In questi giorni cammino spesso solo nella mia chiesa vuota, guardo le panche, e penso alle persone e sento che mi manca la mia gente, mi manca il contatto con il popolo di Dio. Oppure mi trovo nel mio studio, preparo una predica o una catechesi, ma poi so che non potrò vedere i volti e i corpi di chi ascolta. Mi sto abituando a parlare davanti a una telecamera, ma mi sento come un brontosauro gettato nel 21° secolo. Io ho bisogni dei volti, dei corpi, della presenza, del contatto!
Questo sembrerebbe rendere impossibile il mio ministero. O forse no. Questi giorni mi hanno costretto a ripensare molte cose del mio essere prete. Mi sembra che questo tempo ci stia insegnando qualcosa circa la costruzione della fraternità che pure sembra dispersa e per questo in pericolo. La parrocchia in questi giorni sembra rarefatta, invisibile e distante, priva di quella prossimità senza la quale non si sente, non si vede, non si vive. Come costruire una fraternità tra distanza e prossimità?
Vicini e lontani
Partiamo da un’evidenza della vita quotidiana. Si può essere vicini fisicamente e insieme essere molto distanti, può accadere invece che, anche se si è lontani, si percepisca di essere molto vicini. Questo concretamente lo sperimentiamo anche nei confronti della comunità, di una parrocchia; si può essere sempre presenti, fisicamente, ma essere molto distanti gli uni dagli altri: nel modo di vedere, di pensare, di credere. Si può essere molto distanti, partecipare alla comunità solo in alcuni momenti, e sentirsi molto in comunione, molto vicini, molto prossimi.
Lo stanno imparando anche le nostre famiglie che vivono costrette in una vicinanza non certo facile. Si può abitare sotto lo stesso tetto ed essere estranei gli uni gli altri. Qualcuno invece proprio nella distanza fisica ha ritrovato legami e amicizie che sembravano lontane.
In questo tempo strano ho imparato che la distanza può essere una forma della relazione e che la prossimità non va da sé, è qualcosa che ogni volta va costruita, voluta e attentamente curata. Ci vuole una certa delicatezza, una sensibilità. Per vivere prossimità e distanza occorre avere “un’anima sensibile”, o meglio “un’anima spirituale”, una vita spirituale. Per spirituale intendo qualcosa che ha a che vedere intimamente con i corpi! «Esiste anche un’anima spirituale, un vertice dell’anima (così lo definiva Divo Barsotti) grazie alla quale l’anima attinge forza dall’alto e, vivendo nella libertà vivificante, innerva e vivifica l’intero corpo».
La prossimità
Ma cominciamo dalla prossimità, che è quella che oggi sembra mancare alle nostre comunità. Ci manca perché siamo corpi viventi che vivono di relazione. Tutto comincia così. La vita che nasce, un bambino che viene alla luce, s’incontra con il mondo prima ancora che con i sensi dell’udito o della vista, con il tatto. Prende con-tatto sensoriale con il mondo per una prossimità fatta di un corpo a corpo, di mani che lo prendono, lo accarezzano, labbra che lo baciano.
Anche per questo sentiamo come una ferita dolorosa che poi accada che una vita finisca senza il contatto di una mano che lo accompagna, di una presenza amica che gli sia vicino, di un corpo a corpo che renda anche la morte una nascita. Cerchiamo da sempre un contatto a “distanza zero”, desiderio tanto iscritto nei nostri cuori quanto ambiguo e pericoloso.
L’inizio della vita e l’inizio di ogni relazione chiedono una prossimità fatta di corpi. E, d’altra parte, sappiamo come questa prossimità al corpo può essere anche pericolosa, invasiva e abusante soprattutto in un corpo fragile, in un corpo piccolo come un bambino. Questo corpo andrà toccato, accarezzato, ma insieme dovrà vivere anche la giusta distanza per poter percepire sé come diverso dall’altro, per non vivere relazioni invischianti e non liberanti. Esiste quindi una vicinanza che è pericolosa, che è invasiva.
Non solo quella fisica, ma vorrei dire ancor più quella spirituale: ci sono forme di intrusione nella vita spirituale, invadenti nel cammino di fede, che creano dipendenza, magari nel nome del Vangelo! Diventano delle dipendenze come quando accade che si debba vivere la fede solo in relazione a quella persona, a quel prete, a quella comunità… Anche nelle nostre parrocchie si possono vivere relazioni invadenti, che non educano alla libertà.
La giusta distanza
La prossimità quindi va educata: e per questo serve la giusta distanza. Nelle relazioni fraterne occorre lasciar spazio all’altro, non invaderlo, non opprimerlo. Questo chiede una certa misura nella propria vicinanza, chiede di essere discreti nell’essere vicini.
In questi giorni mi sono spesso chiesto se dovessi fare di più, telefonare più spesso a questo o quella parrocchiana, se dovessi farmi vicino con maggiore intensità con messaggi, video, interventi scritti. Ma poi ho sempre pensato che ci deve essere una certa misura, una buona discrezione.
Mi sembra che una certa agitazione pastorale sia l’esito dell’incapacità di reggere la distanza anche quando è necessaria. Come quei genitori che con i loro figli diventano opprimenti, incalzanti, forse perché temono di vederli crescere da soli.
Devo imparare anch’io a fidarmi dei miei parrocchiani e dello Spirito che sa far crescere la fede di ciascuno anche quando io non ci sono, anche quando non posso fare o dire nulla. Questi giorni ci stanno insegnando che anche la distanza può essere un valore.
Tutto questo chiede di rileggere prossimità e distanza non semplicemente nella loro declinazione materiale. Il corpo, per essere vero, deve essere spirituale, ovvero vivere le relazioni in modo simbolico, significativo nella misura in cui dice altro, rimanda ad una profondità, ad una interiorità, rimanda allo spirito che lo vivifica. Quello che ci serve è la giusta vicinanza “nello spirito”e la giusta distanza “nello spirito”.
Certo, lo spirito non si dà senza i corpi, e occorre far rinascere i corpi dall’alto, dare loro la vita dello spirito. Da quando si è incarnato, neanche Dio fa a meno del corpo per starci vicino, pur mantenendo l’alterità di una giusta distanza.
La fraternità, l’eucaristia e la preghiera
Provo a declinare tutto questo in due dimensioni con cui si costruisce la fraternità di una parrocchia: l’eucaristia e la preghiera.
È sicuramente vero che una relazione fraterna ha bisogno dei corpi, della prossimità, ma la natura di questa vicinanza non è generica. Voglio bene ai miei fratelli se li vedo, se parlo con loro, se faccio qualcosa per loro e con loro, se li accolgo, se gli stringo la mano e li abbraccio, se piango insieme per un dolore… e tutto questo lo possiamo attraverso i nostri corpi.
Ora ci sembra impossibile vivere la fraternità, perché i corpi sono lontani. Ma se, animati dallo spirito, abbiamo reso la nostra “anima sensibile” e capace di “relazioni spirituali”, queste sanno reggere anche la distanza: sperimentiamo che possiamo essere vicino, possiamo piangere il dolore e condividerlo, possiamo gioire della vita ed essere in comunione, anche se non siamo prossimi materialmente uno all’altro. È la forza della comunione spirituale, della comunità dei santi: noi siamo uniti anche a coloro che non sono più presso di noi, perché abbiamo imparato a costruire legami spirituali che vincono ogni distanza.
Lo impariamo anzitutto nella nostra relazione con Dio. Anche nei suoi confronti occorre una prossimità, un contatto, un “tocco di grazia”. Come i primi discepoli di cui narra Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo: vanno e stanno con Gesù, e quell’incontro lascia una traccia indelebile al punto che ne ricordano l’ora, le quattro del pomeriggio!
E, con il tempo, cresce quella che papa Francesco ha chiamato la “familiarità” con Gesù, fino a poterlo riconoscere come il Risorto. «Anche noi cristiani, nel nostro cammino di vita siamo in questo stato di camminare, di progredire nella familiarità con il Signore. Il Signore, potrei dire, è un po’ “alla mano”, ma “alla mano” perché cammina con noi, conosciamo che è Lui. Nessuno gli domandò, qui, “chi sei?”: sapevano che era il Signore. Una familiarità quotidiana con il Signore, è quella del cristiano. E sicuramente, hanno fatto la colazione insieme, con il pesce e il pane, sicuramente hanno parlato di tante cose con naturalezza.
Questa familiarità con il Signore, dei cristiani, è sempre comunitaria. Sì, è intima, è personale ma in comunità. Una familiarità senza comunità, una familiarità senza il Pane, una familiarità senza la Chiesa, senza il popolo, senza i sacramenti è pericolosa. Può diventare una familiarità – diciamo – gnostica, una familiarità per me soltanto, staccata dal popolo di Dio. La familiarità degli apostoli con il Signore sempre era comunitaria, sempre era a tavola, segno della comunità. Sempre era con il Sacramento, con il Pane».
Proprio per questo oggi ci manca l’eucaristia, perché è a tavola (con i fratelli e con Lui) che noi siamo in contatto con il Signore e lui ci costituisce come fraternità nello spirito. I sacramenti sono sempre “sacramenti del contatto”. Ma proprio per questo chiedono anche di imparare la giusta distanza!
Mi hanno colpito le parole di un vescovo gesuita, Daniele Libanori, che ha richiamato al senso del digiuno eucaristico contro il rischio di enfatizzare e materializzare la consumazione della prossimità sacramentale come saturazione di un bisogno infantile di contatto con il Signore.
D’altra parte, il Risorto stesso invita insieme a “toccare” e a “non trattenere”, chiede a Tommaso di “mettere il dito nella piaga” e a Maddalena di “non trattenere”: il contatto con il Signore non è pensabile se non nella distanza che non lo possiede e nel contatto con i fratelli a cui rimanda.
Sempre papa Francesco in quell’omelia del 20 aprile, parlando di Nicodemo e del suo incontro con Gesù, ha richiamato la necessità di rinascere nello Spirito, e della preghiera, che è proprio questo esercizio per imparare a costruire legami – con Dio e con i fratelli – rigenerati nello spirito. Ogni volta che preghiamo scopriamo che si creano vicinanze e legami spirituali con il Signore e con i fratelli che sono più forti di ogni distanza; si creano, come si esprime Kurt Appel, connessioni nello spirito: «La preghiera consente di sottrarre le cose alle loro connessioni meramente fisiche. […]. In tal modo si creano e sentono sempre nuove connessioni di significato: la mera cosa diventa creatura; diventa, come ben sapeva san Francesco d’Assisi, fratello e sorella.
Non è più un semplice oggetto della nostra percezione, ma soggetto che ci dona un nuovo significato nella comprensione di noi stessi mentre, nello stesso tempo, riceve da noi un nuovo significato. Allora la connessione fra le creature non è più soltanto di carattere fisico, ma diviene una connessione di senso, del donare reciproco. Nella preghiera colui che prega entra in questa connessione di senso [… e attinge] all’infinitudine della connessione di significato in Dio».
La preghiera apre “connessioni”, crea un “contatto spirituale” e in essa scopriamo che possiamo essere vicini anche nella distanza, come possiamo cogliere la prossimità del Signore anche nella sua irraggiungibile distanza.
Maria sembra ci dica di tornare al cuore nella luce serena
Sempre la sera quando scende la tua pace domando che sia del mondo che non spera.
Potenti affannati a dominare gente che cerca solo una vita più serena.
Oh Signore, tu sai perché permetti
queste cose, questi dolori, queste ferite astruse. Quando le cose semplici e buone? Quando la fede coltivata a scuola e pur lo scambio col pensar diverso? Lasciateci campare, siamo stanchi.
Viene la sera, ogni voce si fa eco distesa,
si quieta il campo di girasoli, il faggio riposa. Fuma il comignolo del casolare, nella tenue rossastra luce diffusa. E l’allodola dal nido ai margini del bosco
canta che questa vostra vita non è vera.