi è stato raccontato Gesù secondo il metodo di Sofia Cavalletti.

Un giorno, entrando in una chiesetta di campagna per mano con Teresa Benedetta, la nostra prima figlia che allora aveva 6 anni, ho notato una bella luce e le ho detto «guarda che belle candele!». Lei mi ha risposto «non sono candele, è la lampada eucaristica perenne». Ammetto che io non lo ricordavo. Due anni dopo, Teresa Benedetta si è sentita pronta per ricevere l’Eucaristia, ha scritto il suo nome in un foglietto e lo ha deposto nello scrigno. Dopo aver fatto discernimento con le catechiste, ha iniziato il suo cammino e ricevuto la sua prima comunione lo scorso maggio.

In quell’occasione, le catechiste le hanno fatto leggere i foglietti deposti da tutti i suoi predecessori nell’atrio del Buon Pastore della Parrocchia di Santa Lucia, ancora perfettamente custoditi in quello scrigno. Tra questi ce n’era uno forse un po’ ingiallito, risalente a 33 anni fa. Era il mio. Ecco, il filo della fede è stato passato di mano in mano, e con la bussola del metodo di Sofia Cavalletti possiamo nutrire la speranza che anche i nostri figli, sul loro cammino, si sentano sempre conosciuti, amati e cercati dal Buon Pastore come recita il salmo:

«Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me».

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3 Commenti

  1. Salfi 2 ottobre 2024
  2. Mauro Mazzoldi 2 ottobre 2024
    • Marco M. 2 ottobre 2024

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