Nel programma della Conferenza episcopale italiana, secondo le parole del vescovo Zuppi, è prevista come tema centrale la “formazione”. Vorrei entrare su questo argomento, che ritengo fondamentale, partendo da una domanda: quale formazione?
Oggi è il tempo del sale
Vorrei continuare la mia riflessione sulla “luce e il sale” pubblicata in SettimanaNews del 13 dicembre 2021 (qui). In quella pagina ho cercato di immaginare il futuro della Chiesa come l’azione del sale, nel senso che dovrà agire in modo prevalentemente silenzioso, senza apparenze, concreto, spinto da profonde motivazioni. Questa modalità va in controtendenza rispetto alla fase storica che abbiamo vissuto finora: abbiamo privilegiato la luce, provocando il distacco, l’apparenza, l’esibizione, i ruoli e il protagonismo.
Tornando alla “formazione”, credo che finora questa azione essenziale della Chiesa sia sempre stata vissuta con lo schema della “luce”, cioè con il metodo scolastico. Un mio amico mi ha riportato una battuta simpatica: «La Chiesa, per stare in piedi, ha bisogno di stare sempre seduta!». Qual è il senso di questa battuta? Abbiamo inteso la “formazione” come educazione del sapere da apprendere utilizzando il metodo didattico: riunioni su riunioni, convegni, creazione di eventi, corsi e ricorsi, anni catechistici, serate formative, settimane formative, esercizi spirituali, scuola biblica, scuola della Parola…
Dietro questo metodo si nasconde un volto di Chiesa che – a mio parere – ha poche prospettive e poca speranza. Una cosa è certa: basta guardare l’angoscia di chi è alla guida delle comunità e che è costretto a misurare i numeri sempre più ridotti dei partecipanti a questi appuntamenti e accorgersi, nello stesso tempo, di rimanere sempre più imprigionato in uno schema che sembra, purtroppo, come l’unico ancora percorribile.
La mia esperienza di cappellano del carcere
Sono arrivato a queste riflessioni dopo aver vissuto per 35 anni in parrocchia (15 da cappellano e 20 da parroco) e dopo che, da nove anni, ricopro il ruolo di cappellano nel carcere di Vicenza. Mi son fatto questa domanda: “Qual è il mio compito come cappellano in un Istituto carcerario?”.
Secondo la tradizione e i canoni, dovrebbe essere quello della rappresentanza religiosa come cristiano cattolico, responsabile dell’evangelizzazione e celebrante di tutti i riti.
Più il tempo passa, più mi sto accorgendo che il mio compito è cambiato: da un’azione fatta di interventi individuali o di gruppo rivolti esclusivamente ai detenuti, a un’azione verso tutto l’ambiente carcerario, affinché diventi sempre più “ambiente formativo” e non “ambiente punitivo”. La mia missione è che tutti coloro che sono qui internati possano utilizzare questo tempo di pausa come momento di riflessione e quindi di ripartenza.
Sono convinto infatti che il carcere debba essere, almeno per la maggioranza degli internati, un’opportunità, in particolare per coloro che non hanno mai conosciuto il bene e che, quindi, è come se non fossero mai nati interiormente. Il tempo di detenzione potrebbe diventare come un secondo grembo per rinascere.
Immaginate, per esempio, chi ha avuto genitori tossicodipendenti: come potete pretendere che abbiano una base etica? Quando costoro arrivano in galera, possono, finalmente, conoscere le prime cose positive della loro vita e, in tal modo, possono iniziare il cammino sulla strada dei “figli di Dio”. Qui possono incontrare il bene! Almeno qui! Il bene però dev’essere respirato e non insegnato con la didattica.
Per arrivare a questo, bisogna che tutto l’ambiente diventi formativo: dagli agenti agli educatori, dal direttore e dagli ispettori al personale sanitario, dagli insegnanti ai volontari, fino al cappellano, che può inserirsi in questo contesto con la proposta del mistero/progetto chiamato “Gesù di Nazareth”.
Per questo, io non mi relaziono solo con i detenuti, ma con tutti quelli che ho appena nominato, proprio per rendere fertile il terreno dentro il quale poter deporre il seme dell’eternità e così permettere a chi ha conosciuto solo il male di incontrare il bene.
Creare una “relazione d’amore” con le persone
Quello che vale per il carcere, deve valere anche per ogni comunità cristiana, piccola o grande che sia. Bisogna creare ambienti educativi, dove la domanda di senso, e quindi di Dio, nasca spontaneamente. Non si può insegnare Dio! Dio si può solo sperimentare e, solo dopo, sarà possibile anche scoprirlo, conoscerlo, fino ad accorgersi della sua traccia nella vita di ciascuno.
La parola chiave è “relazione d’amore”.
Viviamo in un’epoca dove l’individualismo si sta allargando a macchia d’olio. È per questo che attorno a noi c’è tanta solitudine. Non solo: c’è anche paura e sospetto verso tutti coloro che non vengono percepiti in sintonia.
La relazione d’amore è fatta di presenza, di sguardo attento, di ascolto, di conoscenza, di pazienza, di accettazione. Una simile modalità produce fiducia, accoglienza, integrazione, fino ad aprire la porta all’incontro con Dio, senza l’angoscia della catechesi.
Il futuro abita soprattutto nelle relazioni, nelle relazioni d’amore. Quelle semplici, quotidiane, apparentemente banali e troppo spesso date per scontate, come educare i bambini alla convivenza, alle regole, al rispetto per l’altro, al “saper perdere”, ad aiutare il più fragile, ad aspettare il più debole, ad accogliere come fratello quello che ha un colore della pelle diverso… Tutto quello che veniva insegnato nel vecchio e oggi quasi dimenticato oratorio e che diventa parte integrante di una “comunità formativa”.
In questo momento, il compito dei cristiani è quello di distinguersi non tanto con la dottrina o con lo sbandieramento rumoroso dei valori non negoziabili, ma con la relazione d’amore.
«All’interno di un paese e di un quartiere, la parrocchia, la comunità cristiana, sarà semplicemente il cuore!», possiamo dire parafrasando santa Teresa di Gesù Bambino. Chi può farlo, se non noi cristiani? Chi pretendiamo di evangelizzare se alle spalle non c’è un clima di reciproca accettazione e di stima?
Pensiamo alla povera catechista, che deve fare sacrifici enormi per essere presente e preparata ogni settimana all’appuntamento con i ragazzi e che, per un’ora, non deve far altro che ripetere: “State buoni!”, “Rimanete in silenzio!”, “State seduti!”. Alla fine di questo calvario, cosa rimane? Solo l’incubo di un’ora vissuta come una persecuzione. E la chiamiamo evangelizzazione!
Non sarebbe più opportuno condurre quel gruppo di ragazzi in oratorio a giocare e a cercare di condividere le regole del rispetto e dell’accettazione? Non sarebbe meglio mettere un educatore preparato per questo e, alla domenica, invitare le famiglie in chiesa per la messa e (non sempre, ma qualche volta nell’anno) dedicare una mezz’oretta prima o dopo la celebrazione per un po’ di catechesi tradizionale e insegnare ai ragazzi le lezioni tratte dal Vangelo? In trenta minuti si potrebbe ottenere (se il catechista è preparato) quello che si riusciva a portare a casa in un mese con il metodo tradizionale.
Se non si cambia schema…
Se guardiamo alle proposte che vengono avanzate per tentare di uscire dallo stato comatoso delle nostre parrocchie, vediamo che sono tutte incentrate sugli attori della pastorale. Così ci si concentra sul futuro dei presbiteri, sul celibato sì o no, sul ruolo dei religiosi, sul diaconato permanente, sui nuovi catechisti…
Ma la domanda da farsi è più radicale: “per fare cosa?”. Mai che si metta in dubbio la modalità corrente, fatta solo di appuntamenti, riunioni, eventi e chiese vuote con canoniche sbarrate. Canoniche che rischiano di essere consegnate ad enti terzi, magari per impedire un utilizzo più consono e collegato alla comunità. Le canoniche (dove esista un minimo di comunità) devono rimanere il cuore di una parrocchia e completamente a disposizione della comunità.
Ho fatto l’esempio dei bambini e dei ragazzi, ma potremmo allargare lo sguardo sui giovani, sulle famiglie che stanno scoppiando, sugli anziani soli…
Abbandoniamo quindi la formazione tradizionale? domanderà allarmato qualcuno. No, certo. Alcuni tratti della formazione tradizionale sarà possibile riprenderli in mano, ma solo dopo aver sperimentato la bellezza di una “relazione d’amore”.
Carissimo Gigi,
grazie del tuo intervento. Quello che dici sul carcere è sconvolgente: da una parte è chiaro che dovrebbe essere così, dall’altra è altrettanto chiaro che non lo è. Il carcere dovrebbe fare incontrare quel bene sconosciuto nel percorso di vita fatto, essere un secondo grembo per rinascere. Questo non è considerato adeguatamente nella mentalità corrente, nelle istituzioni e nelle leggi. I libri su cui studiamo fanno fatica a rinnovarsi e ad abbandonare la logica delle catene, ma quello che dici per chiunque lo legga è un segno importante per la liberazione del cuore. Si, perché, il nostro cuore non si arrende mai completamente al meccanismo e al conformismo della mentalità corrente in cui è costretto a vivere, il nostro cuore ha bisogno di una relazione d’Amore. Grazie Gigi.
Complimenti all’autore di questo articolo che mi piacerebbe invitare a scuola. Tocca un problema cruciale: una modalità di essere e di agire in quanto Chiesa ormai fuori contesto. Tanto più che, dopo tanti convegni, dopo tante riunioni, alle quali ho preso parte anche io, sentire la solita minestra più o meno riscaldata è avvilente, anche se a prendere la parola è il noto biblista o il grande relatore. Ci vorrebbe forse più umiltà. Per fare un esempio la signora anziana che va a Messa ogni giorno sa riguardo al Vangelo di più del noto biblista semplicemente perché lo pratica. Perché lei non potrebbe prendere la parola a questi convegni? Perché non ha letto l’ultimo libro dell’esegeta di fama internazionale? Più umiltà!!
Sulla inefficacia della pastorale scrissi a suo tempo: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/11/cattolicesimo-borghese5.html