I nuovi linguaggi multimediali hanno un ruolo significativo nella cultura attuale e nella pastorale giovanile e si sono mostrati nelle loro potenzialità e limiti, in modo peculiare, durante l’emergenza causata dalla pandemia di Covid-19.
Approfondiamo l’argomento con Assunta Steccanella, docente di Teologia pastorale, e con don Lorenzo Voltolin, docente di Comunicazione, che da ottobre prossimo coordineranno il seminario-laboratorio di teologia pastorale del ciclo di licenza della Facoltà teologica del Triveneto, dal titolo “I nuovi linguaggi della fede. Una pastorale inedita dall’esperienza del Covid-19”.
– Partiamo dalle prassi pastorali e rituali già in atto. A che punto siamo?
In realtà, le prassi in atto sono ancora poche. In un recente passato l’Ufficio per le comunicazioni sociali della diocesi di Padova aveva proposto, ad esempio, un accompagnamento multimediale indirizzato agli adulti, #Unattimodipace; un’esperienza originale rispetto ad altre più estemporanee, affidate prevalentemente alla creatività di qualcuno.
Il limite maggiore è rappresentato però dall’attestarsi di molte proposte soprattutto sulla funzionalità dei linguaggi multimediali, intesi come semplici strumenti di regìa e considerati quasi “neutri”. Essi rappresentano invece un prolungamento dei sensi del corpo dell’uomo, e quindi hanno implicazioni profonde a livello sia del soggetto che ne usufruisce che dell’oggetto che intendono mediare.
– Qual è il “grado di efficacia” dei linguaggi multimediali?
Proprio perché intimamente collegati alla persona che li accosta, i new media non hanno un’efficacia indipendente e automaticamente definibile. Quando sono ancorati alle funzionalità ergologiche del corpo, però, garantiscono una performance assolutamente superiore a quella dei “normali” media.
– Qual è allora il loro rapporto con le dinamiche del corpo?
Nonostante noi vediamo gli strumenti materiali che rendono possibile la trasmissione del messaggio (computer, tablet, telefonini, ma anche radio e televisione) come oggetti esterni a noi, in realtà attraverso di essi viene raggiunta l’intimità della persona. Nell’usufruirne è implicata la vista, l’udito, il tatto attraverso la tastiera o ancor più il touch screen, e i messaggi giungono al cervello trasportati da stimoli elettrici che ne veicolano il contenuto.
Vita digitale
La vera “rivoluzione digitale” non sta quindi, come comunemente inteso, nell’utilizzo diffuso di alcuni media che tecnologicamente sono più avanzati dei precedenti, piuttosto nel fatto che questi nuovi mezzi sono estensioni del corpo che, con l’evolversi dell’hardware, saranno capaci di riprodurre tutte le facoltà estetiche, includendo quelle emotive, volitive, intellettive, nonché spirituali. Le implicazioni non solo pastorali sono enormi, e chiedono ulteriore studio.
– L’esperienza del Covid-19 come sta cambiando tutto questo?
L’emergenza scatenata dalla diffusione del Covid-19 ha obbligato lo spostamento di molte attività umane dall’ambito della “presenza reale” a quello della “presenza virtuale”. Se, in prima battuta, emergono le inevitabili difficoltà nel riassettamento di un sistema, d’altro canto, si presentano anche le grandi possibilità e i molti limiti dell’esperienza virtualizzata.
È quindi essenziale un serio lavoro di riflessione su tali dinamiche, per due motivi: le prospettive temporali dell’interazione coi new media si fanno sempre più ampie, e quindi la qualità di questa interazione deve essere affinata e promossa; in secondo luogo, queste prassi non potranno semplicemente essere accantonate alla fine dell’emergenza ma saranno diventate un canale di evangelizzazione specifico, non sappiamo ancora quanto diffuso ma certo permanente.
– La progettazione pastorale come può/deve tener conto di questi nuovi elementi?
Prima ancora della progettazione pastorale, è la riflessione teologico-pastorale – e teologica tutta – che non può ignorare questi nuovi elementi, per offrire coordinate al magistero. Basti ricordare che, se la Rivelazione è ergologica (Dio si dà in un corpo), la sua recezione non può che essere estetica (avviene attraverso la conoscenza sensibile). I new media si fondano sui sensi estetici, e li amplificano. Strutturano però uno spazio “intermedio”, che non va confuso con la realtà in sé e che è capace di produrre esperienze, di modificare scelte, di orientare la società, di incidere sulla trasmissione della fede.
Non offrono quindi una semplice illusione, un “artefatto”, ma, se impostati correttamente, strutturano un ulteriore e nuovo spazio esistenziale, collocato tra il potenziale e la realtà tout court. Questo chiede un deciso investimento di ricerca e di azione per promuovere una sorta di “inculturazione multimediale” del Vangelo, capace di contribuire a evangelizzare la cultura attuale.
– Qual è il rapporto con le neuroscienze?
Media e neuroscienze, in estrema sintesi, si fondano entrambi sulle dinamiche del corpo e hanno l’elettricità come medium. I new media stanno alle relazioni inter-corporee come le neuroscienze stanno alle relazioni intra-corporee.
Comunità e virtualità
– Rete comunitaria e rete virtuale: quale intreccio? E quali sono gli scenari nuovi e inediti che si aprono per la pastorale?
Per scongiurare il rischio di scivolare nell’illusione e nella non-realtà, una virtual community deve sempre essere collegata con il referente fisico della comunità reale, fatta di corpi che realmente s’incontrano. Questo delinea scenari nuovi per la prassi pastorale: nell’imminente si può ipotizzare un prolungamento virtuale, cioè estetico, della comunità stessa, ad esempio attraverso un rito, una catechesi, che garantiscano un collegamento con la comunità e si estendano nelle case.
È possibile fare alcuni semplici esempi: il parroco, al termine di un momento di preghiera, può conferire il mandato di benedire la famiglia, o il pane della mensa, o proporre di comunicare in chat le intenzioni della preghiera da condividere con tutti. Si tratta di attivare un canale a due direzioni, in e out, un po’ come succede con le conference calls, perché chi partecipa lo faccia sentendosi collegato anche concretamente con la propria comunità.
– I new media offrono possibilità prima sconosciute (o pochissimo usate) per raggiungere persone (anche grandi numeri di persone) che non sarebbero stati raggiunti altrimenti… ma l’approccio virtuale è sufficiente?
Gli strumenti in quanto tali vanno compresi per quello che sono e per quello che possono fare, quindi anche per quanto non possono fare. Raggiungere istantaneamente più persone in diversi punti del globo è senza dubbio uno dei vantaggi sul fronte della missione, dell’annuncio kerygmatico, come pure è evidente che ciò non è sufficiente ma semplicemente un fattore di opportunità maggiore. Tuttavia non è neppure questo l’apporto più rilevante della “rivoluzione digitale”, e sarebbe un errore concentrare solo su di esso la nostra attenzione.
Piuttosto proprio perché agiscono sulla grammatica del corpo, la loro potenziale, amplissima diffusione va abitata e gestita in modo consapevole. In caso contrario, paradossalmente, attraverso i new mediail Vangelo potrebbe davvero raggiungere tutti senza evangelizzare nessuno.
– Un’antropologia e una teologia del corpo come incidono nella ricerca teologico-pratica?
Qui si va a toccare il rapporto rivelazione/fede, e quanto la teologia, o meglio un’ergologia teologica, abbia da dire non solo alle scienze comunicative ma anche all’epistemologia. Il cristianesimo è infatti la religione dell’incarnazione, un dato originario di cui forse non abbiamo tenuto conto a sufficienza per un certo tempo della nostra storia.
Oggi non è più così, in teologia e nello specifico in teologia pastorale: l’antropologia e la teologia del corpo sono sostanzialmente un nodo cruciale della disciplina, oltre che lo sfondo indispensabile su cui si struttura l’utilizzo ragionato dei new media.
– In un momento in cui la realtà virtuale pervade la vita contemporanea che cosa significa scrutare i segni dei tempi?
Chenu, il teologo dei segni dei tempi, li descriveva come una trama intrecciata di fatti, che si verificano per opera dell’uomo, nei quali si percepisce uno iato, una sorta di balzo piccolo o grande, nel sentire comune. Questo iato, questo spazio dischiuso e sorprendente, chiede di essere colto e abitato consapevolmente. Chenu affidava alla Chiesa come popolo di Dio il compito della lettura teologica dei segni dei tempi, ossia dell’interpretazione dell’appello di Dio che in essi risuona. Oggi crediamo sia possibile affermare che la pandemia ha dischiuso un simile iato, almeno nella cultura occidentale ammalata di onnipotenza: il senso della fragilità umana e della comunione di destini si è fatto vivo, forse come non mai in tempi recenti.
Pastorale a venire
Come Chiesa non possiamo che cercare insieme modi per abitarlo e seminarvi la buona notizia del Vangelo, con tutti i mezzi che la sensibilità di ciascuno potrà individuare (non quindi con un solo strumento, non solo attraverso i new media). È però un compito da svolgere sinodalmente, laici, religiosi, ministri ordinati, uomini e donne, giovani e anziani. Anche questa sarà una dimensione che finalmente impareremo a incarnare.
– Viviamo in una agorà nuova e attiva, che è frequentata e che interroga. Come non farsi trarre in inganno dal potere e dalla rapidità dei new media?
È un rischio presente, di cui vediamo continue manifestazioni nelle intemperanze dei social, nel proliferare di fake news, nell’infodemia (epidemia di informazioni) che ci assilla. L’antidoto, dal versante che a noi interessa, consiste proprio nel mantenere il collegamento con la comunità reale. L’aggancio al referente fisico è un poderoso strumento di realismo, che offre consistenza al virtuale e toglie spazio tanto all’illusione di onnipotenza che all’individualismo, che esso tenderebbe a instaurare se vissuto solo passivamente, e da soli.
– Come integrare questa sorta di “pastorale d’emergenza” che stiamo vivendo (dove si tratta di esserci, con creatività ma anche con solidità) nella più ampia pastorale in presenza (che comunque non potrà più essere la stessa), senza perdere ciò che di positivo questa esperienza ci ha fatto scoprire? Come potremo continuare a “stare nel nuovo” riconvertendoci per i nuovi scenari?
La domanda è nevralgica. In questo tempo si intrecciano sensibilità diverse, a causa di condizioni diverse, non solo tra il popolo di Dio ma anche dentro la comunità teologica: c’è chi cerca di abitare il presente con tutte le sue provocazioni e considera che, data l’evoluzione veloce e continua delle cose, sia il caso di spostare alla fine dell’emergenza ogni tentativo di progettazione; c’è chi è immerso nel dolore e nella fatica e chiede semplicemente la forza per vivere questa croce, nella preghiera e nel silenzio; c’è chi gode di condizioni di relativa tranquillità e si propone di iniziare fin da subito a individuare delle coordinate per il domani.
Nessuno però ha “la” ricetta: ciò che conta è attivare le energie disponibili, nei tempi, nei luoghi e nelle forme in cui a ciascuno è possibile, per preparare il terreno a un ripensamento dell’azione ecclesiale di oggi e del futuro. Insieme è possibile trovare una strada verso quella conversione pastorale che invocavamo da tanto e che adesso ci viene imposta dalla storia.
– La Chiesa non potrà esimersi dal rigenerarsi anche “dal basso”, dalla realtà storica e sociale…
Gaudium et spes, al n. 44, recita: «Come è importante per il mondo che esso riconosca la Chiesa quale realtà sociale della storia e suo fermento, così pure la Chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dall’evoluzione del genere umano […]. È dovere di tutto il popolo di Dio, soprattutto dei pastori e dei teologi, con l’aiuto dello Spirito Santo, ascoltare attentamente, discernere e interpretare i vari linguaggi del nostro tempo, e saperli giudicare alla luce della parola di Dio, perché la verità rivelata sia capita sempre più a fondo, sia meglio compresa e possa venir presentata in forma più adatta». Un dettato quanto mai attuale.