Prosegue la rubrica «Verso il Sinodo sui giovani», firmata da don Armando Matteo per la rivista Vita pastorale. Il mensile per operatori pastorali, che con il numero di novembre 2017 ha cambiato veste grafica, intende accompagnare in modo significativo il cammino della Chiesa italiana in questo cambiamento di epoca. Ringraziamo il direttore per il consenso a pubblicare anche su Settimana News la rubrica di Armando Matteo. Vedi anche: Crescere in una società senza adulti /1.
La riflessione degli operatori pastorali lungo la rotta verso il Sinodo sui giovani dovrebbe trovare il suo stimolo maggiore nello sforzo di passare dalle attuali forme di pastorale giovanile a quelle tutte da inventare legate a ciò che il Documento preparatorio del Sinodo evoca come “pastorale giovanile vocazionale”.
Prima di presentare una concreta declinazione di questo rinnovamento dell’azione ecclesiale rivolta al mondo delle nuove generazioni, è opportuno però tenere a mente due fatti.
Già nell’esordio di questa rubrica lo scorso mese di novembre, abbiamo indicato il primo: i giovani si trovano a vivere in una società “senza adulti”. Il secondo è il cambio di segno che oggi l’esperienza del credere cristiano patisce.
Nessuno meglio del filosofo canadese Charles Taylor è riuscito a dipingere il destino che l’esperienza della fede oggi sperimenta in termini generali, quando constata il movimento «da una società in cui era virtualmente impossibile non credere in Dio, a una in cui la fede, anche per il credente più devoto, è solo una possibilità umana tra le altre. Posso magari ritenere inconcepibile l’idea di abbandonare la mia fede, ma esistono altre persone, ivi comprese alcune che mi sono particolarmente care, e il cui stile di vita non posso in tutta onestà respingere come semplicemente depravato, cieco o indegno, che non hanno fede (o quanto meno non hanno fede in Dio o nel trascendente)».
Purtroppo, però, la novità di quest’ora della storia non si annuncia unicamente in questa trasformazione della scelta del credere in una delle tante possibilità dell’esistenza umana; quella del credere diventa, in verità, giorno dopo giorno, una scelta minoritaria; di più, diventa un’opzione di cui non essere più orgogliosi e fieri.
Se ci fu un tempo in cui era la professione di ateismo ad essere guardata con sospetto, oggi è quella di fede che attira su di sé una valutazione sinistra. Insomma, dichiararsi credenti non solo non è più l’opzione di base del cittadino postmoderno, ma è sempre di più un’opzione di cui ci si deve quasi “giustificare”.
Al riguardo la sensibilità giovanile è particolarmente sfidata, come ha raccontato assai efficacemente Franco Garelli sulle pagine 65-67 del suo Piccoli atei crescono: «Occorre un outing della fede?».
Se credere, dunque, non è più di moda, per dire le cose con una formula semplice ma abbastanza efficace, gli operatori pastorali – interessati a che i giovani e le giovani possano sul serio accedere almeno ad uno stadio iniziale della fede adulta – dovranno sempre di più tenere conto che oggi la fede costa, fa differenza, crea impegni, impone scelte controcorrente.
La pastorale giovanile vocazione che ci attende sarà chiamata a dire le cose per quello che sono. La fede non è un gioco da ragazzi, è un affare da adulti, anzi rappresenta il modo migliore per corrispondere a quella che è la vera vocazione di ogni adulto: la vocazione di dimenticarsi di sé in vista della cura d’altri, la vocazione alla generatività.
Non stupisce affatto, a questo punto, cogliere il dato per il quale una società senza adulti è anche una società in cui la fede non è più di moda.
La pastorale giovanile che ci attende, allora, mai dovrà perdere la consapevolezza che la vocazione dei giovani è quella di diventare adulti, mentre quella degli adulti è quella di diventare generativi, e che pertanto l’autentica posta in gioco dell’esperienza del credere consiste alla fine dei conti proprio nel permettere un’assunzione convinta e liberante dell’identità adulta nella sua verità.