Il 18 gennaio la terra è tornata a tremare nell’Italia centrale (Lazio, Abruzzo, Marche e Umbria). A distanza di mesi dalle prime violenti scosse (24 agosto e 30 ottobre 2016) e delle oltre 500 di assestamento il terremoto è sorprendentemente riapparso. Si sono aggiunti la neve e il freddo. La gente è provata, le istituzioni fanno quello che possono e le comunità cristiane si interrogano.
Sulla dimensione della fede nel tempo del terremoto ha scritto poche ma sapienti pagine il vescovo di Rieti, mons. Domenico Pompili, nella lettera per l’Avvento, il 27 novembre scorso (L’atto di fede). «Viviamo alla giornata, come i malati terminali. Ci ritroviamo così inebetiti, silenti, chiusi in noi stessi. Pudichi rispetto alla paura, specie quando abbiamo a che fare con i bambini e gli anziani che ci sono affidati, così poco capaci di elaborarla e contrastarla».
«C’è chi è arrivato a dire, o a scrivere, che il terremoto è una punizione divina. Dovrebbe rileggere il libro di Giobbe. Scoprirebbe l’insensatezza e la falsa religione del “teorema della retribuzione”. Come se “ce lo siamo meritati” possa essere una risposta alle nostre domande addolorate. L’idea di un Dio che premia e punisce in questo modo è infantile. Lascia il cielo drammaticamente vuoto. La nostra sofferenza apre lo sguardo a un Dio diverso». «Ci sono tre tappe di questo cammino di saggezza che ci possono aiutare. La prima è appunto il rifiuto di un’idea retributiva: essere consapevoli che “Dio non ha voluto punirci”. La seconda è lasciare spazio al dolore: “Fino a quando Signore?”. Si può essere arrabbiati con Dio: è l’impazienza della speranza. La stessa che, col suo linguaggio paradossale, descrive Lutero: “Ci sono più lodi splendide in certe bestemmie di disperati che salgono in cielo, che in tante lodi compassate di persone che stanno bene”. La terza tappa, infine, è del “credere senza garanzia”. È riconoscere che per credere non c’è bisogno di spiegare l’origine della sofferenza. Non si ama Dio perché esaudisce i nostri desideri, né lo si odia se il male piomba nelle nostre vite. Giobbe, alla fine, è capace di amare Dio “per nulla”.
Siamo noi i primi a dover essere ricostruiti, a partire dai legami. Si riparte «non dal “si salvi chi può”, ma dal salvarsi a vicenda. Attraversando insieme il vuoto, il deserto, le macerie di un mondo che fino a ieri sembrava un’oasi». «Siamo nella condizione di rendere di nuovo abitabile un piccolo paradiso diventato deserto. Di dare forma con ogni nostro gesto al mondo nuovo che nascerà dalle macerie. Facciamolo con fede adulta, tenendoci per mano, invitando chi ancora sta dietro le porte chiuse a camminare con noi».
L’Italia è stata spesso provata dai drammi provocati dai sismi: in Friuli il 6 maggio 1976, in Irpinia il 23 novembre 1980, in Umbria il 26 settembre 1997, in Aquila e Abruzzo il 6 aprile 2009, in Emilia-Romagna il maggio-giugno del 2012 e ora, fra agosto 2016 e gennaio 2017 nell’Italia centrale. Ripercorrere quanto i pastori delle Chiese locali hanno scritto alle loro Chiese è un cammino oltre una teodicea che per garantire la potenza e il bene in Dio ha bisogno di “penalizzare” l’uomo, rimuovere la paradossalità del male e riproporre il “teorema della retribuzione” (cf. Sett. 29-30/2012 pp. 8-9; 20/2013 p. 14). Lascia alle nostre spalle l’aspra polemica fra Pierre Bayle e Gottfried Leibniz e il Poema sul disastro di Lisbona di François Voltaire, ma soprattutto, prende in carico la necessità di dare parola e interpretazione ai fatti, senza edulcorarli e senza sottrarsi all’impegno per una risposta operativa e solidale.