Dopo averci intrattenuto nei mesi scorsi sul tema della riforma della Chiesa, ora il teologo modenese Massimo Nardello offre le sue riflessioni sulla necessità di avere nella Chiesa dei leader, sia in ambito clericale sia sul versante laicale, che costituiscano dei punti di riferimento per dare solidità e vivacità alle comunità cristiane.
Quando si riflette sul progressivo allontanamento di molte persone, soprattutto giovani, dalla vita liturgica e dalle varie attività delle comunità cristiane, si può venire presi da un certo sconforto, soprattutto se si mette a confronto questa loro presa di distanza con la forte partecipazione alla vita ecclesiale che era rilevabile solo pochi decenni fa.
In effetti, si tratta di uno dei segnali più forti che siamo alle porte di un cambiamento epocale per il cristianesimo europeo. Non pare esserci consenso, però, sul modo in cui si debba reagire a questa situazione.
Annunciare il Vangelo nella verità
È ormai assodato che non ci si possa concentrare sulla sola proposta liturgica e devozionale, per molti ormai priva di significato, ma che occorra riattivare la capacità propria di ogni comunità cristiana di comunicare il Vangelo a chi non crede. Tuttavia, talora si pensa che questa evangelizzazione consista nel presentare l’esperienza cristiana come pienamente sintonica con le istanze della cultura del nostro tempo, anche a costo di mettere tra parentesi quei suoi tratti che vanno in una direzione differente.
La convinzione che sta dietro a questo approccio è che la bellezza e la bontà del cristianesimo siano di per sé ovvie, e che la decisione di non credere dipenda semplicemente dall’aver percepito erroneamente la fede come lontana dalla propria esperienza di vita. Insomma, l’incredulità sarebbe sempre e solo un grande fraintendimento.
In realtà, la decisione di avere fede è sempre e solo il frutto di una lotta interiore, di un progressivo e drammatico arrendersi all’amore di Dio che ci è stato rivelato e donato in Gesù Cristo. Questo faticoso cammino, poi, è reso possibile esclusivamente dall’azione dello Spirito Santo, che sostiene la libertà di ogni persona e la guida rispettosamente ad una conversione sempre più profonda al Signore.
Così il compito delle comunità cristiane non è quello di “produrre” la fede in chi non crede, ma semplicemente quello di annunciare il Vangelo nella sua autenticità, facendo in modo che sia compreso correttamente come un’offerta di salvezza, ma senza la pretesa assurda di rendere il suo valore qualcosa di ovvio. L’inculturazione serve a far capire il senso della scelta della fede, non ad abolirne il carattere drammatico e a renderla uno svago.
Dunque, in questo periodo di cambiamenti epocali le comunità cristiane sono all’altezza del loro compito se annunciano il Vangelo nella sua verità.
L’arte delle arti
Tuttavia, questo non basta. Se le dinamiche che si vivono in queste comunità non sono sostanzialmente orientate in senso evangelico, il loro annuncio resterà infecondo perché smentito dalla loro prassi. Del resto, oggi è molto difficile camminare nella fede senza il supporto di una comunità sostanzialmente sana e di una proposta spirituale di buon livello. Ora, le figure ecclesiali più decisive perché tutto ciò si possa realizzare sono i leader. Con questo termine intendiamo sia i pastori in senso proprio, cioè i vescovi e i presbiteri, sia altre figure ecclesiali che hanno responsabilità su altri credenti, come i diaconi, i catechisti, gli animatori e così via.
Per questo dedicheremo alcune riflessioni al tema della leadership ecclesiale facendoci accompagnare da una guida d’eccezione, s. Gregorio Magno, in particolare dalla sua Regola pastorale. Vescovo di Roma in un periodo di cambiamenti epocali, in cui il mondo occidentale sembrava poter scomparire a causa delle invasioni barbariche, egli ha delineato in quest’opera, scritta nel 590/591, la figura ideale del pastore come figura necessaria a porre rimedio ai mali che devastavano le persone e la società del suo tempo.
La ragione per la quale dobbiamo metterci in ascolto di questa e di altre figure esemplari è indicato nel primo numero della Regola: «Non c’è arte che uno possa presumere di insegnare se non dopo averla appresa attraverso uno studio attento e meditato. Quanta è dunque la temerarietà con cui gli ignoranti assumono il magistero pastorale, dal momento che il governo delle anime è l’arte delle arti. Chi non sa che le ferite dei pensieri sono più nascoste di quelle delle viscere? E tuttavia si dà spesso il caso di persone che non conoscono neppure le regole della vita spirituale ma non temono di professarsi medici dell’anima, mentre chi ignora la virtù terapeutica delle medicine si vergognerebbe di passare per medico del corpo. […] Essi sono tanto più incapaci di assolvere degnamente all’ufficio della cura pastorale che hanno assunto in quanto sono pervenuti al magistero dell’umiltà solo con l’orgoglio; giacché nell’insegnamento perfino la lingua si confonde quando si insegna qualcosa di diverso da ciò che si è imparato».
Medici dello spirito
Dunque la leadership, qui intesa come arte della guida delle anime, va appresa. Non bastano il buon senso o la fantasia. Neppure si possono porre sé stessi e le proprie idee al centro dell’attenzione della propria comunità, perché sarebbe un «pervenire con orgoglio al magistero dell’umiltà». Non è sufficiente, però, aver maturato una visione corretta della spiritualità cristiana («sapere le regole della vita spirituale») ed essere persone umili, ma, come medici dello spirito, occorre anche saper individuare le ferite invisibili che affliggono le persone, e che ovviamente sono diverse dalle proprie.
La leadership ecclesiale si configura quindi come un risanare gli individui da quelle fragilità che impediscono loro di essere sani, cioè di vivere pienamente la loro vocazione di figli di Dio in Cristo. Ovviamente questo vale non solo sul piano dell’interazione personale, ma riguarda anche le dinamiche comunitarie che, analogamente alle persone, possono essere malate e ostacolare il cammino di fede.
Già da queste prime considerazioni comprendiamo che per Gregorio la leadership non si gioca nella capacità di fare discorsi o di gestire gli aspetti organizzativi – cose pure necessarie –, ma nell’investire la propria capacità di discernimento per intuire cosa realmente ferisca il cuore delle persone e delle comunità, per poi cercare di porvi rimedio.