Leggere il tempo, rianimare la speranza

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lettera pastorale

Lettera pastorale per l’anno 2020-2021 del vescovo di Latina, mons. Mariano Crociata, dal titolo “Non ardeva forse in noi il nostro cuore? Leggere il tempo e rianimare la speranza”.

Cari fratelli e sorelle,
alla data in cui vi scrivo il confinamento nelle nostre case a causa dell’epidemia da coronavirus è un ricordo già da qualche mese, ma la persistenza del virus, sia pure con una diffusione ridotta, non consente di intraprendere il nuovo anno pastorale nelle forme ordinarie che abbiamo conosciuto nel tempo.

Questa situazione inedita ci interpella e chiede di contrastare innanzitutto la tentazione di una attesa inoperosa, e poi anche quella di promuovere improvvide iniziative. Raccogliamo il suggerimento che scaturisce dal senso spirituale del momento, che consiste nel dare adempimento alla nostra vocazione cristiana e alla responsabilità della missione ecclesiale riappropriandoci delle loro dimensioni costitutive.

«Sapete dunque interpretare l’aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi?» (Mt 16,3)

Si è parlato molto, e giustamente, di discernimento in questo periodo così speciale: esso rimane un compito ancora aperto. Siamo dentro un processo di cambiamento incompiuto, di cui non è saggio affrettare conclusioni che hanno bisogno di ben altra maturazione per essere tratte. Per questo vogliamo riprendere il discernimento e chiedere al Signore di capire e di volere dove Egli ci vuole condurre.

Tra le molte cose che abbiamo ascoltato e letto in questi mesi, di cui alcune anche condivise tra noi, ce n’è una su cui voglio soffermarmi con voi, perché esprime a suo modo la situazione ecclesiale e la sua percezione. A proposito dell’esperienza di questi mesi qualcuno ha parlato di religione “inutile”. Di fatto per la prima volta sono state sospese le celebrazioni e i raduni ecclesiali, cosa a cui tutti con senso di responsabilità ci siamo attenuti.

In altre epoche, in occasione di pestilenze, la religione diventava destinataria di nuova commossa adesione e uno strumento privilegiato di lotta contro il male. Non rimpiangiamo quei tempi, anche se in essi un fervore religioso talora molto più forte e diffuso si accompagnava a una profonda inadeguatezza delle misure igieniche e sanitarie.

Diversamente dal passato, siamo consapevoli della accresciuta capacità della scienza nel contrastare il diffondersi di pandemie, e se anche essa non fornisce ancora gli strumenti per sconfiggere quella attuale, è certo che in un tempo più o meno breve troverà i mezzi e le tecniche per venirne a capo. Secondo qualche commentatore, il ricorso che in passato si faceva alla preghiera, agli atti di culto e alle manifestazioni religiose di massa, questa volta sembra essersi diretto ai ‘nuovi sacerdoti’ della scienza e della medicina, scienziati, medici, infermieri.

Nei fatti questi hanno dato un contributo straordinario non solo in termini di ricerca, ma anche in abnegazione personale fino al sacrificio della vita, di cui non solo prendere atto ma soprattutto sentire ed esprimere profonda gratitudine.

Una religione “inutile”?

Tutto questo, però, non vuol dire ancora che la religione sia “inutile”, ma piuttosto che il suo servizio – per sua stessa interiore maturazione – oggi consiste in qualcosa di diverso rispetto alla funzione consolatoria e alla invocazione del miracolo che poteva assumere in altri tempi, nei quali, nondimeno, era pur sempre sostegno alla fede e alla preghiera, e cioè alla fiducia in Dio e alla volontà di lottare e di affrontare il male, e costituiva non meno una spinta formidabile alla cristiana compassione e alla carità fraterna, testimoniate nei secoli da una mobilitazione inarrestabile di solidarietà e di dedizione a malati e moribondi.

Ciò che la fede cristiana anche oggi è chiamata a dare, insieme a un sentimento accresciuto di fraternità e di solidarietà specialmente verso i più fragili, è indicare un orientamento e trasmettere un senso che aiuti a capire e ad indirizzare il corso degli eventi. Scopriamo che dare un senso, specialmente in condizioni di prova estrema, ha una funzione vitale non meno importante di altre forme di aiuto.

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Ci domandiamo se, in questa circostanza, siamo stati in grado di infondere speranza e coraggio, di condividere la domanda sulla presenza e sulla chiamata di Dio in mezzo ad avvenimenti drammatici e all’inquietudine da essi suscitata, e a farlo con i nostri abituali fratelli di fede e di pratica religiosa, come anche con tutti gli altri. Non mancano segni eloquenti in tal senso, dalle molte iniziative di preghiera alle manifestazioni di carità e di solidarietà venute dagli ambienti e dalle persone più diverse. Di questo siamo grati, anche se non ci è consentito di dirci soddisfatti.

C’è un altro motivo che non permette all’aggettivo alquanto irritante che abbiamo citato – ‘inutile’ – di scomparire e di continuare a inquietare le nostre coscienze, e cioè la constatazione che alla ripresa delle celebrazioni, dopo i mesi di confinamento nelle abitazioni, e fino ad oggi, si comincia a fare i conti con un calo di partecipazione alla vita ecclesiale che non è dovuto soltanto alle fondate preoccupazioni per la persistente circolazione del virus.

Questa circostanza ci fa capire che, con la pandemia, si è accentuato e si è reso più evidente un fenomeno che lentamente aveva cominciato a manifestarsi da qualche tempo. Questi mesi hanno visto accentuarsi qualcosa che viene da lontano. Se la nostra fede cristiana non è riuscita a risvegliare e a mettere in campo tutte le potenzialità che porta dentro, è perché sono – o siamo? – sempre meno quelli che la vivono con convinzione, con reale coinvolgimento e passione.

E questo non è effetto della pandemia, né tanto meno del progresso della scienza e della medicina, ma è il segno di un calo di qualità dell’esperienza credente in molti cristiani.

Una tale constatazione può gettare nello sconforto o indurre a un senso di rassegnazione fatalistica, ma nell’uno e nell’altro caso non è la fede a parlare. Finché ragioniamo in termini di ‘utile’ o ‘inutile’, ci muoviamo in uno spazio spirituale estraneo alla fede, o almeno troppo stretto per essa. Tutte le più nobili finalità umane e sociali possono venire ispirate da essa, ma la fede è tale se orienta la totalità dell’esistenza, secondo la parola del Vangelo che dice: «quale vantaggio c’è che un uomo guadagni il mondo intero e perda la propria vita?» (Mc 8,36).

È a questa altezza – della vera riuscita della vita nella sua interezza – che bisogna portarsi per parlare di fede e non rimanere vittime di una logica che si contenta di mettere a confronto ciò che è utile e ciò che invece non produce vantaggio. Un discorso difficile, questo, che ci rimanda ancora una volta al Vangelo, là dove perfino i discepoli più vicini a Gesù cominciano a vacillare e a dubitare: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6,60).

Avremmo avuto bisogno di uno scatto di fiducia, di una fede più grande e più pura, non per disinteressarci degli affanni quotidiani o delle pene dei fratelli, quanto piuttosto per ritrovare la vera dimensione dell’essere credenti in un mondo che conosce sogni illusori e angosce mortali, vivere nel quale deve significare ancorarsi in un altrove che non sradica dalla terra ma vi si impianta mediante l’albero della croce e l’annuncio della risurrezione, così da stabilirsi nella vita vera per sapersi dibattere costruttivamente e con una visione più alta tra le cose utili e quelle inutili che contrassegnano le vicende umane.

Dobbiamo attingere un nuovo ardore di fede, senza il quale tutto diventa più difficile, e soprattutto davvero inutile: «se il sale perde il sapore, con che cosa lo si renderà salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5,13). Perciò anche noi vogliamo dire, di fronte alla tentazione della paura e della sfiducia: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).

L’icona di Emmaus

Confermarci in questa certezza e fare nostra la stessa professione di fede è lo scopo dell’impegno di questo tempo. Una pagina evangelica che può – con rara efficacia e puntualità – aiutarci a leggere la situazione e a tracciare per noi un nuovo percorso di speranza è quella, cosiddetta, dei discepoli di Emmaus (cf. Lc 24,13-35). La vogliamo adottare come pista di riflessione e di preghiera per l’anno pastorale che ci sta dinanzi. Raccoglierò solo alcuni spunti, lasciando ad altre occasioni l’opportunità di adeguati approfondimenti.

La prima scena è quella che deve più far riflettere, per comprendere la situazione (cf. Lc 24,13-24). Due discepoli stanno tornando da Gerusalemme dopo i fatti riguardanti la fine di Gesù. L’annotazione che essi sono tristi è solo l’espressione visuale di una condizione di sconforto e di un senso desolato di sconfitta. Anche se sono stati pure loro raggiunti dalla testimonianza delle donne circa il fatto che Gesù in realtà è vivo, si mostrano invincibilmente sopraffatti dalla sensazione del fallimento e della fine di un sogno.

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Speravano, ma ora non sperano più. Il loro camminare è in realtà uno stare fermi e un rimanere fissati nel loro stato d’animo, ormai lontani da Gerusalemme, il luogo dove si trova Gesù, dove stanno gli altri discepoli, dove tutto si è consumato. Il loro è un allontanarsi e un isolarsi, un chiudersi in se stessi, un ritornare alla noia di sempre e alle abitudini che annegano nell’indifferenza e nella monotonia quotidiana.

Sembra essere stata una insuperabile fattualità a generare tale stato d’animo, una evidenza inconfutabile, una assenza radicale di alternative; in realtà è stata una decisione, un orientamento interiore assunto sulla base di una incapacità o di un rifiuto di vedere, ascoltare, capire. Le cose potevano essere viste diversamente, forse non erano così come apparivano, ma i due non danno spazio alcuno ad altro che non sia delusione e amarezza.

E il motivo che ha condotto a tale risultato è che essi avevano adottato, riguardo a Gesù, un loro metro di giudizio che ora non funziona più, e che consisteva nell’apprezzamento di Gesù per i suoi successi, per la sua parola coinvolgente e toccante, per i segni autorevoli e i miracoli. Il fatto che adesso non ci sono più, perché lui è morto, diventa per loro la prova che era stata solo una infatuazione e una illusione, perché solo una vittoria sociale e politica li avrebbe potuti autenticare. In altre parole, la loro attesa di un Messia umanamente vincente era stata l’unica lente per leggere la figura di Gesù, la cui morte ne sembrava smentire inequivocabilmente l’identità immaginata e desiderata.

È dunque il modo riduttivo, e alla fine deformante, di comprendere Gesù che impedisce di ascoltarlo veramente e di cogliere la portata della sua presenza e la verità della sua persona. Questo impedisce loro anche adesso di riconoscerlo: egli appare un ignaro viandante, uno straniero. Gesù non l’hanno mai veramente ascoltato, si sono lasciati cullare da ciò che carezzava i loro desideri e alimentava le loro aspettative; non si sono mai del tutto aperti a lui, lasciando che la sua parola e il suo sguardo li scavassero dentro e ne trasformassero dal profondo proprio i desideri e le aspettative.

Così siamo condotti alla seconda scena (cf. Lc 24,25-27). Essa è brevissima rispetto alla precedente, ma ancora più efficace nel mettere subito in evidenza che cosa i due discepoli non hanno saputo ascoltare e capire, e che cosa può ancora riaprire alla speranza. Riprendere in mano da capo la Scrittura è la formula che scongela e fa svaporare ogni chiusura e ostinazione, ogni ottusità e incomprensione.

Quello che Gesù indica, o meglio esemplifica, non è una mera lettura materiale di un testo religioso, è uno sguardo che si distende nello spazio della fede e rilegge l’Antico Testamento alla luce della sua persona e della sua vicenda. Non dunque una lettura pia e devota, e nemmeno un approccio moralistico o legalistico, ma una penetrazione spirituale, che ripercorre la storia di Dio con il suo popolo e ne fa ancora una volta memoria sotto l’azione dello Spirito di Gesù.

Ciò che lo Spirito mette in luce è che proprio nell’avvenimento della croce di Gesù tutta la storia condotta da Dio giunge a realizzazione. Tutto ciò che Gesù è stato, ha detto e ha fatto mostra la sua coerenza e la sua verità nella morte in croce. Egli l’ha abbracciata per amore e in conformità alla misteriosa volontà del Padre, il quale ne accoglie l’obbedienza perfetta con la risurrezione.

Proprio la risurrezione dichiara la fedeltà di Dio e la sua inalterabile volontà di salvezza fin dentro la morte e oltre la morte, la quale non ha più l’ultima parola, ma rappresenta un passaggio necessario per il suo amore indefettibile e vittorioso. Ogni lettura della Scrittura è vera e capace di dischiudere alla vita e alla salvezza che viene da Dio, se ultimamente si misura non solo con la persona e la vita di Gesù, ma apertamente con la sua morte.

Nella terza scena (cf. Lc 24,28-35) Gesù viene riconosciuto, ma nel momento in cui i due si rendono conto della sua identità egli scompare alla loro vista. Che cosa ha permesso di riconoscerlo? Il gesto dello spezzare il pane apre i loro occhi.

Sarebbe troppo poco ritenere che si tratti solo di un gesto caratteristico, isolato dal resto, a risvegliare la loro attenzione; a condurre al riconoscimento è piuttosto il senso di ciò che viene compiuto e che si ricompone al termine di un percorso e di un processo di comprensione. Che cosa è il gesto eucaristico se non il condensarsi sacramentale del dono che Gesù ha fatto di se stesso sulla croce e perciò di tutta la sua predicazione e di tutti i suoi gesti, della sua persona e della sua vita?

lettera patsorale

Di più, esso è il culmine della storia della salvezza. Questa tende interamente verso l’innalzamento sulla croce del Figlio che, nell’atto stesso di consegnarsi, viene accolto dal Padre e restituito alla comunione delle Persone divine nella sua umanità martoriata e trasfigurata attraverso la risurrezione. Il gesto dello spezzare il pane condensa questi significati, senza i quali rimane incomprensibile ma grazie ai quali la memoria custodita nella Scrittura dischiude il disegno di Dio.

Il riconoscimento di Gesù è il termine di un cammino che vede crescere l’ascolto e l’attenzione, l’apertura del cuore e la disponibilità a lasciarsi cambiare dentro proprio in quelle cose che più ostinatamente resistono all’annuncio del Messia sconfitto e crocifisso. Il segno inequivocabile di un tale cammino interiore è quell’ardore che i due discepoli hanno avvertito dentro di sé mentre Gesù parlava. «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24,32).

Ma quell’ardore non poteva essere percepito e riconosciuto se non attraverso l’incontro con i segni della passione e della morte, segni di amore e di donazione, di consegna al Padre e ai fratelli. In una mirabile circolarità, la lettura della Scrittura alla luce della vicenda di Gesù aiutava a riconoscerlo alla fine nei segni della sua donazione d’amore fino alla croce, e i segni eucaristici, a loro volta, davano consistenza ed evidenza al senso delle parole tramandate, destinate a rimanere oscure senza l’incontro con la verità e la vita della persona umana in cui il Figlio, inviato dal Padre, ha preso carne.

Quel che ora accade è la ripresa del cammino per ritornare al centro, là dove tutto si è compiuto e da dove tutto ricomincia. È il cammino della testimonianza e della missione che nulla più potrà ormai arrestare. La presenza non più visibile di Gesù non è un ostacolo; ora si può guardare oltre la morte, perché gli occhi della fede vedono più lontano dell’esperienza della morte e della fine del Gesù terreno. Diventa possibile, anzi necessario, gettare lo sguardo – di più: il cuore e la decisione – oltre la morte, verso una vita nuova e piena che nessun limite potrà occultare o allontanare.

Quell’ardore che i discepoli hanno avvertito era il segno del presentimento, anzi della certezza, che la fede sempre incastona nel cuore del credente: mentre tu non te ne accorgi, anzi, mentre ti senti scoraggiato e sconfitto, mentre tu pensi che la morte sia invincibile e tutto sia finito, Dio sta agendo, sta sconfiggendo la morte, e il suo Figlio torna vivo e all’opera con una potenza di Spirito non più limitata da alcunché.

I discepoli di Emmaus nostri contemporanei

Il senso di una tale pagina evangelica non finisce mai di illuminare la vita dei credenti. Che cosa essa dice a noi? Come ci aiuta a capire e a vivere la nostra condizione?

Non si tratta di stabilire analogie o di istituire parallelismi artificiosi. Certo è che la tentazione dello scoraggiamento e della sfiducia è anche nostra, quando ci troviamo ad affrontare momenti difficili, ed è stata nostra anche in questo tempo di epidemia. È la stessa tentazione di quando ci sentiamo consolati e sostenuti dall’amore di Dio perché le cose ci vanno bene al punto che non ci preoccupiamo nemmeno di lodarlo e ringraziarlo.

Ma adesso che siamo stati provati così duramente, accade che ci chiediamo se Dio c’è, se non si è dimenticato di noi, con tutto quel che segue.

In questo modo, l’epidemia ci appare per ciò che ultimamente è: una prova della fede. Ci crediamo ancora? E che cosa significa credere in tempi come questi? Soprattutto: che tipo di fede abbiamo? Quale profondità e solidità essa possiede? È una fede capace di farci reggere di fronte al dolore e al disorientamento, e a tutto ciò che di devastante una epidemia provoca? Ci aiuta a reagire e a lottare, a vivere?

Ognuno di noi sa come ha vissuto questi mesi e tutti – chi più chi meno – abbiamo sperimentato un senso di smarrimento e di fragilità. Riconoscendo la povertà della nostra fede ci chiediamo cosa ci vuole per restituirle ardore e forza. È questa l’esigenza grande del momento. I discepoli di Emmaus hanno avuto la grazia di venire affiancati da Gesù in persona e di aver vissuto in prima persona il risveglio della fede che la sua parola e la sua presenza hanno suscitato in loro.

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Forse dobbiamo anche noi farci attenti a come Gesù si affianca a noi lungo il nostro cammino di vita e, se ci riflettiamo, sono tanti i modi in cui egli effettivamente si presenta. Modi che hanno l’aspetto dei fatti ordinari della vita, così ordinari da non farci nemmeno immaginare che Gesù ci stia parlando attraverso di essi e si stia rendendo presente. Quanti incontri, persone, parole, letture, ascolti, spettacoli, dolori e gioie, lavoro e fatiche, preghiere e celebrazioni, dialoghi e silenzi affollano la nostra vita e le nostre giornate!

C’è da perdersi, al punto che non facciamo più caso a niente, andiamo di corsa, sicuri di ciò che già sappiamo e di ciò che dobbiamo fare, o anche di ciò di cui siamo preoccupati, angustiati o oppressi, catturati dall’ultima notizia che ci assilla, e tutto pensiamo tranne che Gesù in quel momento e in tutte quelle circostanze non è lontano da noi, non è assente ma sta operando, ci vuole dire la sua presenza, la sua premura, la sua parola.

Abbiamo bisogno non che tutto il negativo della nostra vita scompaia come d’incanto per cominciare finalmente a credere in Gesù, abbiamo bisogno di cominciare a credere in Gesù prima, durante e dopo tutte le cose che si affollano e spesso ci appesantiscono: solo così la nostra vita comincerà a prendere luce. Ci vuole uno sguardo diverso, che solo lui sa darci. Se sappiamo questo, possiamo provare ad imparare a riconoscere e a coltivare i segni della sua presenza. In che modo?

Il modo come Gesù si accosta ai discepoli di Emmaus ci suggerisce la risposta. Gesù non fa altro che porre ciò che i due discepoli gli riferiscono in relazione con la storia di Dio e del suo popolo attestata nella Sacra Scrittura. Gesù mette dinanzi a loro la storia che ha preceduto e preparato ciò che poi gli è accaduto; in tal modo la vicenda che essi hanno vissuto comincia ad essere vista da loro stessi in una luce diversa da quella in cui l’avevano collocata. È grazie a questo accostamento che scocca la scintilla, si accende il fuoco e i cuori cominciano ad ardere.

Dobbiamo aver paura di diventare tiepidi, dobbiamo temere di non avere più desiderio di cercare il fuoco. Perciò abbiamo bisogno di ricominciare rileggendo la Scrittura con la vita e la vita con la Scrittura. Dovremmo imparare a scavare, battere e ribattere sulla parola ispirata, portando ad essa ciò che il nostro cuore custodisce con i suoi pesi e i suoi affanni, fino a che essa non cominci a sprigionare la fiamma viva che accende la fede e la ravviva sempre di più, così da riportarla dentro la vita. Questo miracolo si compirà tutte le volte che impareremo a mettere in relazione tutto di noi con la croce di Gesù, che il gesto eucaristico condensa e ripresenta.

Celebrare l’Eucaristia e cogliere in essa la ripresentazione attiva del gesto d’amore di Gesù consumato sulla croce, significa cogliere in essa un indicatore e rivelatore potente, di più: un comunicatore, del senso salvifico di ciò che viviamo. Significa cogliere dentro la tragedia della pandemia i segni di una vita che vince la morte: proprio nel momento più buio, lì il Signore ti dice che con lui si vive e si vince la malattia e ogni male.

Non andremo dunque a cercare altrove una salvezza di facile evasione o di fatua consolazione, ma proprio dentro la consumazione della tragedia l’amore che salva: è ciò che facciamo sempre – e che dovremmo capire che facciamo – ogni volta che celebriamo l’Eucaristia. Il credente, nell’ascolto e nel gesto di spezzare il pane, incontra e riconosce Gesù e perciò può guardare attraverso la morte ciò che sta oltre, ciò che ci attende oltre, ciò che dobbiamo compiere per attraversarla e oltrepassarla.

Gettare il cuore oltre l’ostacolo

Quando cominciamo a fare questa esperienza, ci accorgiamo di un fatto strepitoso, che cioè possediamo tante di quelle risorse nascoste da riuscire ad affrontare non solo questa epidemia, ma tutto ciò che di negativo può ancora presentarsi. La storia della fede è piena di testimoni di tutte le epoche che hanno attraversato prove e persecuzioni inenarrabili, e che tuttavia hanno visto dentro la loro croce la luce della risurrezione e hanno trovato dentro di sé energie insospettabili per affrontare tutto con fede e con amore.

Anche noi possediamo risorse straordinarie, ma le teniamo seppellite a causa delle nostre paure e delle nostre ignavie. Con i discepoli di Emmaus dovremmo imparare a vedere lontano, a vedere oltre, a ritornare a Gerusalemme senza temere né la notte né i persecutori di Gesù, desiderosi solo di ritrovarci con la Chiesa per incontrare il Signore risorto e con lui intraprendere insieme il cammino della missione.

A questa icona dei discepoli di Emmaus, può essere accostata perciò un’altra, sempre del Vangelo di Luca, posta all’inizio della vita pubblica di Gesù, la cosiddetta pesca miracolosa (cf. Lc 5,4-11). È una storia di vocazione, la chiamata dei primi discepoli secondo il terzo evangelista. Anche qui troviamo una situazione di disdetta: una nottata di lavoro senza frutto. Notte e sterilità, una accoppiata che dice oscurità, inutilità, fallimento.

Non è anche questa la sensazione che affligge chi si applica a considerare e a descrivere lo stato di tanto nostro cristianesimo di oggi? Il fatto da notare è la disponibilità di Simone, Giacomo e Giovanni ad assecondare l’invito di Gesù, che dovette apparire a pescatori di mestiere un suggerimento alquanto bizzarro e improbabile. Ciò che la pesca abbondante rivela non è solo, o tanto, il potere della parola di Gesù, ma piuttosto il potere che la parola di Gesù sprigiona quando la si accoglie e la si esegue, e quindi le energie che l’ascolto e l’obbedienza (che sono la stessa cosa in un processo di incremento e di intensificazione) vedono generarsi quando la parola di Gesù viene accolta.

Ci sono potenzialità nel nostro cuore, ma anche nella nostra vita di Chiesa, nelle nostre comunità, nella storia della nostra Chiesa, che solo una fede ardente è capace di risvegliare e rendere attive. E noi invece per lo più le lasciamo assopite se non addirittura le facciamo deperire senza rimedio.

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Quando queste risorse si risvegliano, allora non c’è notte o fallimento che tenga, e non c’è considerazione di opportunità o di convenienza che conti, perché il credente diventa capace di cose inimmaginabili: «anch’egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste» (Gv 14,12).

Dobbiamo imparare, nella fede, a gettare il cuore oltre gli ostacoli, là dove Dio è già all’opera, per anticipare quella pienezza di vita che la croce più che imprigionare fa sprizzare come gioia di risurrezione.

Riaccendere la fede

Il cammino pastorale di quest’anno ha bisogno più che mai di qualità spirituale. Dobbiamo imparare in modo nuovo a riconoscere la presenza del Signore anche oggi. Per questo è necessario riservare tempo e attenzione a tale scopo. L’invito è rivolto ai singoli e alle comunità, perché per tutti prenda nuova consistenza lo spazio per la preghiera e per l’ascolto della Parola. Le circostanze suggeriscono di non promuovere attività diocesane di massa, ma questo non impedisce di preparare e realizzare due iniziative in tal senso.

La prima riguarda presbiteri e diaconi, i cui incontri mensili avranno tutti il carattere di ritiro spirituale. Per i collaboratori pastorali delle parrocchie saranno invece le assemblee di forania a diventare occasioni straordinarie di preghiera e di ascolto sotto la guida del vescovo, nei mesi tra Natale e Pasqua.

Non avere paura di guardare lontano

Quest’anno sarà segnato dalla presentazione del Percorso dell’Iniziazione Cristiana. Dopo tre anni di lavoro, che ha visto coinvolti un po’ tutti, è stato definito lo schema del Percorso, che abbiamo finora chiamato ‘Progetto ZeroDiciotto’, in riferimento alle fasce di età lungo le quali accompagnare le nuove generazioni all’esperienza della fede e a diventare cristiani. Questa è la grande sfida del futuro che comincia.

Le circostanze esterne sembrano non favorire l’avvio di un progetto così ambizioso; in realtà proprio esse lo suggeriscono, chiedendoci di guardare oltre le difficoltà e le fatiche attuali e di preparare ciò che il Signore ci mette fin da ora nelle mani. Non aspetteremo le condizioni ideali per partire, perché queste non arriveranno mai; cominciamo, invece, già adesso, così da determinare da subito le condizioni di attuazione del Percorso.

La sua presentazione avverrà prima in una assemblea del presbiterio e della comunità diaconale, e poi in distinte assemblee foraniali, nei primi mesi dell’anno pastorale, con la presenza di collaboratori e fedeli di tutte le comunità. Con la partecipazione più estesa possibile si comincerà a costruire e condividere proposte ed esperienze per attuare il progetto nelle varie parrocchie a misura delle forze di cui ciascuna di esse dispone.

Lavorare con serenità, fiducia, speranza: Dio è già all’opera, e proprio là dove sembra sconfitto

Nelle comunità parrocchiali l’anno pastorale che comincia sarà caratterizzato da attività particolarmente intense a motivo delle celebrazioni sacramentali che, nelle condizioni che conosciamo, dovranno essere predisposte e compiute, nonché a motivo delle difficoltà di avviare le attività formative, a cominciare dalla catechesi da offrire a bambini e ragazzi, a finire a tutte le altre legate ai sacramenti e all’accompagnamento della vita cristiana.

Anche in questi ambiti deve essere l’ardore della fede a guidare lo sguardo e a riscaldare il cuore, oltre ogni altro genere di preoccupazione. Adoperarsi per il meglio realisticamente possibile non deve servire a mettere in pace la coscienza, ma piuttosto a porre nelle mani di Dio un servizio al cui esito solo la sua iniziativa può concorrere efficacemente.

Facciamo servire questo tempo a un lavoro sereno e assiduo, senza lasciarci distogliere da nulla, sicuri di essere al posto giusto nel tempo che il Signore ci ha assegnato.

Continuare a credere

La fede è sempre la certezza incrollabile che Dio è all’opera e sta intervenendo, anche mentre io sono nell’oscurità e nella prova, quando la mia fatica sembra inutile, e perfino quando tutto sembra finito e senza speranza.

La tenacia di questa fede è il segreto di ogni cammino e la risorsa che fa sperare, capace perciò di preparare un futuro che al momento può apparire inimmaginabile e perfino assurdo. Capire questo non è ancora credere come si deve, ma desiderarlo, invocarlo, cercarlo è essere già sulla sua strada, secondo quanto ci dice Gesù: «con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (Lc 21,19), perché «chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato» (Mc 13,13).

Spedendovi questa lettera, vorrei vi giungesse l’affetto per ciascuno di voi con cui l’ho pensata e scritta. Nutro il desiderio ed elevo la preghiera che essa favorisca sempre più intensamente un comune sentire di fede, da cui soltanto può scaturire un fecondo agire pastorale. Ve la affido invocando su tutti l’abbondanza di ogni benedizione dal Signore.

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