Una delle virtù cristiane a cui tradizionalmente si è dato maggiore rilievo è quella dell’obbedienza. Essa indica la disponibilità fiduciosa a seguire la strada indicata dai legittimi pastori anche quando le loro decisioni toccano da vicino la propria vita. Com’è ovvio, propriamente parlando si deve obbedire ultimamente a Dio, nella consapevolezza che la ricerca incessante della sua volontà non priva della propria libertà, ma fa diventare quelle persone che in fondo si desidera essere.
Non per asservire ma per far vivere
La questione è più complessa quando si parla dell’obbedienza ai pastori che guidano le comunità nel nome del Signore, e non tanto al loro insegnamento autorevole della fede, quanto alle loro scelte pastorali, soprattutto quelle che toccano in modo significativo la propria vita.
Pensiamo, ad esempio, alle decisioni del papa nei confronti dei vescovi, dei vescovi nei confronti dei presbiteri e dei diaconi della loro diocesi, del parroco nei confronti degli operatori pastorali della sua parrocchia, del superiore religioso nei confronti dei membri della sua comunità, e così via.
In effetti, noi umani, lasciati alle nostre forze, non siamo in grado di usare il potere in modo non distruttivo, ma finiamo sempre per impiegarlo per assoggettare altre persone alle nostre opinioni o bisogni. Solo per l’azione dello Spirito, la cui accoglienza non è mai da dare per scontata, siamo in grado di imitare il modo in cui Dio esercita il potere, non per asservire ma per far vivere in modo più pieno.
Su questo punto così scrive il padre Congar: «Rileviamo innanzitutto in san Paolo un grande rispetto per la legittima libertà dei fedeli. Egli non cerca di esercitare la sua autorità stabilendo da lui a loro una relazione di controllo e da loro a lui una relazione di subordinazione. “Fratelli, siete stati chiamati alla libertà” (Gal 5,13); “non diventate schiavi di uomini” (1Cor 7,23); “Non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Cor 1,24); “Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo” (Fil 14). Quanto è lontano tutto ciò dalla pressione clericale che ha regnato così pesantemente – è cosa del tutto passata? – nei nostri comportamenti pastorali…» (Y. Congar. Credo nello Spirito Santo. 2. Lo Spirito come vita, Queriniana, Brescia 1982, 142).
Ogni cristiano, quindi, deve comporre l’obbedienza con la libertà, quella di cui parlano l’Apostolo e il teologo domenicano.
Tra obbedienza e compiacenza
Una via per farlo è quella di esprimere in modo schietto e trasparente il proprio parere informato su questioni importanti, pur accettando le decisioni finali della legittima autorità. Tale onestà e trasparenza fanno la differenza tra la vera obbedienza e la compiacenza.
La prima consiste nel riconoscere ad una persona il compito ricevuto dal Signore di prendere delle decisioni sulla vita della comunità che possono toccare anche la propria esistenza personale, come nel caso delle nomine ad un determinato incarico.
La compiacenza, invece, pur simulando lo stile disponibile dell’obbedienza, non è affatto motivata da ragioni spirituali. Essa consiste nel plasmare in modo fittizio le proprie idee e atteggiamenti secondo i desideri e le aspettative del proprio capo, in modo da avere il suo apprezzamento ed essere quindi avvantaggiato nella propria carriera. L’obiettivo, insomma, è ottenere maggiore visibilità e potere.
Purtroppo, in molte organizzazioni – non di rado, anche nella Chiesa – sono le persone compiacenti e non quelle obbedienti a fare carriera più facilmente. In fondo, difficilmente un capo desidera avere al proprio fianco dei collaboratori che non corrispondono alle sue aspettative, a maggior ragione se costoro esprimono pure opinioni sgradite.
La persona compiacente, invece, sa essere esattamente come la vuole il suo superiore, magari simulando occasionalmente una certa autonomia di pensiero, tanto per non dare la brutta impressione di essere completamente inconsistente sul piano intellettuale. Queste figure sono vincenti. Per questa ragione, i livelli più alti di un’organizzazione finiscono spesso per essere popolati da persone del genere, ammaliate dalla visibilità e dal potere, e quindi con un profilo etico molto basso, che si affiancano alle più innocue figure talmente indecise da essere compiacenti per natura e non per vizio.
La Chiesa, fortunatamente, può contare su un’azione straordinaria dello Spirito che, agendo al suo interno, riesce comunque a garantire la sua sostanziale santità e la capacità di svolgere la sua missione. Ciò non toglie che anche nelle comunità cristiane sia necessario cercare di resistere alla compiacenza, promuovendo le persone trasparenti che esprimono opinioni informate e sincere pur nella disponibilità a restare in gioco.
Tutto questo è una sfida per un pastore, dal momento che le urgenze di una comunità tendono a rendere preferibili individui compiacenti rispetto a quelli obbedienti, in quanto sono più malleabili, efficienti e pongono meno obiezioni.
In realtà, chi è compiacente, anche se nell’immediato sembra essere più funzionale, o è drasticamente indeciso e quindi incapace di autonomia, o è prigioniero di uno stile di falsità che prima o poi lo porterà altrove, mosso dal bisogno di compiacere altre figure che possano offrirgli più potere e visibilità.
La parola obbedienza viene dal latino ob-audio. Quindi la vera obbedienza è ascoltarsi. L’autorità ascolta il singolo/comunità e viceversa. L’ascolto dovrebbe diventare una virtù!!