Vorrei prendere le difese di una categoria che nei racconti della Nascita qualche volta mi sembra bistrattata. Si tratta degli albergatori, che fanno il loro onesto mestiere; ce ne saranno di buoni e disonesti, come in tutte le categorie, e non trovo giusto che ne escano sempre come quelli che hanno rifiutato il Bambino. Non erano certo alberghi a cinque stelle – forse in quelli “un posto” in qualche modo si sarebbe trovato – perché sicuramente il povero Giuseppe non poteva permettersi ripari di lusso. Forse erano semplici locande che davano in condivisione qualche spazio contiguo alla casa, o forse parte della propria stessa abitazione.
Come oggi con i B&B, mi verrebbe da dire. E come oggi, a Milano, prova tu a trovare alloggio se capiti durante la fiera dell’artigianato o alla settimana della moda! Gli albergatori fanno semplicemente il loro mestiere e se non c’è posto, non c’è posto. Sarebbero da stimare invece: in fondo aprono la casa a persone che non conoscono, trattano con rispetto – “il cliente ha sempre ragione” – chi chiede alloggio, senza sindacare sui motivi, vivono come professione il carisma dell’ospitalità che nella Scrittura è tanto lodato. Ma ovviamente lo fanno con il senso del limite: le loro stamberghe sono quelle che sono e non c’è posto per tutti!
Certo, uno potrebbe dare il proprio giaciglio all’ospite dell’ultima ora, ma con questa logica fuori dalla porta ci rimani tu, e comunque poi ne arriveranno sempre altri a chiedere alloggio e a qualcuno si deve dire di no: se non c’è posto, non ce n’è! Ne prendo la difesa perché sento che quello che vivono gli albergatori è molto vicino ad un sentimento contrastante che sento molto vivo in me, e che forse ci riguarda tutti.
Vivo questo paradosso: da una parte mi sembra che nella mia vita manchi sempre qualcosa, ci sia un “posto vuoto”, una assenza che attende di essere colmata; un posto vuoto, un tassello mancante che mi ricorda l’incompiutezza della mia fragile vita, l’attesa di un compimento. Un posto vuoto che io non riesco e non posso colmare, ma solo custodire come fonte di desiderio, come attesa di qualcosa e qualcuno che porti a compimento la mia vita. Dall’altra vivo costantemente con l’impressione di essere in “overbooking”, troppo pieno, troppo preso, ingolfato di cose, attività, responsabilità. Magari è anche questa l’impressione che la gente ha di me, come di tanti preti ma anche di tanti uomini e donne: persone fin troppo indaffarate e per questo che sembrano sfuggenti e irraggiungibili. E mi dispiace.
Di fatto, però, quando arriva una nuova richiesta, quando qualcuno bussa alla porta, quando succedono cose impreviste, che magari potrebbero essere anche una bella opportunità, istintivamente resisto: non c’è posto, non ci sta più niente nella settimana, nella giornata, nella vita. “Non c’è posto” significa che non ho le forze, non ce la faccio a tenere tutto insieme, ma non so a cosa rinunciare, cosa tralasciare.
Viviamo tutti una vita accelerata, ingolfata, troppo piena, che ci sembra di non avere più spazio per altro. Chi ne fa le spese, poi, sono le richieste più indifese, quelle di chi non alza la voce, degli appelli gentili ma meno forti di altri. Penso che sia quello che accade nella vita di tanti e di tutti: il lavoro ti occupa tutto lo spazio che riesce a rubare, poi ci sono la famiglia, i figli, la casa con le quotidiane urgenze…. rimane che “non c’è posto” per altro. “Non c’è posto” per la preghiera, “non c’è posto” per un ascolto più attento delle persone care, “non c’è posto” per un amico che da tempo trascuro, “non c’è posto” per mettermi a servizio di chi ha bisogno….
Una giovane donna mi raccontava qualche giorno fa: “ho anche cambiato lavoro per avere più tempo, più spazio da regalare a mio marito, per poter insieme finalmente pensare a un figlio… ma non ce la faccio, non c’è posto!”. Viviamo una vita troppo complicata, condizionati da una città che è diventata inospitale: non c’è posto per lo straniero, non c’è posto per Dio, non c’è posto per la cura dell’interiorità, per la cura delle relazioni.
Ma la buona notizia è che il Signore viene anche se a noi sembra di non avere posto per lui! Viene in un cantuccio dimenticato della nostra vita, viene quando più non l’aspetto. E quando arriva, il posto lo trova lui, lo crea letteralmente, lo rende reale e sufficiente. Anche perché il Signore – come tutte le cose preziose e vere della vita – non ha bisogno di chissà quale spazio: gli basta un angolo, vive bene ai margini e da lì è capace di irradiare tutta la vita. La sua presenza regala una nuova luce, e ti accorgi che non era vero che “non c’è posto”.
Ti accorgi di quante cose inutili occupano spazio prezioso nella tua vita, di quante preoccupazioni e paure ti tolgono tempo ed energie. Come succede con l’arrivo di un figlio, (e poi magari di un secondo dopo il primo): mentre ti costringe a rivedere le priorità, ti dona anche energie che non pensavi di avere, ti fa scoprire che lo spazio e il tempo ai quali rinunci ti rendono più ricco, ti allargano il cuore e ti allungano la vita.
C’è anche posto per pregare, per ascoltare chi ti è vicino e per accogliere chi ti sembra lontano. Quando il Signore viene, c’è posto per tutti.
Che bella questa riflessione. L’uomo può fare poco, non fare per niente, posto. E ciò per mera debolezza o per egoismo, per superbia. Ma Gesù sa come trovare posto nel minimo anfratto e farne occasione di una salvezza piena, impensabile.