Da qualche tempo da più parti si va affermando che le comunità ecclesiali vivono (o dovrebbero) un momento di grande cambiamento: un cambiamento più profondo e radicale di qualunque altro rinnovamento vissuto nei tempi passati.
Tale convinzione è supportata dalla retorica del cambiamento causata dalla pandemia – evento ormai oggetto di una diffusa ermeneutica “apocalittica” – interpretata come una cesura epocale, uno spartiacque tra un eone e l’altro della storia, quasi fosse il primo evento del genere.
Cosa cambiare?
Ma cosa dobbiamo intendere per cambiamento? In che cosa consiste? È fatto soprattutto di architetture pastorali diverse da quelle adottate finora? Da nuovi settori o anche solo da nuovi nomi dati a settori già operanti o alla loro collocazione all’interno di più ampi campi di attività?
In realtà, non sarà mai il cambiamento delle forme strutturali e organizzative che producono una vera e stabile trasformazione nella coscienza di una comunità. Anzi, le trasformazioni esteriori potrebbero addirittura indurre all’illusione di aver fatto un passo verso il cosiddetto “nuovo”, di fatto però allontanandolo, quel nuovo, provocando il fenomeno “dell’immunità al cambiamento”, come è stato definito da alcuni studiosi.
Come ha scritto padre Spadaro su La Civiltà Cattolica, «per fare sinodo occorre cacciare i mercanti e rovesciare i loro tavoli… Ma chi sono oggi i “mercanti del tempio”? Solo una riflessione intrisa di preghiera potrà aiutarci a identificarli… I mercanti sono sempre prossimi al tempio, perché lì fanno affari, lì vendono bene: formazione, organizzazione, strutture, certezze pastorali. I mercanti ispirano l’immobilismo delle soluzioni vecchie per problemi nuovi, cioè l’usato sicuro che è sempre un “rattoppo”, come lo definisce il Pontefice. I mercanti si vantano di essere “al servizio” del religioso. Spesso offrono scuole di pensiero o ricette pronte all’uso e geo-localizzano la presenza di Dio che è “qui” e non “lì”» (Civiltà Cattolica, n. 4113).
Un processo comunitario
Il vero cambiamento avviene solo quando tutti coloro che compongono una comunità avanzano verso un altro e alto livello vibratorio: in altri termini quando il loro fuoco intrinseco (“Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso!”: Lc 12,49), la loro passione, si fa più vivido e, di conseguenza, la luce che ne emana si intensifica e attrae; quando tutto ciò che fa parte della vita di una comunità – relazioni, contenuti cognitivi, qualità del pensiero, valori, piani e progetti, e così via – è portato consapevolmente da un grado di luce ed energia ad un altro, più avvincente e più promettente.
Il vero cambiamento è ciò che intensifica la consapevolezza e la missione di ogni componente e che coinvolge tutti i membri della comunità, ognuno secondo le sue possibilità e il ruolo di servizio che ricopre all’interno dell’insieme.
Senza visione (Vision[1]) però è impossibile il cambiamento. Ogni programma di cambiamento ha bisogno di una Vision. Il problema principale dunque è la visione, una visione che coinvolga cuore, testa e mani.
È ovvio che l’agente fondamentale di questo tipo di cambiamento è la coscienza umana, con il suo potere di incidere su tutto ciò che la circonda e su cui posa la sua attenzione.
Se l’intento è quello di tenere accesa la fiamma cosciente dell’amore (passione) verso un proposito evolutivo (cambiamento) in tutto ciò con cui ci si relaziona, inevitabilmente avverrà un passaggio di stato nelle “cose che tocchiamo”.
Il cambiamento in una comunità non può derivare dalle proposte di forme diverse fatte da qualcuno, per quanto buone esse possano essere. Ma va accompagnato per vie interne da ognuno e da tutti, con persistenza: è quest’universalità che attiva l’onda trasformante che sospinge chi vi partecipa verso una nuova tappa evolutiva. L’importante è coinvolgersi, sentirsi parte attiva del processo in atto, in modo del tutto indipendente dalla dimensione visibile del proprio compito e del ruolo che si ricopre.
La vita del gruppo cambia solo grazie ai fuochi accesi da ognuno, che, convergendo, sospingono tutti verso il futuro. Ognuno dovrà trovare in sé il proprio modo, perché questo non è uguale per tutti e non può essere valutato in base a manifestazioni esterne, ma può solo essere percepito per vie interne attraverso il cuore.
Visione e immaginazione
È evidente però che per garantire il successo del cambiamento servono una visione e un coinvolgimento attivo di tutti i membri della comunità, attraverso una leadership partecipativa (non autocratica) e una chiarezza operativa, al momento di mettere in pratica il cambiamento. Si tratta altresì di individuare un team visionario, riconoscendo la qualità e il talento delle persone, dando loro fiducia.
Sì, perché prima ancora che di soluzioni e programmazioni abbiamo bisogno di visioni. Affermava Antoine de Saint-Exupéry: «Se vuoi costruire una barca, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito»[2].
Cambiare vuol dire guardare avanti, andare verso al futuro. Ciò che ci spinge a farlo è sempre un obbiettivo in divenire, un qualcosa che vogliamo ottenere, raggiungere, qualcosa nel domani che vogliamo conseguire. Insomma una visione di quel che sarà a cui vogliamo approdare.
Insomma, abbiamo bisogno di vedere il futuro prima che si realizzi, dobbiamo immaginarlo per poi poterlo costruire. La visione prima ancora che progettualità è fiducia, certezza in una prospettiva razionalmente impossibile. La visione è una sentinella, un’allerta ma anche un cammino verso una realtà spesso ritenuta improbabile.
La vera genuina saggezza non sempre sta in un atteggiamento razionale, necessariamente conforme alle premesse e perciò sterile, ma talvolta nella lungimirante, visionaria “pazzia”.
Abbiamo bisogno come comunità cristiane di crescere nella visione. Nel Primo Libro di Samuele si racconta che in quell’epoca, che corrisponde al 1000 a.C: “La parola del Signore era rara, le visioni non erano frequenti” (1Samuele 3,1). E il Libro dei Proverbi ci dice poi che “Senza la visione il popolo diventa sfrenato” (Proverbi 29,18).
Il sogno e la Chiesa
Ogni comunità ecclesiale, parrocchiale e diocesana, in sintonia e dentro il cammino della Chiesa universale, è chiamata a definire una propria Vision, un Sogno che intende realizzare attraverso la propria prassi pastorale.
La prima cosa che ci ha consegnato Papa Francesco è stato un sogno: Evangelii gaudium. “Io sogno una Chiesa…”. Ci descrive cosa sogna, ci dice la sua visione, ed è quella che trascina le persone, che le mette in moto dentro un processo generativo.
Quella del sogno è una categoria molto cara a papa Francesco. Non si tratta certo dell’evasione che fa perdere il contatto con la realtà della vita quotidiana, ma della visione capace di orientare, di indicare la direzione di marcia, di spingere al cambiamento.
Il sogno per papa Francesco è uno strumento politico, capace di rammendare e rigenerare tessuti e spazi sociali lacerati e rigettati. È capace di suscitare amicizia sociale, come strumento di trasformazione del mondo (Fratelli tutti, 183), avendo prima operato la trasformazione dei cuori con una grande azione educativa (Fratelli tutti, 167-169).
Qual è il sogno che vogliamo realizzare? Qual è la trasformazione reale che vogliamo generare nel mondo come comunità? L’appartenenza alla comunità non è generata da qualcosa che si fa, ma dal condividere una visione, un sogno. È quello il punto di partenza generativo di una comunità[3].
Il fatto è che forse nel sostantivo sogno noi intravvediamo i contorni irrealistici dell’illusione e dell’inconcretezza. Ma sappiamo bene che non è così. Il sogno è desiderio, attesa, spinta creativa… È sapere che qualcosa di nuovo dovrà succedere.
La Vision rappresenta un’immagine affascinante e attraente che si apre al futuro, un sogno. Essa esprime il modo (il come) in cui vogliamo essere Chiesa.
Senza visioni il popolo di Dio perde ogni prospettiva, ogni tensione progettuale, e quindi si affloscia nella palude delle scelte di piccolo cabotaggio e nelle pratiche di pietà.
Senza visioni il popolo di Dio è pronto ad asservirsi a chi promette rapidi appagamenti pseudo-religiosi (e quanti ne sono stati ammanniti durante questa pandemia!), a chi cioè garantisce che l’ingozzamento di pratiche di pietà possa sostituire una reale e soddisfacente vita di fede.
Un diverso punto di vista
Ma che cosa intendiamo propriamente con la categoria di “visione”? Va innanzitutto detto che una visione non è una costruzione astratta, una teoria filosofica o sociologica o storico-culturale o pastorale. Se fosse così, oggi ne avremmo innumerevoli di visioni, per ogni gusto o tendenza.
Una vera nuova visione è proprio un diverso punto di vista sulle cose, e quindi in definitiva un modo diverso di essere uomini e donne, di essere credenti che emerge in un dato momento della storia per illuminarla in un altro modo, e proprio così riorientarne il processo di sviluppo.
La visione deve essere in grado di evocare con sufficiente chiarezza l’immagine di un futuro possibile, credibile e desiderabile. Si tratta di sognare in grande. E di sognare insieme. Come Chiesa non sprechiamo tempo in cose inutili, sogniamo! Abbiamo bisogno di una forte, onesta ed efficace spinta verso il futuro. Si tratta di osare, avere slanci, guardare oltre.
Le “visioni” non vengono a galla se ci ripieghiamo ossessivamente su noi stessi, continuamente a considerare ferite, fragilità, limiti, vulnerabilità, blocchi, paure, trasformando gruppi e comunità in una sorta di gruppo permanente di mutuo aiuto. Continuando in questa direzione non solo non affiorerà mai alcuna visione, ma tradiamo la nostra missione. Finiamo in una imperdonabile autoreferenzialità ecclesiale.
Non solo. Finiamo per produrre credenti-cactus. Dovunque passano, lasciano feriti. Credenti che si nutrono ogni giorno di diffidenza e si difendono da tutti, a causa del fatto che ognuno sanguina e considera sempre l’altro come la causa delle sue ferite. Oppure si finisce col produrre credenti-palla, credenti gonfi, tronfi, fieri delle loro tradizioni, delle loro pratiche che non hanno bisogno di nulla e di nessuno.
La Chiesa ha bisogno di credenti liberi. Liberi dalla paura, dal pregiudizio, uomini e donne dal pensiero libero, con idee forti perché temprate dal confronto (sinodalità non come teologumeno ma come stile permanente), per fare esperienza autentica di un pensiero innovativo, e quindi aprire varchi alla luce di visioni inedite nella storia.
«Sinodo/sinodalità stanno diventando slogan, una nuova retorica ecclesiale che nasconde le molte difficoltà, se non l’opposizione, di presbiteri e vescovi verso questo cambiamento» (card. Grech)[4].
Coltivare il desiderio
Come ebbe a dire papa Francesco nel lungo discorso che rivolse ai partecipanti alla prima Congregazione generale della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dal tema: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, compito del Sinodo è “far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, risuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro, e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani”[5].
Affido la conclusione alle parole di un cardinale teologo e poeta, José Tolentino de Mendonça, scritte nel suo Elogio della sete: “C’è nelle nostre culture, e allo stesso modo nelle nostre Chiese, un deficit di desiderio. Quando si nota, nel momento attuale, l’emergere e su scala sempre più grande di soggetti senza desiderio, questo deve condurci ad una autocritica. Noi battezzati formiamo una comunità di desideranti? I cristiani possiedono sogni? La Chiesa è un laboratorio dove, come nell’oracolo provocatore di Gioele (3,1), i nostri figli e figlie profetizzano, i nostri anziani hanno sogni e i nostri giovani costruiscono nuove visioni, non solo religiose, ma anche nuove comprensioni culturali, economiche, scientifiche e sociali?”[6].
[1] In lingua inglese il termine è Vision, mutuato da altri ambiti, ma ormai di utilizzo comune anche nella pastorale.
[2] A. de Saint-Exupéry, Cittadella, Borla, Roma. 1991.
[3] Diocesi Suburbicaria di Albano, Creativi per fare. Il discernimento all’opera, MiterThev 2019.
[4] Intervista al Cardinale Mario Grech a cura di Franco Ferrari, “Missione Oggi” n.5 del settembre/ottobre 2021.
[5] Francesco, Discorso ai partecipanti alla prima Congregazione generale della XV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, dal tema: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, 3 ottobre 2018.
[6] J. Tolentino de Mendonça, Elogio della sete, Vita e Pensiero, Milano 2018, p. 36.
Stay hungry, stay foolish
Mi piace l’espressione credenti cactus… persone convintissime che le loro spine siano piacevoli e utili al prossimo. Rovinano la reputazione della chiesa e mettono molti dubbi sull’esistenza di Dio. Un Dio giardiniere non può coltivare solo cactus nel suo giardino no?
le Cactacee e le altre piante succulente però sono piante molto resistenti, evolute per sopravvivere ad ambienti difficili, e se hanno le spine è per un motivo molto semplice: difendere quello che hanno faticosamente costruito, perchè l’ambiente fuori è pieno di animali che vorrebbero mangiarle
Che visione terribile del cristiano… Cristo le sembra forse un cactus?
no, ma le persone a volte sono costrette a diventare dei cactus per difendersi
molti non vorrebbero, ma spesso sono costrette a imboccare questo sentiero
per molti è un’inferno a cui sono abituati, ma Cristo è sceso anche nel loro inferno
‘Ma al centro della propria fede si ergeva sempre il convincente mistero: che noi eravamo fatti a immagine di Dio: – Dio era il genitore, ma era anche il poliziotto, il delinquente, il prete, il maniaco, e il giudice […] per un soldato dev’essere a volte confortante il pensiero che le atrocità siano uguali da ambo le parti: nessuno è mai solo’ (Il potere e la gloria, Greene)