«Il cristiano non incontra il povero solo come un bisognoso, ma lo libera dal bisogno per renderlo un fratello!»: attorno a queste parole ruota il pensiero di mons. Franco Giulio Brambilla nella lettera pastorale per l’anno 2023-24 “Chi è il mio prossimo? La sapienza della carità evangelica”.
Se la carità è la prima chiamata della Chiesa, come segno e riflesso dell’identità di Dio, cosa significa oggi rispondere a questo appello dentro la cultura contemporanea? E quali sono le possibilità e le tentazioni per una parrocchia nelle sue forme odierne? In altre parole, una comunità cristiana può ancora parlare della vicinanza di Dio agli uomini e alle donne di oggi e in che modo?
La lettera segue la narrazione della parabola del buon Samaritano, come «mappa per un percorso sulla carità», in sette tappe. È così che viene mantenuta viva la tensione fondamentale tra il desiderio di felicità e di pienezza che abita ogni persona, e il dono inaspettato e sovrabbondante di Gesù: «bisogna dirlo francamente, la carità è una forma del comandamento di Dio e della vita autentica dell’uomo».
Una mappa della carità
Primo. Se la Chiesa viene apprezzata e cercata per i suoi servizi caritativi, dentro una società dei bisogni, ciò non toglie l’importanza di vigilare su una duplice strumentalizzazione: quella di usare il bisogno per altri scopi e quella di scambiare la comunità cristiana per stazione di servizi. Quel tale, definito semplicemente “uomo”, dice che, alla base della carità cristiana, stanno la gratuità dell’agire e l’universalità dei destinatari. Si fa per tutti, senza chiedere nulla in cambio, nemmeno la fede: questo è Dio.
Secondo. L’attenzione a tutti chiede discernimento (senza rivestire di magia questa parola). È necessario un metodo «comunicabile a tutti», che aiuti a custodire almeno due movimenti: la comprensione cristiana in sintesi di ciò che sta accadendo dentro la cultura e lo spazio sociale; un giudizio storico e concreto su ciò che, qui e ora, sta interrogando una comunità nel suo territorio. «La Chiesa è comunità dalla carità perché non è padrona, ma serva e dispensatrice di una realtà che, venendo da Cristo, è più grande di essa e va oltre essa»: per questo può abitare lo spazio umano riconoscendo i protagonisti della carità anche oltre i gruppi parrocchiali ma, allo stesso tempo, offrendo il coraggio della denuncia «fino alla ricerca delle cause», dove la vita umana è messa in pericolo. La fonte è l’eucaristia: tutte le strutture e le espressioni della vita pastorale vanno ridefinite a partire da essa. È quel Pane, troppe volte sentito come scontato, che può ancora aiutare a ripartire da Dio.
Terzo. Davanti al dolore, non sono sufficienti né la rassegnazione passiva (favorendo l’immagine di un cristianesimo che consacra la sofferenza) né la resistenza attiva quale impegno etico (ci sono sofferenze che non posso essere accolte come compito per un cambiamento del mondo). «Alla radice delle due prospettive sta un errore comune: la fuga dell’uomo moderno dinanzi al significato del patire». Qui entra la differenza cristiana: una mano, un cuore, una presenza discreta, che aiuta a portare il peso dell’enorme solitudine che il dolore provoca sulla persona. Le parole della lettera evocano nel lettore anche l’ambito del lutto, che non si può ridurre solamente ad una forma celebrativa legata al presbitero, ma chiede la creatività di figure ministeriali umili e credenti, capaci semplicemente di esserci lì dove il vuoto si fa insopportabile, testimoni credibili di Dio.
Quarto. La presenza/assenza del sacerdote e del levita «contesta tutte le nostre assolutizzazioni e false alternative tra Dio e il prossimo». Non si può assolutizzare una pratica rispetto ad un’altra, perché «l’assoluto è l’uomo che vive nella comunione con Dio, l’uomo che pratica il culto e la carità nello Spirito di Gesù». Come un parroco chiosava con grande saggezza, è bello pensare che quel Samaritano sia andato poi a cercare il sacerdote e il levita: di fatto, Dio fa così.
Quinto. I gesti del Samaritano descrivono il cuore di Dio. È qui la fonte: «senza il riconoscimento dell’origine della nostra missione nella carità di Dio, tutto il nostro servizio sarebbe ben povera cosa». E le conseguenze si vedono: mentre la solidarietà risponde ad un bisogno, «la carità cristiana si inoltra a fare del bisognoso un uomo che risponde consapevolmente e liberamente a quel mistero di cui non siamo padroni, ma solo testimoni».
Sesto. Il vino e l’olio evocano le forme della carità. L’autore ne esprime cinque: la testimonianza dell’amore fraterno nella comunità cristiana; la testimonianza della prossimità verso gli ultimi; l’animazione sociale; il discernimento spirituale-pastorale; l’impegno politico. Le esplicitazioni toccano da vicino la vita di una parrocchia (per esempio, nella destinazione dei beni delle comunità e delle persone, destinazione che chiede una «severa e coraggiosa riforma»; così come nella necessità di lavorare come Unità Pastorale Missionaria, perché proprio il servizio a chi ha più bisogno aiuta a superare confini ormai troppo stretti). Particolare attenzione è data al discernimento concreto delle situazioni: «è un fatto tipico della società italiana la mancanza di una vasta area che medi tra il momento delle relazioni brevi interpersonali e il complesso delle relazioni sociali, purtroppo sovente egemonizzate dalla politica». Il riferimento a Ricoeur, Paolo VI e Martini accompagna la riflessione.
Settimo: l’eccedenza dei denari. È dato riconoscimento ai tantissimi testimoni silenziosi che si fidano dell’invito di Gesù, “Abbi cura di lui”, senza paura del costo (paura che, in fondo, nasce dalla presunzione di essere salvatori e non amministratori). La preghiera e la meditazione della Parola, oltre che l’eucaristia, danno al credente il coraggio di non cercare tanto la carità che lui riesce a produrre, ma quella che «egli riconosce nel suo Signore». «Non è possibile pensare ad una società giusta, nella quale venga meno il bisogno della carità»: parole che fanno eco al pensiero profondo di Benedetto XVI in Deus caritas est.
Una sfida molteplice
In conclusione, la carità chiede intelligenza («Dio ci scampi dalle persone troppo generose!»); è disponibilità a lavorare dentro un progetto comune («altrimenti non si può allontanare il sospetto che anche l’impegno più forte sia fatto per sé stessi, per gratificarsi»); è fonte per la Chiesa, perché anche la comunione fraterna è carità.
Una lettera che sfida cultura, politica, organizzazioni di servizio, volontariato, comunità cristiane attorno ad un tema centrale per tutti. Il dialogo che può generare diventa servizio per la vita umana, secondo la figura dell’umano che il buon Samaritano continua a narrare.