Credere domani: il laboratorio giovani

di:

panchina

«A me non è mai stato insegnato a pregare, ma a recitare le preghiere». Questa frase di una giovane studentessa, tratta dalle interviste a 100 giovani che hanno lasciato la Chiesa (Rita Bichi e Paola Bignardi, Cerco, dunque credo? I giovani e una nuova spiritualità, Vita e Pensiero, Milano 2024), riassume il senso e la sfida del «Laboratorio Giovani – Credere domani», che si è svolto nella casa diocesana di spiritualità San Fidenzio (Verona) dal 26 al 29 agosto 2024. Si tratta di un’iniziativa che i due vescovi Domenico Pompili e Erio Castellucci hanno affidato ai rispettivi Istituti superiori di scienze religiose di Verona e dell’Emilia. Il laboratorio ha visto la partecipazione di 90 persone, presbiteri, diaconi, laici e laiche, religiosi e religiose. Inizialmente pensata come proposta per le due regioni ecclesiastiche del Trivento e dell’Emilia-Romagna, vi hanno aderito le regioni Piemonte, Puglia, Sicilia, Marche e Lazio, per un totale di 20 diocesi. Il Laboratorio Giovani è un processo formativo che si snoda su tre anni. Riportiamo qui di seguito la relazione finale di Fabrizio Rinaldi e Lucia Vantini dopo i giorni estivi di agosto 2024, che avevano come focus la «spiritualità». L’antropologia con le sue domande etiche e il rapporto con la Chiesa saranno l’oggetto della riflessione rispettivamente degli anni 2025 e 2026.

Quale cristianesimo?

Questa domanda è un segno di speranza, perché suggerisce la possibilità concreta che, dall’ascolto della realtà attuale, nasca una memoria creativa capace di immaginare un futuro condiviso.

Il tempo si presenta aperto, in avanti e indietro e proprio per questa breccia passa la luce che consente l’intreccio tra il passato da custodire, il presente da accogliere e onorare e il futuro che è già qui, sotto forma di seme, di anticipazione, di segno.

In una delle canzoni scelte per il momento di spiritualità, la voce di Nicolò Fabi dava forma poetica alla nostra condizione attuale: «In questo tempo non è facile orientarsi, nella cartina che teniamo tra le mani non ci sono i punti cardinali». Eppure una cosa è certa: il tempo chiuso è quello vissuto «al di fuori dell’amore».

Questa consapevolezza si salda con la ricerca di spiritualità delle vite più giovani, sulle tracce di una fede ben definita da un altro cantante, Nayt: una fede cercata non per terrore ma per amore.

Il viaggio è già iniziato (senza annunciazioni)

È facile correre ai temi attuali che riguardano la vita della Chiesa, intesa sia come istituzione sia come insieme delle comunità cristiane. Ad es., la distribuzione del potere, i ruoli, lo spazio per il femminile, il tipo di relazioni che si sperimentano in una parrocchia, lo stile organizzativo-aziendale tipico di molte comunità… Questi giorni hanno però inteso tenere l’attenzione su un tema più radicale: la spiritualità.

Il viaggio è già iniziato e senza annunciazioni. Accade così per ogni vita: ti accorgi che c’è in ritardo, te ne accorgi anche grazie a un ritardo. Non siamo iniziatori o iniziatrici, se non nel senso che iniziamo – accompagniamo – a vedere che l’inizio non è nelle nostre mani. Tutta la vita è fatta così, siamo come spettatori che arrivano tardi a teatro e che a luci spente cercano un posto. Le prime battute, però, sono perse per sempre. Puoi fartele raccontare, ma non sarà mai la stessa cosa (Sloterdijk).

L’origine – come diceva suor Grazia riguardo al far memoria del Salmo 78 – è un mistero. Allo stesso tempo, si avverte che qualcosa è sopravvenuto, che non è più come prima, che non possiamo tornare indietro.

Il risultato è questo: l’evento è in atto ma la lingua è rimasta indietro. Nominiamo con parole stanche qualcosa che nasce in modo misterioso e, mentre cerchiamo il senso delle cose, troviamo promesse. Ecco perché, per esprimere la spiritualità, abbiamo cercato musica, poesia, narrazione evocativa.

Lo Spirito dà la vita, e questo significa anche che vivifica le domande e fa sentire nuove voci. Di solito, sono quelle silenziate o che comunque non si aspettavano di essere ascoltate, di essere interessanti per qualcuno che guarda altrove. In questa complessità e nella fatica di nominare i processi mentre ci stiamo dentro, sentiamo che si è aperto uno spazio e percepiamo il desiderio che quello spazio sia una delle crepe da cui – come diceva Enzo Biemmi riprendendo Cohen – passa la luce.

Ecco perché abbiamo insistito sulle domande. Le domande creano lo spazio necessario tra noi e il mondo in cui siamo immersi, creano le condizioni perché ciò che è ovvio non sembri più così sicuro, perché ciò che sembra definitivo mostri una possibilità, perché l’inevitabile risulti sospeso, perché il provvisorio non appaia definitivo.

Ogni punto di domanda sospende una situazione di immersione senza respiro, ogni sensazione che il mondo ti sia caduto addosso, ogni giudizio troppo facile dato solo per scappare da ciò che ci spaventa. Non siamo alla ricerca di risposte ma di domande che aprano le finestre, sblocchino le porte e ripuliscano le cantine in cui circolano le nostre ripetizioni.

Abbiamo espresso il bisogno e il desiderio di luoghi in cui riscoprirci insieme, dalla stessa parte, ma anche in cui misurare le distanze che vanno comunque riconosciute.

Come possiamo intercettare l’implicito che già fa parte della storia, ma che ancora non è codificato? L’immagine della barca, che nel cristianesimo leggiamo spesso in chiave ecclesiologica, può diventare anche elemento di riconfigurazione del discorso. Per es., da nessuna parte leggiamo che le promesse di Dio riguardano l’impossibilità di un naufragio. Piuttosto, si tratta di imparare a nuotare (cf. suor Grazia: insegnare ai figli la Torah e a saper nuotare).

L’immaginario della barca che naviga in mare aperto, esposta alle tempeste, con rotte incerte e zavorre di cui disfarsi, è molto evocativo. La vignetta con cui abbiamo aperto queste giornate lo attesta.

Un’altra immagine emersa è quella della mappa. Un po’ come è accaduto a Cristoforo Colombo: in certi casi, non basta aggiungere un nome sulla cartina, ma occorre una riscrittura. Tra la memoria e il futuro, c’è la fedeltà al presente. La voce che ti racconta del presente potrebbe essere imprevista e va ascoltata con attenzione, perché potrebbe essere profezia (ma senza alcuna garanzia).

Lo Spirito che cosa ci dice nelle voci che hanno risuonato qui? Lo Spirito, più che coincidere con una voce o avere qualcosa da dire, è il Dio che dà la vita, cioè dà lo spazio per far risuonare le voci emarginate, creative, denigrate, profetiche. La presenza dello Spirito emerge anche nel rovesciamento dei ruoli e nello stupore per lo spazio comunitario aperto.

Viaggio come partenza

Abbiamo visto nel ciclo di Giuseppe quanto sia frequente il rischio di interpretare i sogni altrui in chiave di dominio, impedendo che venga riconosciuto il desiderio buono contenuto in essi. E questo accade sia verso i sogni dei giovani sia verso quelli degli adulti.

Talvolta si sperimenta la fatica di trovare il proprio sogno per la pressione del mondo, cioè per la pressione che la società che abbiamo costruito esercita su ciascuno di noi. In questi casi è necessario emanciparsi, svincolarsi dall’obbligo di fare ciò che altri si attendono da noi, siano essi i genitori o il parroco o il gruppo degli amici.

L’emancipazione diventa, talvolta, una premessa indispensabile perché giovani e adulti possano continuare a sognare, pur sapendo che da sola non basta. Se la pressione è troppo alta, devi prendere distanza: solo così si apre il viaggio e la ricerca spirituale.

Una parola chiave che è emersa più volte è l’irrilevanza di tutto ciò che non permette di partire o impedisce di viaggiare.

Viene subito alla mente l’irrilevanza della Chiesa quando non è accogliente, non attiva relazioni vere e tiene una distanza di sicurezza da coloro che soffrono o sono fuori dagli schemi ordinari.

Ma c’è una più radicale irrilevanza del vangelo proposto quando il messaggio mediato da una comunità cristiana chiude le domande anziché farle sorgere. Le ricette per ogni situazione, le promesse di felicità garantita, le dottrine lontane dalla vita, fanno allontanare coloro che hanno capito di dover cercare. Spesso è un allontanamento silenzioso, senza litigare né sbattere la porta, che dice il disinteresse per un ambiente che non ha nulla da offrire alla ricerca spirituale.

Nelle biografie ascoltate, è emersa più volte una visione religiosa scorretta che purtroppo si riscontra ancora in molte comunità cristiane. In poche parole, si ritiene che ci sia un progetto di Dio dietro ogni cosa che accade. Si ignorano in questo modo le riflessioni che la teologia ha fatto a più riprese lungo la storia e divenute un punto di non ritorno dopo Auschwitz: non si può credere in un Dio che manda a morte milioni di persone per poi ricavarne un bene superiore chissà quando e in che modo.

Ma questa visione religiosa ignora anche la sofferenza e i dubbi di tutti coloro che hanno già sperimentato sulla propria pelle qualche evento doloroso. Dove è diffusa tale visione religiosa, abbiamo una comunità cristiana che evita di incontrare realmente il dolore, dicendo che tutto rientra in un progetto divino imperscrutabile: così, mentre qualcuno sembra partecipare tranquillo alla mensa, il fratello a cui è capitato qualcosa di grave è chiuso nella cisterna da solo – come Giuseppe –, perché non può credere in un Dio che ha voluto il suo male.

Viaggio come scoperta di qualcosa che non stavi cercando

Abbiamo registrato un’insistenza sulla dimensione della ricerca. Il viaggio dei pellegrini ha una meta, ma può essere più o meno capace di attenzione a ciò che non serve.

La storia ambientata a Serendippo (testo di Telmo Pievani, dal titolo Serendipità) rivela l’importanza di fare attenzione a ciò che in quel momento non serve al progetto della vita, alla situazione presente, al contesto. Siamo chiamati a trovare ciò che non stavamo cercando ma questo è possibile solo nell’attenzione.

Simone Weil diceva che l’attenzione è la più essenziale forma di spiritualità. «Ogni essere grida per venir letto altrimenti»: lo Spirito come attenzione al grido muto del reale, ma anche come sinergia capace di modificare il quadro interpretativo. Es., chi ci dice che le fragilità e le incertezze di questa generazione siano il segno di una debolezza e non, come dice Benasayag, la sana e giusta reazione di rabbia a quel mondo inospitale e competitivo in cui sono collocati?

Dalle testimonianze è emersa un’antropologia diffusa nei giovani in ricerca, la quale vede il mondo con una simbolica di apertura al trascendente che gli adulti sembrano dimenticare e la spiritualità è seguire questa apertura mettendosi in viaggio.

Questo aspetto risuona sia nelle esperienze con tonalità emotive positive, come la ricerca di felicità e pienezza di vita, sia in quelle con tonalità più cupe come l’ansia, la malinconia, la solitudine, il buio… anche in esse, e talvolta proprio attraverso di esse, la domanda rimane aperta.

Per continuare il viaggio, occorre prendere confidenza con il buio delle situazioni, capaci di riconoscere i segni del giorno che arriva ma senza dimenticare che tornerà la notte.

Anche il disorientamento rispetto al futuro è un’esperienza diffusa di questo tipo, soltanto che i giovani la esplicitano e provano a giocarsi in qualche direzione, mentre gli adulti, che hanno una posizione sociale già stabilita, rimangono inquieti interiormente e spesso sfiduciati.

In questa prospettiva anche temi come il ruolo delle donne, la sessualità, il mondo LGBTQ+ vengono riletti anzitutto per l’apertura al trascendente che abbraccia ogni esperienza umana. Non c’è alcuna esperienza che meriti una chiusura a priori, della quale cioè si possa affermare che escluda ogni apertura alla trascendenza e quindi è meglio evitarla; al contrario, occorre cercare insieme le parole perché possano esprimere la ricerca spirituale presente anche in essa.

Oltre il già detto. Risonanze e dissonanze
Connessioni e cosmo

La ricerca dell’Istituto Toniolo ha messo in luce la spiritualità giovanile come: 1. viaggio, 2. introspezione, 3. relazioni, 4. connessione, 5. ricerca di sé.

In questi cinque ambiti riconosciamo l’urgenza di tenere insieme la profondità soggettiva, la giustizia negli affetti e quel senso di parzialità che ogni creatura dovrebbe avvertire rispetto al tutto.

Sembra che l’insieme regga là dove le relazioni esprimono lo spazio per l’esplorazione libera nel mondo (viaggiare), per cercare e trovare continuamente noi stessi (introspezione e ricerca di sé) e per avvertire che siamo parte di un tutto (la questione della natura e della materialità dell’essere).

In questo campo complesso, mi soffermo su una parola che è tornata spesso: interconnessione.

La spiritualità di questo tempo ha a che fare con il sentirsi parte del tutto, con un bisogno di radicamento cosmico, con il desiderio di sintonizzare il proprio respiro con quello del creato. È l’arte di riconoscere che una goccia nel mare certamente si disperde ma che anche in quella goccia c’è il mare. Il mistico indiano Ramana Maharshi diceva: «Che la goccia d’acqua si fonde con il mare lo sanno tutti, che il mare sta nella goccia lo sanno in pochi».

Forse, proprio per questo Gibran diceva che dalle gocce di rugiada possiamo addirittura imparare qualcosa sul mare. Il divino nel frammento che sembra distante o non ricomponibile con l’esplicito della fede, un po’ come diceva Rahner.

Emerge una domanda: sappiamo sostenere culturalmente e vivere concretamente una spiritualità cosmica, che è in fondo anche biblica? Secondo Tomáš Halík questa è una sfida ineludibile:

«Una nuova evangelizzazione, realmente nuova, degna di questo nome, oggi ha un compito difficile: cercare il Cristo universale, la cui grandezza è spesso nascosta dalla limitatezza della nostra visione, dalle nostre troppo ristrette prospettive e categorie di pensiero. Cercare il Cristo universale è un compito e un segno di questi tempi. […] Dobbiamo riformare quanto era deformato fino a trasformare tutto quanto è stato rafforzato; molto di quanto abbiamo rafforzato e fortificato è stato sconvolto. Ma questo libera lo spazio per la ricerca di un “Cristo più grande”, un Cristo che supera le rappresentazioni che di lui abbiamo avuto finora, e per un’evoluzione del cristianesimo che superi i suoi attuali confini istituzionali e mentali» (Tomáš Halík, Pomeriggio del cristianesimo).

Parlare di interconnessione fa subito pensare all’opera dello Spirito che dà vita, parla nell’intimo dei cuori e, al tempo stesso, promuove la comunione.

Lo Spirito crea buone alleanze, tiene insieme il vissuto nel frammento, ma anche ci tiene insieme. A volte, non ci rendiamo conto di avere gli stessi sogni, che siamo accesi dagli stessi desideri di vita, di bene, di luce; altre volte, invece, ci capita di dissimulare o addomesticare le differenze come se stare sulla stessa barca non prevedesse posizioni e destini diversi.

Tuttavia, l’opera dello Spirito non è solo armonizzazione: si avverte una crisi. Apocalisse è parola che circola non nel senso biblico né in quello fantascientifico ma nell’accezione di una catastrofe che genera incertezza. Non è solo il pensiero dell’inizio a essere in gioco, ma anche quello della fine. Il cristianesimo non riesce ad attingere alle sue risorse apocalittiche (Candiard) e non sa trasformare la crisi in sintomo che rivela la malattia, non sa fare del negativo un’occasione di cambiamento.

Un elemento di crisi è sicuramente la comunità. Dal punto di vista teologico, si afferma che lo Spirito porta il soggetto verso la profondità del sé, ma lo spinge anche fuori, a comportarsi da figlio/a (nessuno si mette al mondo da solo) e da fratello e sorella. Un mondo che cancella il debito della nascita (nel senso che premia «chi si è fatto da sé») e dove crescere significa diventare «autonomi», è avvenuto uno squilibrio: si è privilegiato l’asse intimistico perché quello politico-sociale-comunitario si è consumato in un individualismo competitivo che ci fa stare tutte e tutti male. Questo deve far riflettere sulla nostra cultura della nascita e sul nostro modo di guardare al futuro.

È innegabile che, spesso, desideriamo che il figlio abbia una posizione di successo e collochiamo i legami affettivi al secondo posto. Ma non sarà che, così facendo, abbiamo tradotto la “perfezione” evangelica con una cultura della prestazione?

Un approccio centrato sull’interconnessione con il tutto ha delle conseguenze anche sulla spiritualità, perché si è fatto avanti un altro modo di abitare il mondo, un modo molto diverso da quello che eravamo abituati a raccontare (cioè quello delle creature di fronte a un Creatore, in un mondo che è solo il teatro materiale di questa storia di appuntamenti mancati tra noi e Dio).

Siamo creature insieme ad altre creature, dentro un processo vitale che sfuma i volti personali e valorizza le immersioni nel mistero.

Non è qualcosa che questa generazione ha inventato: ne troviamo tracce in diverse teologie panenteiste. Non sono certo tutte uguali (cf. Johnson che, riprendendo Giobbe, rilegge l’incarnazione non solo come vicenda umana ma anche come evento cosmico, al punto che la risurrezione costituisce una promessa per ogni creatura). Questo porta a rinvenire una comunione con tutti e con il tutto e a ragionare in termini di comunità della creazione.

Ci possiamo disfare dell’antropocentrismo senza diventare qualunque cosa? La domanda si impone nella consapevolezza che questi spostamenti non sono puntini che si aggiungono sulla vecchia mappa e che cambiare mappa significa trovarsi sospesi.

In un recente libro dedicato all’epoca dell’intranquillità, dove Benasayag si confronta con il giovane Teodoro Cohen, è questa un’occasione imperdibile per accettare che la vita sia un gioco tra costruzione e decostruzione nel quale ci sono occasioni di sbilanciamento fecondo, di passare dalla paura che rende instabili e che paralizza, all’azione solidale che si dà proprio nel patire, di entrare in amicizia con il divenire e con le possibilità dischiuse della storia. Con le parole del testo: «Non è questione di cercare una nuova sicurezza ma di cambiare la nostra attitudine esistenziale, passando dall’esperienza passiva dell’insicurezza a quella attiva dell’intranquillità.

L’insicurezza è un’esperienza passiva di sofferenza, in cui il mondo esterno e le sue minacce vengono subite. Essa presuppone che si possa, perlomeno teoricamente, giungere a uno stato di sicurezza definitivo, allontanando così, una volta per tutte, l’insicurezza in atto (come promettono molti politici)».

Viaggio personale e comunità

La spiritualità che emerge dal mondo giovanile è spesso declinata al singolare, un viaggio solitario alla ricerca di senso, verità e pienezza di vita. E tuttavia, spesso il viaggio è costellato di incontri personali talvolta casuali così come da esperienze vissute di vario tipo, dal contatto con la natura alla malattia e alla morte di una persona cara.

La spiritualità come ricerca delle parole per dare senso alla vita che è sempre nuova, è un viaggio che si può fare insieme. Riconosciamo un segno dello Spirito proprio nella spinta a compromettersi nella relazione con altri e nella «temperatura» che si alza durante l’ascolto reciproco. Riconoscere un primato alla vita come fonte di riflessione spirituale e teologica fa sì che ciascuno sia abilitato a portare un contributo di valore.

Abbiamo incontrato giovani stupiti di stare in dialogo alla pari con degli adulti, perché in genere si parte dalle competenze teoriche o tecniche, e quindi si presume che i giovani non abbiano contributi di valore da portare.

Rimane una tensione circa l’appartenenza ad una comunità. Talvolta essa matura durante il viaggio spirituale del singolo, ma certamente non per tutti e non come punto di partenza. Anche nelle biografie che iniziano con una forte appartenenza ad una comunità cristiana, arriva il momento della delusione e del distacco. Da lì in avanti il cammino è più aperto e l’esito non può essere previsto in anticipo.

Una spiritualità che ricerca la connessione con sé stessi, con gli altri, con la natura e con il tutto non accetta di lasciarsi imbrigliare negli schemi di una comunità già formata, con idee, prassi e modalità di credere predeterminate. I giovani che percepiscono la chiusura, la lentezza, la lontananza della comunità cristiana che hanno conosciuto – il suo essere vecchia – stanno forse portando un messaggio evangelico? Il loro allontanarsi, spesso silenzioso, non testimonia forse che è possibile liberarsi da certe strutture, senza per questo essere colpiti da un fulmine divino ma anzi sentendo la vita che rinasce?

Il Regno e la Chiesa

Tensione ben nota alla teologia eppure sempre attuale per il rischio costante di mettere la Chiesa al primo posto, e ridurre la venuta del Regno ad una conseguenza. È evidente che una Chiesa preoccupata di difendere i propri spazi di potere non interessa a nessuno di coloro che sono in un viaggio spirituale e cercano la connessione con il tutto.

Una comunità cristiana maggiormente capace di accogliere le persone, di creare relazioni di prossimità, di impegnarsi per la giustizia e di mettersi a servizio dei più poveri è sicuramente affascinante come segno del Regno.

Riconoscere il primato del Regno fa emergere con forza le domande su ciò che è specificamente cristiano e su quale sia il suo valore aggiunto.

Una ricerca spirituale libera e aperta come quella che emerge da molte biografie di giovani non disdegna la contaminazione con elementi di altre religioni, prende spunto dai testi biblici come dalle canzoni di Gaber, celebra con una cena la guarigione di un amico senza alcuna nostalgia per la messa domenicale.

La tradizione cristiana è convinta di custodire un di più, ma questo valore aggiunto – se è vero – deve mostrarsi nelle ricadute vitali che produce, in un contesto sociale pluralista e nel pluralismo interiore che abita ciascuno di noi.

Spirito di vita e Cristo sulla croce

Portare l’attenzione alle esperienze significative di vita fa emergere la storia, personale e collettiva, che, con la sua contingenza, crea una complessità e un non senso, che non possono essere chiusi con riflessioni razionali. Il controllo su tutti gli eventi importanti della vita è illusione. Il dolore e la sofferenza esplicitano questo non senso: la vicinanza di Dio o il suo silenzio espressi nel grido della croce rimangono scandalo perché il Dio di Gesù Cristo è un Dio che non toglie dai guai.

Qui emerge la delusione per il Dio onnipotente in cui si credeva da bambini. Spesso le biografie ascoltate raccontano di questo passaggio e non mostrano la scoperta del Dio di Gesù Cristo. Anzi il Cristo è percepito per l’aspetto dogmatico che ne è derivato nei secoli successivi anziché per la sua umanità, diventa qualcosa di religioso che va tolto per fare spazio alla ricerca spirituale.

Il patire come tema spirituale è emerso (morte, solitudine, nostalgia), prenderlo sul serio fa uscire dal mito dell’eroe e mette in ricerca.

Il Dio di Gesù Cristo non toglie questo aspetto, ma interpella con la sua vicinanza o con il suo silenzio, e questa chiamata evita all’uomo di rimanere solo una vittima degli eventi. Questa prospettiva non è per i bambini e non è una risposta capace di rimuovere la pericolosità del male. Consente tuttavia di riconoscere che la vulnerabilità è nella vita, collocando però questa lettura in una cornice di senso che evita di diventare vittima degli eventi.

Finché nutriamo aspettative di protezione dalla vulnerabilità della vita stessa, non possiamo uscire dalle ansie per il futuro che così fortemente toccano sia il mondo adulto sia quello giovanile. E solo la sapienza di patire apre la possibilità di com-patire i nostri fratelli e sorelle, nella gioia e nel dolore.

Fede in Dio come scelta

Appartenere a un tutto, sentire le connessioni con sé stessi, gli altri e la natura consente di sperimentare una trascendenza che, mentre si colloca nel qui e ora, apre a qualcosa di ulteriore. Questo evita di rimanere prigionieri delle vicende quotidiane e della materialità. Riconoscere un Dio personale dietro e dentro questo tutto, qualcuno a cui è possibile rivolgersi come ad un amico, è una possibilità, ma certamente non è l’unica.

La fede in un Dio personale cambia realmente l’esperienza spirituale, non è una semplice sovrastruttura che si può aggiungere o eliminare senza conseguenze. Tuttavia, non si tratta di tornare indietro alla fede infantile, che nasconde il lato buio dell’esistenza, come se questo Dio personale fosse lì per consolare da ogni dolore.

Nemmeno si può considerare il riconoscimento di questo Dio personale come un atto dovuto, una conseguenza logica di tutto il percorso fatto. Anche questo sarebbe un tentativo di archiviare il disincanto come un’esperienza vissuta ma ormai superata.

La fede in un Dio personale dopo il disincanto è scoperta di una vicinanza possibile anche nella distanza, di un affetto e una razionalità che non vengono meno anche nell’incomprensione di ciò che rimane irrazionale.

Una fede di questo tipo non elimina il dubbio ma lo prende come prezioso compagno di viaggio, non fornisce interpretazioni univoche degli eventi della vita, ma suggerisce parole per dare senso agli spiragli di luce che la sentinella intravede nella notte, sapendo che, dopo la notte, arriverà il mattino e poi di nuovo la notte.

Si dice che la fede è risposta davanti al riconoscimento di un dono ricevuto, ma, nell’esperienza vissuta, i due momenti non sono così distinti. Si sceglie di credere e, al tempo stesso, ci si scopre credenti pur in mezzo a dubbi e domande che rimangono senza risposta, si sceglie di afferrare la mano che Dio ci tende ma poi si fatica a distinguere chi dei due ha stretto per primo la mano dell’altro.

Una fede di questo tipo può essere raccontata da chi la vive, ma non si può suscitare in altri tramite un’azione educativa o pastorale né della Chiesa né dei genitori o di chiunque altro.

L’ansia di garantire il futuro dovremmo lasciarla andare. Possiamo, però, avere fiducia che Dio non è lontano da nessuno e, se ci aiutiamo a vicenda a non essere «distratti», forse prima o poi lo incontriamo.

Sollecitazioni concrete

Un episodio personale. Il nonno usa spesso Alexa come se fosse un juke-box, perché ha scoperto che ascoltare la musica che gli piace ha un effetto terapeutico sia per l’umore sia per il corpo. Da qualche giorno, però, Alexa non risponde più ai comandi e i figli cercano di capire il problema, senza risultato.

Un nipote chiede: «Per caso è saltata la corrente?». Alle orecchie dei presenti, la domanda suona imprevista e incomprensibile, ma si rivelerà essenziale. Il nonno, infatti, lo conferma e racconta anche che, due giorni prima, i ladri sono entrati in casa e hanno staccato la corrente, per poi andarsene in fretta in un altro appartamento dato che qui non hanno trovato nulla di valore. L’informazione orienta le operazioni e la musica ritorna.

La domanda imprevista, dunque, non solo ha permesso di capire e risolvere il problema, ma ha anche iniziato un nuovo percorso narrativo: i figli infatti non sapevano nulla del ladro, della finestra spesso lasciata di notte aperta…

Per affrontare alcune situazioni “difficili” nella Chiesa dobbiamo avere il coraggio di porre domande di questo tipo, che forse non aiuteranno soltanto a trovare soluzioni ma apriranno prospettive nuove. Sembra che, nel mondo ecclesiale, sia saltata la corrente: tra generazioni, ma non solo. Accenniamo ad alcuni aspetti oggi “difficili”.

Il mondo LGBTQI+

Il vangelo è una storia d’amore dove si vede una misura inedita dell’affetto e della sua giustizia. L’amore autentico è quello che, piuttosto di ritirarsi o di sacrificare qualcuno, accetta di perdere tutto.

Nella storia evangelica l’amore è quello che sa tirare fuori il meglio dalle vite e che le fa fiorire, facendo anzitutto attenzione a ciò che sta ai margini, sospendendo la logica della vendetta e del risentimento, mantenendo aperta una possibilità di fare un passo indietro o un passo avanti, contrastando l’ipocrisia, s-confinando per restituire libertà e accettandola fino in fondo.

Siamo chiamati a mostrare che essere riconosciuti è importante, ma che, nel riconoscimento, non sta la nostra misura. Esautorare le fonti di violenza simbolica e pratica è importante.

La questione delle donne

E di tutto ciò che vi è connesso. Guardiamoci da fuori, che cosa vediamo su come traduciamo l’idea di essere un popolo di Dio nel battesimo? Tanti piani sono coinvolti, non solo quello ministeriale, ma anche la trasmissione teologica, il linguaggio e l’immaginario con cui rappresentiamo i sessi.

Le giovani donne spesso rigettano il femminismo come qualcosa di superato che riguarda le madri o le nonne del secolo scorso, giustamente arrabbiate per un tempo così sfavorevole alla loro libertà, e manifestano piuttosto una forte sensibilità per l’incrocio delle differenze (in chiave intersezionale). Ciò accade fino a quando non patiscono personalmente lo squilibrio di genere. E non è un caso che le ricerche sociologiche mostrino che l’allontanamento delle donne under 40 dalla Chiesa è più marcato di quello dei coetanei maschi.

Liberare la parola e il potere

Possiamo convergere tutte e tutti su alcuni discorsi che riguardano la fioritura della vita, la gratuità delle relazioni, il fatto che la vita è attraversata dal mistero, ma quando ci avviciniamo alla storia concreta, si moltiplicano gli attriti e le tensioni.

Il mondo delle persone giovani, credenti e non credenti (o diversamente credenti) ci dice che c’è un problema di rilevanza del vangelo perché le relazioni sono ferite da molte violenze simboliche e pratiche verso le persone omosessuali, verso le donne, verso quelle miserie del mondo in cui chi è vittima dell’ingiustizia non si limita a ricevere l’aiuto misericordiosamente concesso, ma pretende di dare un’altra versione del mondo e di metterci di fronte alla nostra complicità con il male.

Possiamo modificare la lingua, promuovere le donne, fare riti nascosti per chi, secondo noi, non merita la grazia alla luce del sole. Ma il Dio che ci salva sottobanco ci chiede di stare alla luce del sole nella giustizia verso tutte le vite. Nessuna vita può essere considerata sacrificabile. Non scandalizzare i piccoli non ha mai significato: cerca di non esagerare perché la gente va tenuta buona e va rassicurata con un po’ di tradizione.

Resta aperta la distanza tra vangelo e storia. C’è un legame tra l’interiorizzazione della spiritualità, lo scoraggiamento verso le istituzioni e il nostro modo di essere fratelli e sorelle. Là dove tutto si interiorizza, noi dobbiamo avere il coraggio di leggere una crisi delle istituzioni. A quali condizioni un’istituzione resta capace di vitalità spirituale?

Vorrei concentrarmi su ciò che non è stato detto, ma che avverto tra le righe delle narrazioni ascoltate: c’è tanta necrofilia in questo mondo, e non ci resta che fare come Etty Hillesum che non poteva aspettarsi nulla da un mondo in mano nazista e allora cercava la pace del cuore e la bellezza di un ciclamino bagnato di pioggia, cercava di non odiare il nemico perché sapeva che ogni atomo d’odio impoveriva il mondo, e cercava dio come la parte migliore di sé, un Dio che abita l’interiorità dell’anima, un Dio che va aiutato perché non ci può aiutare, un Dio che va disseppellito da tutti i cuori feriti dal mondo. E diceva: non servirà a nulla sopravvivere, se non avremo generato un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi profondi della nostra miseria.

Immergersi in questi pozzi profondi significa liberare le parole e le storie, consegnare loro uno spazio per dirsi e per confrontarsi, disinnescare la violenza che si associa ai desideri più sfortunati.

Come emerge dalla pratica di Trento: può nascere qualcosa di evangelico anche al di là delle strutture formative istituzionali. Le strutture istituzionali, così come sono configurate, sono troppo fragili per reggere il conflitto su questo. Ma, se finora questi temi non hanno trovato luoghi autentici di discussione, c’è la possibilità di luoghi ospitali al di là dei soliti confini? Lo Spirito dice di sì, perché lo Spirito crea spazi.

Atti 27

Capitolo 27 degli Atti: si parla di un viaggio in mare e il vento non permette di approdare. La navigazione si è fatta pericolosa e Paolo nomina il rischio di un danno non solo per il carico e per la nave, ma anche per le nostre vite. Il centurione, che li aveva fatti salire su quella nave, ascoltava il pilota e il capitano della nave, mentre non dava retta a Paolo. A un certo punto comincia a soffiare un leggero scirocco, si prende coraggio, ci si illude di poter raggiungere un posto più adatto a far passare l’inverno e si lascia Creta. Sono convinti di poter realizzare il progetto, ma si scatena un uragano. La nave, sbattuta con violenza dalla tempesta, va alla deriva.

Allora, il giorno dopo, cominciano a disfarsi del carico. Il terzo giorno si liberano dell’attrezzatura. Non si vede il sole, non si vedono le stelle, non si mangia. Paolo prende la parola: era meglio dargli retta ma esorta a non perdere il coraggio. «Non ci sarà alcuna perdita di vite in mezzo a voi, ma solo della nave» (At 27,22). «Ma è inevitabile che andiamo a finire su qualche isola» (At 27,26).

I marinai vogliono abbandonare la nave: ma, sembra dire Paolo, ci si può salvare solo insieme. Li invita a mangiare, rassicurando che neanche un capello del loro capo andrà perduto. Gettano il frumento in mare e si alleggeriscono ancora. Una volta arrivato il giorno, non riescono a riconoscere quella terra. In ogni caso i problemi non sono finiti, perché si incagliano: «mentre la prua arenata rimaneva immobile, la poppa minacciava di sfasciarsi sotto la violenza delle onde» (At 27,42).

Qualcuno pensa di uccidere i prigionieri. Il centurione lo impedisce e dà un ordine preciso: si gettino in mare prima coloro che sanno nuotare e poi gli altri, su tavole o su altri rottami della nave. Così tutti poterono mettersi in salvo a terra.

In questo brano emergono tre livelli del pericolo (carico, nave, vite) e la promessa divina espressa da Paolo non dà garanzie se non per l’ultimo. Di qui l’importanza di saper nuotare (imparare la Torah e imparare a nuotare), per una salvezza comune.

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Un commento

  1. Giuseppe 14 settembre 2024

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