In questo tempo, in cui la vita delle parrocchie ha subìto un brusco arresto, abbiamo riscoperto la dignità che nasce dal battesimo.
La tragedia delle due guerre mondiali ha scritto con inchiostro indelebile la storia della prima metà del ‘900. Il dramma collettivo sommato alle singole disperazioni ha generato macerie di muri e di spiriti. Eppure è proprio a quegli anni di guerra e di fame che dobbiamo guardare per comprendere la voglia di riscatto che ha animato la stagione del boom economico e tutta la tensione verso le magnifiche sorti e progressive che ha sorretto le trasformazioni urbanistiche e industriali e gli sviluppi finanziari della seconda metà del secolo.
Le guerre mondiali hanno innescato, su tempi brevi, processi metamorfici inediti e portato a compimento percorsi evolutivi che, con qualche raro bagliore, ma più spesso in sordina, avevano attraversato secoli di storia. Dalle due guerre le donne sono uscite più forti.
Più forti, certamente, sul piano politico: è del 2 febbraio 1945, a guerra non ancora conclusa, il decreto legislativo che previde l’estensione alle donne del diritto di voto; ancora qualche mese e poi, finalmente, il diritto dalla carta si tradurrà in gesto concreto con le prime elezioni amministrative del dopoguerra nella primavera del 1946, fino alla data storica del referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
Forse non più forti, ma certo più consapevoli, sul piano familiare e sociale: le donne che, durante la guerra, con gli uomini al fronte, erano state per tante famiglie l’unica fonte di reddito, intrapresero negli anni del dopoguerra un percorso irreversibile di accreditamento in ambito lavorativo, conquistando, con il diritto ad un lavoro tutelato, anche il diritto all’istruzione.
Eppure qualcosa fermenta
Ci può insegnare qualcosa la storia? Ci può preparare a fare profezia sul presente? Ci può aiutare a leggere i segni dei tempi, i segni del tempo in cui ci ritroviamo immersi – nostro malgrado?
Come cristiani stiamo vivendo il tempo di questa emergenza pandemica come un lungo sabato santo, quando, con Cristo nel sepolcro, la Chiesa si spoglia di segni e gesti liturgici per consegnarsi al silenzio di una preghiera nuda.
Da fine febbraio non abbiamo più potuto vivere la normalità del nostro essere gente “di Chiesa”: niente messe e celebrazioni, niente catechismo, niente prove di canto; niente riunioni di adolescenti e giovani, incontri di preghiera, di famiglie, di giovani sposi, corsi di lettura biblica e di approfondimento spirituale; niente attività di oratorio, niente feste parrocchiali – azzerata per decreto legislativo tutta la straordinaria ricchezza di iniziative attivate in risposta alle aperture conciliari, nel tentativo di andare incontro ad un mondo sempre più lontano e sempre più indifferente alle questioni religiose.
E, in effetti, il coronavirus sembrerebbe non avere fatto altro che svuotare definitivamente le chiese da lungo tempo in sofferenza per i troppi banchi vuoti.
Ma qualcosa fermenta dentro e oltre il vuoto silenzioso del sepolcro. Non solo preti in burnout riattivano le energie che sembravano soffocate dalla routine pastorale; non solo uffici religiosi si prodigano nell’approntare sussidi/surrogati online per permettere ai fedeli di affrontare la privazione di riti. È nelle case che sta succedendo qualcosa di veramente nuovo. Ed è lì che dobbiamo guardare.
La chiesa domestica di cui tanto si è parlato nel postconcilio non è mai stata presenza così viva e necessaria al respiro della Chiesa come nell’ultimo mese. Anziché seguire in modo anonimo la messa trasmessa in streaming o in diretta televisiva, molte famiglie hanno scelto la strada di una creatività preziosissima che ha saputo andare al cuore del vangelo, restituendo freschezza di novità a gesti e parole che, troppo spesso e in troppe liturgie, hanno attraversato le paludi di una sacralità ripetitiva e disanimata, divenendo stantie per eccesso di sacro.
Le chiese vuote hanno generato, nella “gente di Chiesa”, non solo tanta nostalgia, ma anche uno slancio profetico di cui non potremo non tenere conto, “dopo”. Io resto a casa. E nelle case sono accadute storie dal sapore di vangelo.
“Tutto andrà bene”
All’inizio di tutta la vicenda, balconi e messaggi whatsapp si sono colorati di arcobaleni, canzoni e mani di bambini, volti sorridenti di mamme e di papà, di giovani e di nonni, accompagnati dallo slogan “Andrà tutto bene”. Certo, potremmo liquidare questa iniziativa come un’operazione semplicistica, priva di sostanza, un approccio puerilmente ottimista ad una situazione che merita ben altre analisi e ben altre soluzioni. Eppure…
Eppure la storia ci insegna che, nelle vicende del mondo, dei popoli, dei singoli individui, sono i pensieri che muovono la vita, producono scenari, attivano situazioni, innervano l’esistente. La storia ci insegna che la verità non è una somma algebrica, non è il punto di svolta o d’arrivo di una indagine, la logica conclusione di un sillogismo.
I nostri genitori vivevano tempi in cui la disposizione fiduciosa nei confronti della vita era cibo quotidiano, aria da respirare. Per noi è diverso. Noi, cresciuti nelle stagioni del sospetto e delle verità fai-da-te e divenuti grandi nel culto della verità prêt-à-porter, ci troviamo oggi a navigare senza coordinate nelle verità di risulta delle analisi degli esperti, e non abbiamo chiavi d’accesso per aprire le porte del futuro.
Ed ecco che, in questo tempo sospeso del coronavirus, proprio dall’hashtag #andràtuttobene ci arriva l’invito a recuperare alla radice il significato della parola fede. Tutto andrà bene. All shall be well. Nei tempi neri della peste di fine Trecento, Giuliana di Norwich scriveva così, alla luce dell’amore di Dio. I drammi personali si sommavano alla tragedia collettiva, ma Giuliana attraversava la sua storia personale e la storia del suo tempo, tormentato tanto quanto il nostro, e forse più, con il passo sicuro della consapevolezza fiduciosa che genera verità di vita.
Non è un caso che proprio queste stesse parole – “tutto andrà bene” – siano state riprese dall’arcivescovo di Bologna, card. Matteo Zuppi, nella sua omelia della Veglia pasquale. Nelle nostre case, pennarelli colorati alla mano e sorrisi sulle labbra, si è vissuta la sfida di ogni Pasqua: la fiducia nella Vita come radice imprescindibile della fede in Dio. Accompagnare e sostenere i propri figli nella fiduciosa attesa del domani, tenendosi stretti al filo forte della speranza: questo è annuncio di vita e di risurrezione.
Il pane spezzato nelle nostre case
Nelle nostre case, il giovedì santo, quando i cristiani celebrano Gesù pane di vita, mani hanno impastato il pane. Il pane, simbolo del lavoro umano di trasformazione del mondo: il mondo si trasforma in cibo che nutre e diventa creazione di Dio. Creazione che sempre si ripete nel lavoro dell’uomo, dicendoci che il mondo non è un oggetto da depredare, ma un regalo di Dio, un soggetto vitale.
Il giovedì santo, mani di padri e di madri hanno fatto sacramento del pane lavorato e spezzato in casa, in memoria di una Presenza mai così reale e presente, una Presenza palpabile perché divenuta vita, vita vissuta con gioia e scambiata nell’amore. Nelle nostre case, l’amore ha trovato parole di benedizione reciproca, e di consolazione nel dolore del lutto e della lontananza.
Un tempo, se un bimbo appena nato si trovava in pericolo di vita poteva essere battezzato dall’ostetrica che aveva assistito al parto. Oggi, al tempo del coronavirus, negli ospedali medici ed infermieri sono stati autorizzati a tracciare segni di benedizione sui morenti, accompagnandoli con una preghiera forte come un viatico.
Uomini e donne “normali”, senza stole e senza paramenti, hanno benedetto la vita e hanno benedetto la morte: che ne sarà di tutto questo, dopo? Lo liquideremo solo come stato di emergenza dovuto al coronavirus?
La riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha parificato il ruolo dei genitori liberando la madre dalla sua funzione giuridica subordinata, affonda le radici in molti passaggi storici precedenti. Non ultimo il fatto che molte donne il ruolo di capofamiglia se lo erano conquistate sul campo, durante la guerra. Le norme giuridiche faticano a tenersi al passo con la vita concreta, lo sappiamo. Forse, chissà, tra venti-trent’anni le intuizioni del Concilio troveranno nuove strade e nuove forme per esprimersi anche sul piano della norma canonica. Forse.
Fiducia nel sacerdozio battesimale
Ma, forse, senza aspettare passivamente che sia la storia a travolgerci con le sue ragioni e le sue urgenze, potremmo noi, oggi, assumere queste ragioni e queste urgenze con consapevolezza storica e spirito profetico. Potremmo noi farci attori, soggetti attivi, promotori di quelle trasformazioni chiamate, con la forza imperiosa dello Spirito, da questo tempo che stiamo attraversando.
Il tempo del coronavirus ci ha insegnato che le mani dei padri e delle madri, dei dottori e delle dottoresse, degli infermieri e delle infermiere – delle donne, sì, anche delle donne – sono capaci di gesti sacramento.
Per questo, dopo il coronavirus, più che di un palingenetico Giubileo che, facendoci tutti salvi, ci ributti nelle acque note della tradizione, credo che avremmo bisogno di rileggere con vera apertura di spirito le parole del capitolo 7 del Vangelo di Marco. Abbiamo reso korban troppe cose, nella vita della Chiesa. Anche lo stesso sacerdozio. La dignità sacerdotale del popolo cristiano è stata per troppi anni (secoli?…) una parola vuota, mentre il ministero sacerdotale si è reso spesso ricettacolo di un clericalismo duro a dichiarare la propria sconfitta. Un clericalismo incistato nella pelle della Chiesa e depositario di logiche di potere che questo lungo sabato santo potrebbe aiutarci a scardinare, aiutandoci a fare profezia di ciò che è accaduto e di ciò che sta accadendo.
Il tempo di questo sabato ci mette il vangelo dentro mani sempre più nude e vere. Da lì dobbiamo ripartire. Allora sarà bello cantare con Miriam il canto di liberazione, quando dal sepolcro del sabato uscirà la luce di un giorno nuovo.
Molto bello questo articolo. E anche noi condividiamo la speranza che queste esperienze “casalinghe” non finiscano con la fine dell’epidemia ma possano continuare come esperienze di una chiesa che si apre e che prende coscienza, concretamente, del Vangelo dove si legge: “dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18,20).