Riprendiamo la riflessione di Armando Matteo, «Una fede “adulta”. Linguaggi della fede e cultura contemporanea», che fa parte del dossier della rivista Orientamenti pastorali 6/2023 (cf. qui su Settimana News). Armando Matteo è segretario per la sezione dottrinale della Congregazione per la dottrina della fede e professore straordinario di teologia fondamentale presso l’Università Urbaniana. Su Settimana News pubblica la rubrica Opzione Francesco.
Il crescente ateismo giovanile ha da tempo assunto caratteri generazionali. Non si tratta più di qualche caso isolato di giovane che, celebrata la cresima, si allontana dal mondo ecclesiale per ragioni di aperto o sotterraneo dissenso rispetto a questo o quell’altro punto della dottrina o della morale cattolica; né le ragioni della disaffezione giovanile all’universo della fede vanno ricercate nella volontà tipica di chi si trova alle prese con il proprio cammino di crescita di differenziarsi dall’universo mentale e quindi religioso dei propri genitori e degli altri adulti della società.
Il punto di rottura è legato piuttosto alla difficoltà della stragrande maggioranza dei giovani ad avvistare un qualche possibile significato tra quanto rubricato, lungo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, sotto la voce «cristiano» e la propria ricerca di una risposta il più autenticamente vera alla drammatica e prepotente questione circa il tipo di persona che, crescendo, si desidera divenire.
Insomma, il difficile rapporto dei giovani con la fede si concentra intorno al fatto per il quale tutto ciò che in Chiesa si compie per la loro maturazione spirituale non li abilita affatto a individuare una risposta convincente alla seguente domanda: ma cosa significa essere cristiani, quando si cresce, quando cioè non si è più bambini? È con questo interrogativo che la comunità credente è oggi chiamata a confrontarsi.
Cuore adulto
A guardare le cose più da vicino, ciò che in realtà l’ateismo giovanile odierno testimonia è precisamente la divaricazione sempre più netta tra l’esperienza di vita che il cristianesimo prospetta e l’esperienza di vita con la quale i nostri giovani sono confrontati, a partire dai circoli delle piccole tribù familiari d’appartenenza. In ragione di ciò, con la cresima si tocca ordinariamente un punto di non ritorno. Il sostanziale fallimento della celebrazione di tale sacramento registra il fatto che al presente credere alle parole di Gesù e lasciarsi ispirare da esse non fa più parte dell’ordinario modo di concepire e condurre la vita, quando si cresce, quando si smette di essere bambini.
Certifica, in sintesi, che la fede cristiana non trova più alcuna collocazione centrale o quanto meno rilevante nell’immaginario dell’essere adulto contemporaneo. In fondo, è come se i giovani e le giovani ci mostrassero che la loro fatica di comporre il cristianesimo assimilato in parrocchia con le istruzioni di vita ricevute in famiglia e nel più ampio raggio della società che frequentano (penso qui in particolare all’esperienza scolastica) – la loro incredulità, in una parola – ha a che fare propriamente con la testimonianza ricevuta circa le cose che stanno veramente a cuore ai loro adulti di riferimento e quindi al mondo dell’adulto in quanto tale. Al quale è naturale che essi aspirino a far parte.
Ebbene, in questo cuore adulto, oggi, c’è posto per tutto: dalla squadra di calcio non a caso detta del «cuore» all’auto dei sogni, dalla ricerca di sempre maggiore disponibilità di denaro all’ossessiva ricerca di restare «sempre giovane», dalla possibilità di un esercizio della sessualità e della propria capacità di attrazione erotica senza più alcun limite biologico sino alla smisurata apertura a tutte le novità che l’apparato tecnologico mette a disposizione dei consumatori odierni, dalla volontà di non far mancare nulla ai figli al desiderio di tenerli con sé per sempre. Ecco, in quel cuore, c’è posto per tutto tranne che per l’esperienza religiosa. Dio, Chiesa, vangelo, peccato, salvezza, preghiera personale, morte, giudizio, paradiso, inferno, intercessione non fanno più semplicemente parte del lessico familiare che i giovani frequentano, in quanto non fanno più semplicemente parte di ciò che sta a cuore degli stessi adulti. Ed è così che l’attuale cammino offerto dalle parrocchie ai giovani perde di incidenza, non essendo più a sua disposizione un retroterra di condivisione che ne favorirebbe una piena integrazione. Se Dio, preghiera, vangelo, carità non sono importanti per i padri e per le madri dei giovani, è difficile pensare che essi siano decisivi per questi ultimi in vista della ricerca attorno a cosa orientare la propria futura esistenza adulta.
D’altro canto, se l’esperienza cristiana è sostanzialmente estranea al mondo degli adulti, al quale i giovani naturalmente aspirano ad accedere, per questi ultimi liberarsi di quell’esperienza diventa un’urgenza del tutto comprensibile. Possono in tal modo sancire – con la dismissione della fede cioè – l’uscita da quella fase della vita cui quest’ultima è ormai quasi esclusivamente assegnata: l’età dei bambini.
Questo è, ad avviso di chi scrive, il vero snodo della questione del rapporto giovani e fede. Tale snodo ora conduce – dovrebbe condurre la comunità credente – a porsi più di un interrogativo circa la cura che essa presta esattamente alla fede degli adulti, abbandonando per sempre non solo l’idea di un cittadino occidentale adulto naturalmente cristiano, ma anche l’idea che il cittadino occidentale adulto sia credente sebbene non praticante. Il mancato raggiungimento di una fede «adulta», da parte delle nuove generazioni, trova la sua ragion d’essere allora in un mancato e ancora largamente mancante investimento pastorale per la fede possibile degli adulti sotto le condizioni culturali e sociali odierne. È questo il punto a cui i credenti odierni dovrebbero prestare grande attenzione: solo riuscendo a dare ragione della fede cristiana agli adulti e alle adulte di oggi, sarà possibile farsi carico del sempre più vasto ateismo giovanile. È la fede degli adulti che genera la fede «adulta» dei giovani. Proviamo ad approfondire i punti qui accennati.
La prima generazione incredula avanza
Sono trascorsi molti anni da quando chi scrive ebbe sentore che il rapporto delle nuove leve con la fede cattolica stesse sul punto di una svolta particolarmente significativa. Tali iniziali sensazioni assunsero poi la forma di una lampante evidenza: quella dei giovani – ovvero la generazione nata dopo il 1980, i cosiddetti millennials – era «la prima generazione incredula»; venne così alla luce, nel 2010, il libro omonimo.
Il punto critico di rottura nei confronti del cattolicesimo delle precedenti generazioni era rappresentato proprio dal fatto che la disaffezione alle pratiche di fede si presentava come distintivo di un’intera generazione e non più di singoli o di una parte minoritaria di essa. Inoltre, c’era ancora da prendere atto che, dietro quel progressivo allontanarsi dalla regolare frequentazione della messa domenicale, lo scemarsi dell’interesse per una formazione religiosa che andasse oltre il necessario per ottenere il permesso per celebrare la cresima e l’abbandono della pratica di lettura della Bibbia e della preghiera personale, emergeva il vero nodo dell’intero ateismo giovanile.
Si trattava della fatica della generazione nata dopo il 1980 a considerare come rilevante per il personale cammino di accesso all’età adulta quanto – a proposito di vangelo e di Chiesa – fosse stato appreso durante gli anni di frequentazione delle parrocchie, degli oratori, delle ore di religione a scuola e delle tante associazioni e movimenti che compongono il mondo cattolico. Insomma, era in gioco la fatica di un’intera generazione a trovare risposta convincente alla domanda: cosa significa essere cristiani quando non si è più bambini? Ed era per questa ragione – si argomentava – che i giovani avevano iniziato a non manifestare più alcun interesse per le cose che la Chiesa compie e dice, quando parla di fede, e che non avevano più alcuna remora a chiamarsi fuori dalla tribù cattolica.
Come accennato, sono ormai passati più di dieci anni da quando tutto questo ha cominciato a prendere forma nella testa di chi scrive. Nel frattempo, ciò che è mutato non è il paesaggio della religiosità giovanile, quanto piuttosto la conferma empirica che quel paesaggio è davvero mutato. Numerose, infatti, sono state negli ultimi anni le indagini sociologiche a livello nazionale e internazionale che offrono un sostegno a ciò che l’espressione «prima generazione incredula» intendeva e ancora oggi intende porre all’attenzione della gente di Chiesa. Non sapendo come comporre ciò che si è appresso circa il cristianesimo durante l’infanzia e l’adolescenza con la propria urgenza di crescita adulta, i giovani stanno imparando a vivere senza il Dio presentato dal vangelo e senza l’esperienza di Chiesa che ne discende.
Piccole atee crescono
Ma non c’è solo questo aspetto generale della recente disaffezione del mondo giovanile alla fede cattolica. Vale la pena considerarne almeno altri due. Il primo – davvero sorprendente, rispetto agli immaginari tradizionali del paesaggio cattolico di ogni latitudine del nostro pianeta – è quello rappresentato dall’avanzata dell’ateismo giovanile femminile. Si potrebbe davvero affermare che la specificità della prima generazione incredula è data proprio dal fatto che piccole atee crescono.
Le ragazze e le giovani nate dopo il 1980, in termini generali, non mostrano quasi più alcuna sostanziale differenza in ordine al loro rapporto con l’universo della Chiesa cattolica rispetto ai loro coetanei di sesso maschile. A parte una qualche propensione in più per la preghiera personale, tutti gli altri parametri che sociologicamente vengono utilizzati per sondare un’esperienza di fede trovano l’intera generazione dei millennials assestata verso una decisa disaffezione rispetto alle generazioni precedenti. Ciò si impone in modo del tutto particolare proprio lungo l’asse rappresentato dalle ragazze e dalle giovani. Si deve anzi aggiungere che è proprio una tale differenza «intragenere» a marcare l’attuale paesaggio cattolico. Per questo le nuove generazioni di donne vanno in Chiesa, affermano di credere e di pregare, si riconoscono nei valori del cattolicesimo più o meno nella stessa misura dei loro coetanei maschi.
Chiunque abbia anche la minima confidenza con gli ambienti ecclesiali sa bene quanto in essi sia pregnante e massiccia la presenza di donne che partecipano ai riti, che pregano, che si impegnano nel catechismo e nelle diverse attività di volontariato, senza dimenticare l’infaticabile e preziosissima opera svolta dalle suore. Proprio queste ultime sono ora la parte di Chiesa che sta pagando il prezzo più alto dell’avvento della prima generazione incredula, essendo sempre di meno e sempre più anziane.
La disponibilità delle giovani donne a intraprendere la strada di una vita consacrata è, detto fuori dai denti, ai minimi storici. Non solo. Quasi tutte le parrocchie cattoliche oggi faticano non poco a trovare giovani donne disposte a impegnarsi nel catechismo, nelle attività di volontariato, nei diversi servizi che il mantenimento di una parrocchia o di un oratorio comportano. Anche in questo caso la longevità delle attuali catechiste e delle signore «impegnate», come si suole dire nella lingua dei preti, permette di non cogliere in tutta la serietà la questione che l’allontanamento delle giovani comporta sul livello così elementare, ma non per questo meno decisivo, della disponibilità a farsi carico – e gratuitamente – delle attività della Chiesa, non legate al ministero del prete.
Il dato è dunque particolarmente significativo e in una certa misura può essere registrato anche nelle realtà ecclesiali di più recente fondazione. Pensiamo qui all’Africa, all’America Latina e all’India. Se è certamente vero che in questi luoghi la presenza maggiore nella Chiesa è assicurata proprio dalla componente femminile della popolazione, è altrettanto vero che, non appena queste donne inizino un percorso lavorativo, diminuisce radicalmente la loro disponibilità – e forse anche l’interesse – per la partecipazione alla vita della comunità. Non bisogna poi dimenticare che è proprio l’ambito lavorativo quello che vede, nei contesti di antica presenza cattolica, la popolazione femminile giovane più preparata e disponibile al cambiamento e all’innovazione rispetto a quella maschile.
Il fatto che siano soprattutto le giovani donne ad aver impresso un carattere generazionale all’odierno ateismo giovanile riporta la nostra riflessione alla questione generale già indicata circa l’ateismo giovanile. E la questione è presto nominata: in quale misura e sotto quali condizioni è compatibile la fede nel Dio di Gesù con le nuove costellazioni dell’umano che governano la vita quotidiana contemporanea e che trovano proprio nell’attuale condizione della donna il loro più chiaro riscontro?
Lo smartphone val bene una messa
Il secondo dato che contraddistingue l’odierna relazione delle nuove generazioni con la fede prende forma dal rilievo per il quale, più recenti sono le indagini che a ogni livello nazionale e internazionale verificano il rapporto delle nuove generazioni con l’esperienza della fede, più aumenta la quota di giovani che si dichiarano del tutto fuori dal mondo della religione senza «se» e senza «ma». Attraversando le indagini effettuate sulla religiosità giovanile negli ultimi dieci anni in linea diacronica, si può agevolmente vedere come quella che possiamo definire la quota di giovani che con convinzione affermano di non avere alcun interesse per la religione non solo sia in costante crescita, ma che questa crescita abbia carattere esponenziale.
Una possibile interpretazione di questo dato è quella per la quale la fetta «più giovane» dei giovani – quella che qualcuno ha già ribattezzato generazione z o generazione della rete, riferendosi ai nati dopo il 1995 – acceleri tutti i segnali di disaffezione alla fede già ben presenti e marcati nell’attuale quota dei millennials avviati ora all’ingresso nell’età adulta, in breve nei giovani «meno giovani». Insomma, soprattutto gli attuali adolescenti e ovviamente le attuali adolescenti esprimono ancora meno interesse per la religione di coloro che li hanno appena preceduti!
Questa rilevazione in progress conferma che la fede sta diventando sempre più qualcosa dei bambini e delle bambine. Più radicalmente, diventa un affare «da bambini», legato cioè proprio a quel modo di immaginare e vivere infantilmente il mondo che poi entra in crisi con l’ingresso dei piccoli nella fase adolescenziale. Lentamente, ma profondamente, la fede subisce così una profonda riscrittura.
In un tale mondo «bambino» si crede a Gesù e alla «Madonnina» allo stesso modo in cui si presta fiducia alla presenza e attività sommamente importanti di Babbo Natale e della Befana; in un tale mondo si prega con la stessa disponibilità con cui si gioca, e si partecipa alla messa allo stesso modo in cui si vede la televisione insieme con i nonni o la babysitter di turno. Lo stesso catechismo, fatto di disegni, musiche, balli e giochi non si discosta più di tanto dalle mille attività che caratterizzano l’attuale scuola di base.
Ma c’è di più, in verità. Si aggiunga infatti che l’età media dei catechisti spesso ricorda più quella della nonna o del nonno che quella della mamma o almeno quella del papà; si aggiunga che oggi l’unica maniera riconosciuta universalmente valida dalle famiglie per richiedere e ottenere dai piccoli un qualsiasi impegno è quella che passa attraverso la promessa di una lauta ricompensa; si aggiunga ancora la naturale proiezione in avanti che caratterizza l’essere umano almeno in questo stadio della sua esistenza, e si avrà che, più cresce nel bimbo il desiderio di diventare grande, maggiore sarà la consapevolezza in lui di dover abbandonare tutto ciò che richiama il mondo dei piccoli.
Ed ecco infine il punto di condensazione del ragionamento: poiché la prima forma di «adultità» è oggi rappresentata dal possesso personale di un cellulare, quest’ultimo viene quasi sempre promesso come regalo per la messa di prima comunione. E allora, per quanto noioso possa a un certo punto diventare il catechismo, per quanto l’aria che si respira anche di domenica durante la celebrazione della messa quasi per nulla richiami ciò che potrebbe essere un giorno festivo, per quanto costi un po’ alzarsi la mattina di domenica per andare in parrocchia, tutto ciò non pesa quasi nulla se paragonato alla conquista di quel pezzo di mondo adulto che lo smartphone promesso per la messa di prima comunione rappresenta. Ed è così che il mondo della fede si configura come del tutto facente parte di ciò che i bambini fanno quando sono bambini e finché sono bambini.
Certo, il tono di queste ultime righe è volutamente ed esageratamente tragicomico; eppure la questione che intende rilevare è particolarmente decisiva: la fede è una faccenda ritenuta valida solamente per i bambini e finché si è bambini; la fede non abita più gli spazi del mondo adulto e per questo coloro che si avventurano già ora nel terreno dell’adolescenza (alla lettera «tempo per diventare adulti») esprimono un crescente disinteresse per la religione, per le questioni che essa mette in campo e per la sua proposta di vita.
La domanda che sorge immediata è quella relativa alle cause di un così radicale mutamento che gli adolescenti e i giovani annunciano sul terreno dell’esperienza religiosa. Insomma, come è accaduto che la fede sia diventata una cosa specifica solo per bambini e finché si è bambini, con l’eccezione forse di quell’altra fascia d’età – quella dei nonni e delle nonne – nella quale in certa misura si sperimenta pure una qualche forma di rimbambimento?
Eclissi del cristianesimo domestico
La risposta alle domande sin qui poste è netta: la cinghia di trasmissione della fede si è rotta. Sì, la cinghia della trasmissione generazionale della fede si è progressivamente sfilacciata e quindi definitivamente spezzata. Piaccia o meno, gli adulti appartenenti alle due generazioni che in modo e peso diverso dominano oggi il mondo – quelli della generazione dei boomers (1946-1964) e quelli appartenenti alla generazione x (1964-1970) – non hanno favorito una qualche forma di testimonianza circa l’importanza di credere, pregare, leggere qualche testo sacro, il Vangelo per esempio, nei confronti della loro prole. E questo non perché vi sia stato qualcosa come una decisione collettiva del ceto adulto contro il mondo della religione; negli adulti stessi, piuttosto, è la stessa la fede – l’esperienza concreta dell’aver fede – che è scivolata lentamente via, marginalizzata, rimossa, cancellata.
Le indagini parlano chiaro. Nelle famiglie, e in ciò che spesso sopravvive o si reinventa delle famiglie, non vi è più spazio per la preghiera, per la lettura della Bibbia e infine per discussioni che possano in qualche modo pur lontanamente sfiorare le grandi domande dell’esistenza umana, dal significato delle diverse età della vita alla ricerca di ciò che potrebbe permettere la coltivazione efficace della propria interiorità, dal senso dell’ineluttabile necessità di dover morire a quello della radicale precarietà della nostra specie.
Sono anni ormai che i ragazzi e i giovani che vengono al mondo non vedono più negli occhi di mamma e di papà alcuna traccia della presenza di Dio, non ne vedono più i capi raccolti in un momento di devota concentrazione, non ne vedono più le mani sfogliare le pagine della Bibbia, non ne vedono più i piedi indirizzarsi verso la chiesa, alla domenica, a Natale o a Pasqua almeno, non ne sentono più le labbra innalzare grida di dolore o inni di riconoscenza verso un Padre che dai cieli provvederebbe ai figli in terra, e infine non ne sentono più quelle stesse labbra invocare una qualche divina benedizione in occasione di ricorrenze, genetliaci, anniversari. È proprio quella degli adulti, in verità, una vita che ha definitivamente imparato a vivere senza Dio e senza Chiesa, con l’effetto di codice che è la vita adulta in se stessa a essere sempre più immaginata e definita a partire da queste due assenze.
Certo, la fede è e rimane per tutti, giovani compresi, una decisione personale, ma è e rimane una decisione che respira e si ispira all’aria nella quale si vive. Gli umani non imparano la vita da soli, non godono di un apparato istintuale completo, non sono automaticamente abilitati al mestiere di vivere. Gli umani imparano guardando e guardando imparano: così nasce la possibilità per ogni cucciolo d’uomo di dare un valore alle cose del mondo e al mondo delle cose nella sua interezza. E se è vero che gli occhi di mamma e di papà, le mani e i piedi di mamma e di papà, le parole e i «ritornelli» di mamma e di papà sono la prima mappa valoriale del mondo, nella stessa misura quegli occhi, quelle mani, quei piedi, quelle parole, quei «ritornelli» sono la prima mappa teologica dell’universo. Sono, in una parola, la prima e fondativa cattedra di ciò che ciascuno, crescendo, deciderà di assumere come metro di misura della propria appartenenza alla specie umana.
L’ateismo giovanile odierno si nutre sostanzialmente della morte del cristianesimo domestico e familiare, dell’eclissi di Dio negli occhi paterni e materni, del venire meno della loro devozione intima, del loro ritiro dalla partecipazione alla vita ecclesiale, di quelle scialbe discussioni – che popolano le serate e i giorni di festa delle piccole tribù familiari – intorno a ciò che veramente conta in un’esistenza umana degna di essere vissuta.
Inutile girarci intorno: tra le cose che veramente contano nell’esistenza degli adulti, non c’è spazio per Dio, per la Chiesa, per il vangelo, per la preghiera, per la devozione. Ciò che davvero conta per loro è ormai quasi solo la propria posizione socioeconomica, la propria rincorsa a essere sempre in forma a dispetto della carta di identità e infine la propria tifoseria sportiva. Chi non vede, infatti, che in molte famiglie sia proprio l’orario in cui gioca la propria squadra o quello in cui si disputa una gara di questo o di quel torneo automobilistico o motociclistico a dettare l’agenda del fu «giorno del Signore»?
La cinghia di trasmissione della fede si è spezzata così senza drammi e senza quasi più alcun rimpianto. Nella misura in cui Dio è gradualmente scomparso dall’orizzonte della coscienza degli adulti, nati tra la metà degli anni quaranta e la fine degli anni settanta del secolo scorso, nella stessa misura emerge una figura di adulto sempre più contraddistinto da un orizzonte di vita in cui Dio non ha più semplicemente posto. Ed è la figura dell’adulto a cui giocoforza i giovani nel loro essere in crescita fanno riferimento. Insomma, per i nostri giovani è praticamente impossibile discernere cosa significhi credere quando non sono più bambini, proprio perché i termini «adulto» e «credente», «adulto» e «cristiano», nelle famiglie non si incontrano e incrociano più. I giovani non sanno semplicemente più cosa sia una fede «adulta»!
Conclusione
Ed è per questa ragione che, non appena quegli stessi giovani pongono i primi passi fuori dall’adolescenza e dalla prima giovinezza – insomma intorno all’età in cui si frequentano le scuole secondarie –, basta loro un nonnulla per abbandonare la pratica (infantile) della fede: una lezione di filosofia kantiana o postkantiana, una discussione intorno all’evoluzione, durante un’ora di biologia, un evento luttuoso, una delusione d’amore, l’ascolto di qualche divulgatore scientifico e così via… Esperienze come queste non possono non confermare in loro quanto sino a quel momento avevano già maturato dentro, e cioè che la fede non è una cosa da adulti. Che la fede non serve, quando diventi grande. Che non c’è alcuna fede «adulta».
Queste considerazioni ci riportano di nuovo al tema decisivo della nostra riflessione: è tempo di farsi carico della fede degli adulti, provando a riscrivere una grammatica della fede in grado di suscitare proprio negli adulti un rinnovato desiderio di Dio e di Chiesa. È sempre a loro che i giovani guarderanno per capire se la fede fa parte o meno dell’abitazione umana del mondo! Per sapere come quale forma abbia una fede «adulta».
Da semplice persona impegnata nel catechismo parrocchiale mi pongo una domada. Se la tesi esposta , sicuramente molto autorevole, fosse vera almeno nell’individuare la principale causa dell’abbandono della fede da parte della nuova generazioni qual è il compito dell’iniziazione cristiana nelle nostre comunità ? Rimandare ad una conversione ed un’adesione di cammino del nucleo famigliare dei bambini ? Nelle nostre comunità, spesso vengono rilanciati modelli che vedono, o a mio avviso demandano, l’educazione alla fede dei bambini alla famiglia. Ovviamente in linea teorica concordo ma nella pratica, questo clima , questa tensione interiore in famiglia non avviene. In questa condizione , rimandare alla famiglia il compito di iniziazione cristiana rischia di creare condizioni settarie , rendendolo possibile solo per le famigli cristiane doc che sono proprio quelle che non hanno bisogno del cammino di catechismo. Nello stesso tempo si preclude l’opportunità a dei bambini, che non hanno una famiglia che vive una forte dimensione religiosa, di fare un percorso spirituale. Introduco la parola spirituale perchè credo che in queste condizioni è necessario spostare il centro del cammino di iniziazione cristiana da una dimensione di trasmissione di contenuti ad una dimensione di iniziazione alla conoscenza e famigliarità con la propria dimensione spirituale. In questo senso il catechismo è pienamente dentro la tradizione religiosa cristiana ma si concentra nel fornire e accompagnare l’esperienza spirituale intima che possa aprire ad un cammino cristiano. E’ la scuola di spirtualità al pari di altre realtà educative come lo sport, l’educazione scolastica.
Se il processo di scristianizzazione è il frutto di un adeguamento della gran parte dei battezzati alla “cultura” corrente, dominata da una visione del mondo e dell’uomo di stampo individualistico e tecnico-scientifico, ogni pastorale che non si distingua anche “culturalmente” con chiarezza da tale visione, è destinata all’inefficacia. La sola adozione di uno “stile” evangelico, imperniato sull’ascolto e l’accoglienza, non risolve il problema.
La questione della cinghia di trasmissione tra la generazione degli adulti e dei giovani è particolarmente dolorosa perché non riguarda solo adulti sostanzialmente “atei”, ma anche adulti realmente credenti. Cosa è mancato? Secondo me è mancata l’esperienza pratica della fede, che fa dire che la religione “c’entra con la vita”. Si dice che Gesù era un rabbi “itinerante”. Cosa vuol dire se non che le cose vengono comprese dopo averne fatto esperienza? Sono le esperienze quotidiane della vita che permettono di ritenere che là religioni “c’entri”.
Ecco, forse quello che è venuto a mancare è questo decisivo intreccio tra fede e vita vissuta.
È difficile non essere d’accordo con la prospettiva che viene qui tratteggiata – e di certo non solo a motivo dell’affetto e della stima nei confronti di chi scrive. Eppure non posso non provare a evocare ciò che mi sembra stia al cuore della “eclissi del Cristianesimo domestico” sopra descritta. Lo faccio riportando una scena che personalmente credo descriva la realtà più di mille parole. 24 maggio 2020, Solennità dell’Ascensione: il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana può celebrare la prima Liturgia Eucaristica pubblica al termine del primo lockdown. Durante l’omelia (stralci del testo sono tranquillamente reperibili online), visibilmente commosso, si spinge ad affermare: “non c’è dubbio: il Signore è tornato in mezzo a noi”. La domanda sorge spontanea: e dove era stato fino a quel momento?
La risposta può solo essere: era sempre con noi, ma non lo abbiamo ascoltato, visto, toccato. La pandemia ha rivelato un enorme problema a cui non abbiamo mai dato abbastanza peso: per moltissimi cattolici la Messa domenicale è l’unico momento di preghiera durante la settimana, e vi è una scarsa propensione alla preghiera personale o a forme di celebrazione alternative all’Eucarestia, tanto più se guidate da laici. questo ha provocato una grossa crisi, in tante persone, che si sono viste “portare via il sacro” quando le Messe sono state sospese.
La questione dell’ateismo giovanile (o, per meglio dire, della non-credenza) ha molte sfaccettature, e non credo che si possa attribuire tutto alla mancanza della “cinghia di trasmissione” familiare, sia perché molto spesso non credono anche i figli provenienti da famiglie in cui la scelta di fede era vissuta e praticata, sia perché non si tiene conto che, alla fine, la scelta la fa il giovane, nella sua coscienza e libertà. Forse in modo non completamente consapevole ci affidiamo ancora ad una vecchia teoria psicologico-ecclesiastica comportamentista: insegniamo ai bambini a “praticare” bene la fede ed alla fine ne usciranno fuori adulti credenti. Non funziona così, soprattutto in una società aperta (le cose sono forse differenti in società chiuse, ma i cattolici non sono gli Amish…). Non ci sono ricette semplici e non c’è modo di avere tutto sotto controllo, ma qualcosa potremmo fare, almeno nell’adeguamento della catechesi alle forme e ai linguaggi della nostra società. Continuiamo però una catechesi, soprattutto per la preparazione ai sacramenti, che sembra più fatta per rassicurare il prete e/o il catechista che per far crescere i catecumeni; come Chiesa abbiamo seminato la paura di non avere una fede “giusta”, e giustamente abbiamo raccolto vescovi, preti e fedeli fragili, la cui principale preoccupazione è cercare ossessive conferme del proprio ruolo, della propria fede e delle proprie categorie morali. Ovviamente, così facendo non si fa catechesi, ma inutile supporto psicologico per operatori pastorali (inutile perché la personalità ossessiva deve trovare sempre nuove conferme). Ci muoviamo dominati dalla paura (del nuovo, di perdere la fede, di non veder riconosciuta la propria funzione, di non apparire ortodossi, di non aver sempre detto le cose giuste), illudendoci che la salvezza stia nel ripetere senza errori ciò che abbiamo letto nel Catechismo. Siamo irrimediabilmente parenti stretti dei servo malvagio che, per paura del padrone, sotterra quanto gli è stato dato senza farlo fruttare; purtroppo, le conseguenze per noi non saranno diverse da quelle subite da tale servo.
Quello che deve interrogarci è la “distanza” tra la fede e la vita (la gente si allontana, semplicemente, perché è diventato “inutile” essere cristiani “così” …); lo sbilanciamento sull’ “io”, nella vita dei cosiddetti credenti, è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo benedetto troppo le famiglie “del mulino bianco” e i pubblici difensori dei “principi cristiani”, che non sono mai esistiti, i fedeli “obbedienti” e i praticanti “docili” … prima di capire che siamo rimasti senza “tempio” e senza “re”. E’ il trauma vissuto da Israele con l’esodo a Babilonia, non con il primo esodo! Come è stato possibile ritrovarci in “schiavitù”, ovvero “preda degli idoli” e quindi senza “tempio” e senza “re”? La strada praticabile è invece la “conversione”, il rimettersi in cammino. Il problema non sono le cose che “non facciamo più”, il “tempio” che non c’è più, il “re” che non vale più niente perché non rappresenta più nessuno; se l’ “io” è diventato il criterio di tutto, così che gli “altri” non contano niente e sono semplici “accessori funzionali” (nella Chiesa come nella società) diventa impossibile parlare di fraternità, di comunione e tantomeno di un Dio che è “relazione”. E ricostruire relazioni e dialogo in un tempo di guerra, riconoscendosi “in esilio” (probabilmente a nostra insaputa), è la sfida e l’opportunità di oggi e di domani e ci riguarda tutti.
Sosteno da tempo che tale situazione, perlomeno in Italia, è frutto di scelte pastorali profondamente sbagliate (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/11/cattolicesimo-borghese5.html), che vengono ancora portate avanti senza – ormai – autocritica. Tuttavia la mia esperienza di docente – da 7 anni a questa parte – mi insegna che dietro ad un adolescente ci sia sempre un adulto. Pertanto l’ateismo non è solo giovanile, ma è anche degli adulti. Se non è un ateismo di convinzione (“io sono ateo, io non credo”), lo è nella pratica (perché non si prega, perché non si testimonia in nessun luogo che è bello essere cristiani: la fede è un fatto privato). Anche se più di ateismo io parlerei di indifferenza. I miei studenti non sono atei, sono indifferenti: per loro credere è come non credere, è la stessa identica cosa anche perché la vita – con questo concordo con Matteo – non cambia. Siamo di fronte ad una generazione indifferente anche a motivo dell’evaporazione della figura paterna e materna (Recalcati docet).