Le letture giovannee ci portano a meditare il tema della luce che è venuta nel mondo ma che non è stata accolta. In particolare, mi faceva riflettere, in relazione alla realtà giovanile, il passo di Gv 3,20-21: «Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce, perché le sue opere non vengano riprovate. Invece, chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio». Potrebbe sembrare una contraddizione, ma spesso ci capita di assistere a fenomeni di violenza, bullismo, vandalismo, esibizionismo legato ai giovani che, più che venire sottratti alla luce, sono il gesto di chi vuole uscire dal cono d’ombra alla ricerca di sguardi, della luce dei riflettori o dei telefonini.
Pur di uscire dall’ombra
Riflettere sulla luce verso la quale si viene, lo sguardo al quale ci si dona, può risultare un indicatore del presente giovanile ma, allo stesso tempo, può consegnarci delle piste di riflessione utili nell’accompagnamento educativo.
Questo articolo prende spunto dal confronto tra il passo di Giovanni e la lettura dell’ultimo libro dello psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet, dal titolo L’insostenibile bisogno di ammirazione.
L’autore introduce il suo discorso a partire dal cambiamento di paradigma educativo in atto: dal vedere la natura del bambino come una realtà da limitare, controllare nelle sue pulsioni potenzialmente negative, ad una natura bella e buona che va lasciata esprimersi e semmai chiede di porre un limite proprio ai limiti posti dalla cultura.
Ad esso si accompagna il venir meno della figura paterna, come base dei processi di costruzione del Sé in relazione all’autocontrollo, alla disciplina interiore e al rispetto delle regole.
In mancanza della struttura morale che veniva interiorizzata nel precedente modello educativo, il soggetto è lasciato in balia del Sé. Questo lo porta ad una ricerca superficiale e continua di conferme, di uno sguardo che possa supplire alla scarsa autostima personale, dentro un perverso gioco narcisistico.
Venire alla luce, per un giovane, risponde quindi ad un bisogno di ammirazione, per il quale si è disposti a mostrarsi sia in positivo che in negativo, purché si esca dall’ombra. È la ricerca di uno sguardo, lo sguardo degli altri su di sé, come conferma della propria individualità, del proprio Sé affettivo e narcisistico.
Venire alla luce, nella prospettiva spirituale, è (de)porsi allo sguardo di Dio, che nell’amore conferma il nostro essere persona, cioè, il nostro essere un “tu”. La persona come essere relazionale e non un individuo.
Come ci ricordano Rupnick e Campatelli, rispondere a questo sguardo è sempre qualcosa di personale, in quanto la persona emerge dalla comunione. «La persona è un essere relazionale che deriva la sua identità dalla sua comunione con gli altri. Chi è nato dallo Spirito di Cristo non può essere un individuo» (da Vedo un ramo di mandorlo. Riflessioni sulla vita religiosa). La vita, altrimenti, se concepita in modo individuale, non viene partecipata ma conquistata, posseduta, e possedere è senz’altro più facile che amare sebbene più illusorio.
Due sguardi, uno stesso desiderio
Alla base dei due diversi modi di venire alla luce – una diversa luce certamente – vi è tuttavia il desiderio di essere visti, un desiderio inscritto nel proprio cuore, quello di uno sguardo ri-conoscente. Ma tra i due sguardi, quello di Dio e quello degli altri, vi è un profondo solco che ne segna la differenza.
Se lo sguardo degli altri è indotto da quello che mostro di me, lo sguardo di Dio è gratuito, concessomi per quello che sono senza richiedere nulla in cambio.
Se lo sguardo degli altri non è mai appagante, creando progressivamente dipendenza e la necessità di un’esposizione maggiore, lo sguardo di Dio è liberante e in grado di generare una gioia serena che ci permette di essere beati, cioè di divenire coloro che sanno andare avanti, anche nelle difficoltà.
Due sguardi, uno stesso desiderio. Due luci, uno stesso giovane in ricerca. Ma non si tratta di rimpiangere i paradigmi educativi passati. È un bene che l’impalcatura moralistica che sorreggeva l’individuo sia crollata, in quanto generava altri mostri che, in ragione del solo senso di colpa, erano tenuti nell’ombra delle nostre vite.
Il soggetto non si sorregge unicamente sulla disciplina (pensiamo a come questo criterio sia oggi mortifero e non più generativo nella formazione religiosa), soprattutto in un contesto dove la realtà non consente replicanti ma richiede soggetti in grado di fare scelte, quindi competenti nell’arte del discernimento personale. Solo apprendendo questa antica arte possiamo tornare a distinguere la luce da quella che ne è solo l’ombra seppur rassicurante. Ma è un’arte che si avvia come frutto di un’attrazione e non di una convinzione, che ha a che fare più con il gusto che con il valore, più con il “sàpere” che con il “sapere”.
Quali prospettive per l’accompagnamento dei giovani?
Abbiamo bisogno di educatori con lo sguardo liberato e liberante di Dio sui giovani. Liberato da paradigmi educativi non più adeguati, centrati su progetti di vita o modelli ideali distanti e in grado di illuminare il soggetto solo dall’esterno mostrandone i limiti e non l’essenza. Liberati dal pensare che la persona si costruisca attraverso il suo impegno, da sola, acquisendo strumenti e comportamenti idonei, dimenticando che la luce che illumina viene dall’interno ed è necessario rinunciare per lasciare spazio più che accumulare per oscurarne i possibili punti di fuga. La bellezza è nell’essere non nel fare.
Uno sguardo liberante, in quanto aiuta la persona a scorgere la bellezza nel suo profondo, senza dover dimostrare niente a se stesso o agli altri. Questo richiede educatori che sono già morti alle loro certezze, già liberati, che sanno mettere in gioco la loro vulnerabilità come la loro umiltà, che non hanno bisogno di motivare, dopare relazioni o emozioni, perché riconoscono il frutto della grazia ricevuta che altrettanto gratuitamente e semplicemente possono non tanto offrire, quanto farsi prendere dagli altri. Perché queste dimensioni non si apprendono ma si prendono, non dal fare, ma dall’essere di chi ti accompagna.
Abbiamo quindi sempre più bisogno di guide che abbiano sapore, affinché il ragazzo possa, come i due discepoli del Battista anche loro in ricerca, rimanere con loro, perché avevano visto dove egli dimorava. Avevano trovato una casa, una comunità fatta di gesti, parole, sguardi luminosi.