Questo periodo difficile di quarantena finirà. Non sappiamo bene quando, ma sicuramente finirà. L’attenzione così forte ai contagi gradualmente diminuirà, come è giusto che sia, e – speriamo – si tornerà alla normalità. Ci saranno, certamente, conseguenze economiche, politiche e lavorative, vere e proprie sfide per la società nella quale viviamo.
Penso anche che ci sarà parecchio lavoro da fare per tutti quelli che hanno un compito di accompagnamento delle persone, in ordine all’elaborazione del lutto, al periodo di convivenza forzata, alla solitudine vissuta, alla gestione dell’ansia… Certamente saranno in prima linea gli psicologi e i counselor, ma anche i pastori e tutte le persone che, all’interno della comunità ecclesiale, svolgono questo servizio.
Cosa diremo? Come risponderemo alla ricerca di senso delle persone che ci chiederanno un aiuto? In che modo accompagneremo chi ci chiederà una presenza vicino a sé? Penso che queste siano domande delicate e importanti, che dobbiamo porci con serietà, perché su di esse si giocherà una buona parte della credibilità della Chiesa.
In questo periodo leggo di più…
Nell’ultimo numero di Psychology Today, pubblicato subito prima della buriana legata al coronavirus, l’articolo di apertura, dello psichiatra Ralph Lewis, si intitola Coming to terms with coincidence, cioè «Scendere a patti con le coincidenze».
Il presupposto di base da cui prende le mosse è che l’essere umano è un «sense seeker» e uno «story teller», cioè un «narratore in ricerca di senso»: in maniera istintiva e inconscia ogni persona cerca di dare un senso a ciò che gli capita, un significato che possa avere una narrazione lineare, con un inizio e una fine e una certa armonia interna.
Tuttavia – sostiene l’autore – la scienza non va in questa direzione: per essa, infatti, la stragrande maggioranza degli eventi che ci capita è «random», cioè «casuale». Vi sono, certo, le leggi fisiche e scientifiche, ma esse descrivono il fenomeno, non ne focalizzano il senso, il quale resta oscuro e, in sostanza, inesistente. La ricerca del significato dietro a ciò che ci capita, di un disegno o di un intervento in qualche modo intelligente e intenzionale all’esterno di noi è qualcosa di fuorviante, che intrappola le nostre energie psichiche e ci allontana gradualmente dalla realtà. A sostegno della sua tesi, il dott. Lewis porta notevoli e inconfutabili dati che riguardano i pazienti in area psicotica o borderline, soprattutto di personalità paranoide e delirante: essi ricercano continuamente un senso per ogni minimo dettaglio, come se la vita fosse insostenibile senza la comprensione di una trama sottesa, di un grande disegno, che si disvela nelle più piccole vicende quotidiane.
Paradossalmente, la ricerca di questo disegno svuota la vita dall’interno, alienando la persona dalla realtà.
Dunque, in conclusione, dobbiamo accettare che le cose capitano e basta, «it is meant to be», non c’è un senso da ricercare.
Soprattutto per il male e tutto ciò che provoca dolore, benché «il cervello rifiuti la casualità, cerchi segnali e brami il controllo», è necessario, come dice la scienza, scendere a patti con le coincidenze e la casualità: «comprendere il mondo così com’è – sostanzialmente casuale – può liberarci e renderci più forti».
Teologia e filosofia
Certamente l’articolo è interessante e ben fatto, pur presentando, a mio avviso, alcuni limiti vistosi. Prima di tutto, la critica alla ricerca di fede a partire da presupposti puramente scientifici risulta un riduzionismo un po’ datato, ha il sapore del positivismo di altri tempi.
L’articolo mette in luce, in fondo, un’istanza già nota alla teologia e alla filosofia. Proporre la visione di un Dio che ha già prestabilito ogni cosa, che permette ogni avvenimento per un senso preciso e a priori, rischia di essere un’operazione che urta la sensibilità della persona e invita a una rigidità che risulta sostanzialmente innaturale. Dovere per forza concludere la frase «le cose ci capitano perché…», oltre che terribilmente responsabilizzante per i pastori e i teologi, è affare molto delicato. Metz scriveva che questo non è dovere dell’uomo, ma di Dio: la teologia e la ricerca di fede hanno il compito di rendere la domanda «non dimenticabile», non di trovare una risposta, la quale verrà solo da Dio stesso.
Trovo anche alcune analogie con l’analisi di Vattimo, datata di per sé, travisata negli anni successivi, ma nella sostanza ancora terribilmente provocatoria, all’interno della Premessa al volume Il pensiero debole: è importante avere «un nuovo e più amichevole, perché più disteso e meno metafisicamente angosciato, sguardo al mondo delle apparenze, delle procedure discorsive e delle “forme simboliche”, vedendole come il luogo di una possibile esperienza dell’essere». Le conquiste nella metafisica, mirabilmente ed efficacemente realizzate dalla teologia scolastica, nella pratica pastorale di oggi devono allentare la propria “arroganza filosofica”, la rigidità di certi schemi di comprensione che rischiano di essere una stabilizzazione forzata della realtà.
Accompagnamento verso dove?
Nella pratica dell’accompagnamento delle persone tutto ciò cosa significa?
Chi riveste questo ruolo e affronta con passione tale compito non può limitarsi ad aiutare la persona a capire che «Dio ha voluto questa cosa per questo motivo». Può essere forse un elemento di consolazione più o meno efficace, ma mi pare abbia terribilmente le gambe corte e, a lungo termine, non solo non tiene, ma rischia di essere controproducente per il percorso di crescita della persona stessa.
L’ormai inflazionata indicazione dell’Evangelii gaudium al n. 233, «la realtà è superiore all’idea», ci aiuta ad affrontare seriamente e senza scorciatoie questo tema. Verso chi o che cosa accompagniamo le persone che incontriamo? Sicuramente non a demistificare e a distorcere la realtà. Penso che sia effettivamente liberante partire dal presupposto che «la realtà è quella che è» e che essa ha il primato su ogni nostra interpretazione.
Tuttavia le conclusioni dell’articolo di Lewis – bisogna accettare che le cose capitano a caso e basta – suonano troppo tranchant e categoriche. Se, da un lato, cogliamo l’importanza dell’invito a una leggerezza che diviene un’opportunità di confronto, di dialogo e di accoglienza, dall’altro, penso che sia importante ricordarsi che siamo, come uomini, collaboratori di senso. Ci poniamo, cioè, alla ricerca di un appello all’interno di ciò che ci accade, il quale, come ci insegna la comunicazione circolare, non dipende solo dal mittente (Dio, la vita, la natura), ma anche – e soprattutto – dal destinatario (la persona umana), il vero ganglio nevralgico del processo comunicativo.
Come destinatari, quindi, abbiamo il compito di interpretare ciò che accade nella nostra esistenza. Non si tratta di un’operazione innata e sbagliata, una sorta di malattia autoimmune. Certo molto ne va, della nostra crescita e del nostro sviluppo, da come affrontiamo questo compito. Come dicevo, penso sia verosimile prevedere che, finita la difficile situazione del coronavirus, ci sarà una grande richiesta del servizio di accompagnamento. Come comunità credente penso che saremo davvero utili e umani nella misura in cui sapremo aspettare a dare risposte «chiare e distinte». Quanto più avremo la capacità di stare davanti alle ferite aperte della vita – nostra e delle persone che accompagniamo –, tanto più potremmo svolgere un servizio autentico e umano.
«Scendere a patti con le coincidenze » è quindi una provocazione per tutti, perché rappresenta lo step zero che ognuno di noi effettivamente deve compiere. Ma non basta: da lì, dalla capacità di sostare di fronte alla realtà per com’è, può e deve nascere un’interpretazione che vada più in profondità. Non per rendere la realtà più complicata di com’è, ma perché essa non sia inutile. Questo periodo di quarantena non sarà, infatti, utile di per sé – al contrario, di per sé è spaventoso e distruttivo –, ma potrà diventarlo nella misura in cui sapremo rimboccarci le maniche e raccogliere la sfida dell’ascolto reciproco con vicinanza e delicatezza.