Uno dei discernimenti più complessi che si devono svolgere nella Chiesa è quello relativo all’idoneità dei candidati ai ministeri, in particolari a quelli fondati sul sacramento dell’ordine, a svolgere un ruolo di leadership all’interno delle comunità cristiane.
Discernere i candidati alla leadership ecclesiale
Se, da un lato, è evidente che l’accesso a questi servizi non vada riservato alle sole persone straordinarie, con una maturità spirituale e psicologica eccezionale, dall’altro, occorre chiedersi quale livello di immaturità sia tollerabile perché questi compiti vengano comunque svolti in modo adeguato.
Purtroppo oggi è particolarmente forte la tentazione di non porsi più di tanto questo interrogativo, perché in questo modo si può ottenere l’accesso al ministero da parte di molte più persone, e mantenere così più facilmente quell’insieme corposo di istituzioni e attività ecclesiali a cui siamo abituati da molto tempo.
Non basta, però, scegliere di esercitare un certo discernimento sui candidati alla leadership ecclesiale, ma occorre stabilire dei precisi criteri di riferimento. Questi non potranno che essere strettamente legati all’immagine di Chiesa che si ha in mente.
Ad esempio, se si pensa che le comunità cristiane debbano sostanzialmente offrire delle celebrazioni dei sacramenti che siano quanto meno valide e una predicazione intesa come ripetizione automatica delle verità fondamentali della fede, questi criteri saranno molto larghi, dal momento che occupazioni del genere non richiedono una particolare maturità spirituale e psicologica, e neppure una vivace intelligenza.
Ora, dal momento che l’aspetto più appariscente della vita delle comunità sono le varie attività che vengono svolte al loro interno, il discernimento sull’idoneità dei candidati ai ministeri può riconoscere un peso eccessivo alla loro capacità di coinvolgere altre persone, di farsi seguire, di ottenere che altri pensino e agiscano nel modo desiderato, e così via. In questo modo si privilegiano quegli individui che, grazie alla loro seducente personalità – magari addirittura manipolativa –, riescono ad ottenere grandi adesioni alle loro iniziative e a dar vita a gruppi numerosi e fortemente coesi. Qualità del genere non passano inosservate in una Chiesa in cui la dimensione operativa e pratica è spesso, di fatto, quella più importante.
A questo riguardo, forse un giorno molto, molto lontano, riusciremo a riscrivere la storia di alcune realtà ecclesiali a partire non tanto dal tema del loro carisma che, col senno di poi, risulterà secondario o non realmente esistente, quanto dalle dinamiche psicologiche che, per varie ragioni, si sono determinate al loro interno.
Diventare punto di riferimento
Ancora una volta, Gregorio Magno ci è di grande aiuto nella riflessione su queste tematiche così complesse relative all’idoneità al servizio ecclesiale. Nella sua Regola pastorale scrive: «Ci sono, in effetti, alcuni che ricevono doti eccellenti di virtù e vengono esaltati per i loro grandi doni capaci di sostenere gli altri nell’esercizio della vita ascetica. Costoro sono puri per l’amore della castità, forti di quel vigore che è frutto dell’astinenza, sazi del delizioso nutrimento della dottrina, umili nella loro paziente longanimità, saldi della forza dell’autorità, benigni a motivo della loro pietà, rigorosi di quella severità che è propria della giustizia.
Costoro però escludono per lo più anche se stessi da questi doni che non hanno ricevuto per sé soli ma anche per gli altri se, quando siano chiamati alla massima dignità del governo delle anime, rifiutano di accettarla. E poiché pensano al loro guadagno e non a quello altrui, si privano proprio di quei doni che desiderano possedere a uso privato» (n. 5).
L’aspetto sorprendente di questo passaggio è che il criterio di discernimento per valutare l’idoneità al ministero episcopale che Gregorio sembra dare per scontato è il fatto di avere ricevuto da Dio grandi doni spirituali che rendono capaci di sostenere gli altri credenti nell’esercizio della loro vita cristiana.
Estendendo queste indicazioni all’accesso ad ogni forma di leadership ecclesiale, possiamo pensare che, per questo autore, un ministro dovrebbe essere scelto tra quei credenti che vivono la loro vita cristiana con uno stile tale da poter essere un punto di riferimento affidabile anche per gli altri. Si tratta di una prospettiva molto vicina a quella dell’episkopè, termine con cui, nella tradizione antica, si indica la supervisione che un cristiano esercita sul cammino di fede della sua comunità e dei suoi membri per aiutarli a vivere al meglio la loro identità credente.
Ovviamente queste parole di Gregorio non vanno assolutizzate, come se le virtù a cui fa riferimento fossero le uniche da prendere in considerazione. Ad esempio, un leader dovrebbe avere anche un minimo di mentalità organizzativa, riuscire a lavorare insieme ad altre persone, saper sviluppare progetti in modo sinodale e soprattutto portarli effettivamente avanti. Non è pensabile, insomma, che costui dia continuamente inizio a percorsi, progetti e commissioni senza poi riuscire ad accompagnarli, dimenticandosi delle scelte fatte, cambiando continuamente idea, cadendo in un’indecisione anomala, dando indicazioni differenti a persone che dovrebbero lavorare insieme, e così via.
Stili caotici del genere hanno un costo molto alto sulla salute delle persone coinvolte e soprattutto sulla capacità di una comunità cristiana di svolgere in modo efficace la sua missione.
Tuttavia, Gregorio ci suggerisce di non considerare queste capacità come quelle più importanti. Ciò che conta più di ogni altra cosa è che l’esperienza di fede di un leader ecclesiale sia sostanzialmente autentica e abbia quei tratti di robustezza e di affidabilità che le consentano di essere messa “in vetrina”, cioè di poter rappresentare per altri cristiani un riferimento sicuro e affidabile di cosa significhi vivere il Vangelo. Figure del genere sono rare e preziose. Ecco perché – come scrive Gregorio – chi ha queste caratteristiche non deve tirarsi indietro dal compito della leadership se viene richiesto di svolgerlo.