Pastorale e immaginazione

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Forse la questione del distacco dal Vangelo e dalla fede non si risolve semplicemente attraverso un agire pastorale che oltrepassi le strutture territoriali per privilegiare i piccoli gruppi, o le piccole comunità elettive di condivisione di vita, o di spazi da redistribuire nella definizione di nuove ministerialità, alcune delle quali certamente auspicabili.

C’è un di più di creatività da liberare, perché non ci si limiti a fare come si è sempre fatto, restando attaccati disperatamente al già noto per fuggire la fatica di pensare. Una pastorale stanca e ripetitiva non porta da nessuna parte e, soprattutto, non porta le persone al Signore, per quello che almeno dipende da noi. Ma anche una pastorale frizzante e innovativa ad ogni costo non è detto che apra vie di autentica comunicazione con la vita della gente.

La voglia di riflettere

L’équipe di Siusi (BZ), che da 35 anni organizza una “Scuola per formatori all’evangelizzazione e alla catechesi”, si è trovata ad Asolo nei giorni 3-7 agosto per provare a individuare alcune attenzioni da consegnare agli operatori pastorali, ai catechisti e ai consigli parrocchiali. Né è nato un confronto ricco che si tradotto in un libro recentemente pubblicato: Immagina, puoi![1]

Con l’evangelista Giovanni ci siamo detti che la novità può venire solo dall’ascoltare, dal toccare, dal vedere e dal comunicare. Quell’ascolto della vita delle persone e della parola del Signore. Perché la parola del Signore ci viene incontro nella vita, tra le pieghe della storia, nelle vicende di chi ci sta accanto, così come in quello che accade mille miglia lontano da noi.

Ci siamo messi nella condizione di coglierne la prossimità di Dio, la sua presenza, custodendone “l’estraneità”: perché un Dio “straniero” è il Dio che viene e che chiede di essere accolto, senza poter essere consumato, senza essere ridotto a vessillo identitario.

Nelle proposte di annuncio in questi anni abbiamo forse troppo insistito o solamente sulla trascendenza di Dio, rendendolo altissimo onnipotente e irraggiungibile, per poi identificarlo nella sua altezza con la pretesa di perfezione delle nostre formulazioni teologiche. Oppure ci siamo limitati a delinearne una sua immanenza spesso appiattita ad una umanizzazione fine a se stessa.

E abbiamo dimenticato che il Signore è più vicino a noi di quanto possiamo immaginare e che è vicino a ogni essere umano. «Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo. Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del cielo» (Gen 28,17). «Vicino a te è la Parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore» (Rm 10,8).

Abbiamo dimenticato che la trascendenza di Dio è «trascendenza nelle cose» e «nella persona umana». È per questo che ad Asolo ci siamo detti che quello che dobbiamo fare è, innanzitutto, vedere la realtà «come è», per poi interrogarci sul «come dovrebbe essere» e, infine, mettendoci in moto in prima persona perché il cambiamento avvenga.

Se assumiamo una prospettiva di lungo periodo, scopriremo inaspettatamente che le cose possono cambiare. La sensazione di speranza che pervade le comunità nel momento in cui l’ordine crolla e bisogna rimboccarsi le maniche per tirarsi fuori dai guai, è una sensazione più forte e seria della felicità.

Quando si è messi alla prova, ci si risveglia dalle distrazioni di ogni giorno, si vedono con occhi nuovi le persone, si capisce non solo quanto le cose dipendano le une dalle altre, ma anche quanto sia urgente che possano e debbano cambiare. La speranza ha bisogno della pazienza, quella del contadino che pianta un albero e sa che servirà tempo per assaggiarne i frutti.

La porta aperta all’ignoto

La mancanza di speranza viene insegnata attivamente da numerosi protagonisti della vita pubblica. Ci dicono che siamo al mondo per perseguire i nostri interessi, che non si deve per forza dare valore a ciò che non si può possedere o utilizzare. Sembra normale incoraggiare a pensare a cose senza spessore. In tal modo l’egoismo porta all’isolamento e l’isolamento al disimpegno. È una visione riduttiva di ciò che significa essere umani. Per questo, nel nostro confronto, abbiamo sentito che è importante lasciare la porta aperta all’ignoto, e al non chiaro, perché, quando ci si perde, si ha l’opportunità di trovare le cose importanti, e probabilmente la via.

Dal momento che siamo tutti figli del nostro tempo plasmati dalla percezione laica della realtà, anche noi cristiani, se vogliamo vivere coerentemente, dobbiamo riflettere sul modo in cui la luce della fede illumina tutto quello che facciamo e siamo. Nulla di umano è estraneo a Cristo. Ciò che spegne la fede in Dio non sono tanto l’ateismo o il secolarismo, ma quello che p. Adolfo Nicolas, ex generale dei Gesuiti, ha definito «la globalizzazione della superficialità».

Chiunque, di qualunque fede o anche di nessuna fede, affronti la complessità dell’essere umano, la fatica di perdonare, l’attraversamento di una crisi, il tentativo di dare un senso alla propria vita, è nostro alleato. Se prestiamo attenzione alla saggezza di questi nostri alleati, c’è la possibilità di trovarli aperti alla ricchezza della fede. Se vogliamo essere rilevanti per i nostri contemporanei, è necessario fare piazza pulita dei pregiudizi su ciò che i cristiani credono.

L’attenzione sull’apertura offre un cammino che aiuta a superare la polarizzazione, che tanto ferisce la Chiesa, tra conservatori e progressisti, cristiani cosiddetti “di sinistra” e tradizionalisti. Riesce più facile mantenere viva un’immaginazione religiosa fervida quando si vive a stretto contatto con il ciclo annuale della miracolosa fecondità della natura. Lo stesso vale per chi vive in una comunità che dà valore alle arti, alla poesia e al canto. Insomma, è importante lasciarsi contaminare da tutto ciò che è bello e genera pensiero e non inutile contrapposizione.

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Oltre il risentimento

Pare a molti che la Chiesa non riesca più a mostrare e a raccontare una storia che è storia sacra, storia di salvezza. C’è chi vorrebbe che si sapesse sempre definire e distinguere tra buoni e cattivi. In tempi di cambiamento e fatica è quasi del tutto comprensibile che un certo risentimento prenda piede tra i credenti. Quando, tuttavia, diventa predominante, la strategia del risentimento produce effetti devastanti.

C’è il rischio di partire da un discorso sempre negativo, sprezzante sulle cose oggi di moda. Si persiste nel voler ad ogni costo appesantire la vita di tutti con una precettistica rigida, nel voler fare ancora assegnamento ai sensi di colpa, nel voler mettere tutti in una costante posizione di debito nei confronti dell’amore di Dio, della sollecitudine della Chiesa.

Ci si dovrebbe rendere conto di come tale mentalità non sia solo pastoralmente controproducente ma, soprattutto, rischi di svalutare la teologia dell’incarnazione e il movimento inclusivo di un Dio che, in Cristo, si è fatto “cultura”.

Il veleno del risentimento ha effetti nocivi innanzitutto su chi lo sparge. È lui la prima vittima. È la sua stessa esistenza a perdere calore e colore. Non emana più quella forza di attrazione che da sempre è la vera porta d’ingresso nel campo del religioso. Si percepisce che una religione senza gioia induce a pensare che la vera gioia sia proprio senza la religione.

Il cristianesimo ha perso oggi tante certezze e immense sicurezze. Ma forse la perdita più grande è il venire meno, da parte degli stessi credenti, della sicurezza “culturale” di aver fatto la scelta di vita buona, che rende felici in ordine al compimento della propria esistenza. Ciascuno oggi deve rispondere da sé alla scelta di restare cristiano e di continuare a frequentare la vita della comunità.

Cambio di mentalità catechistica-pastorale

È urgente perciò passare da un cristianesimo che risponde ad una domanda di consolazione che nessuno gli pone più ad un cristianesimo che permetta a chiunque di incrociarsi con Gesù, vivere di lui ed essere così all’altezza della parte migliore di sé. È Cristo Gesù la porta d’accesso e il punto di innesco di quell’umanesimo integrale di cui oggi il mondo ha tanto bisogno.

Pertanto nei nostri lavori abbiamo provato a uscire da ogni forma di risentimento, stare sulla porta aperta nel cielo (cf. Ap 4,1) per vivere e aiutare a vivere da donne e uomini adulti che si confrontano, immaginano, cercano, individuano criteri e passi per portare oggi la novità del Vangelo.

Per non lasciare troppo spazio all’improvvisazione, alle sensazioni o allo scontato, abbiamo pensato ad un minimo di struttura perché ciò che abbiamo scritto serva a noi e poi sia di modellamento e di proposta per annunciatori e catechisti, operatori pastorali, équipes diocesane/zonali o consigli pastorali.

Concretamente

Dopo l’introduzione alla modalità di lavoro scelta, siamo entrati attraverso la porta della Bibbia (cf. Ap. 4,1-8) nella possibilità di avere una visione.

Abbiamo poi cercato di attivare la nostra stessa vita e la vita di coloro che camminano con noi in questo tempo attraverso l’ascoltare, il toccare, il vedere, il parlare (cf. 1Gv 1,1-4).

Per ogni verbo sono stati proposti spunti di riflessione, arricchiti dagli interventi di tutti i partecipanti. Il quarto capitolo dell’Apocalisse ci ha accompagnato giorno per giorno nel lavoro in piccoli gruppi su quattro attenzioni formative che i “quattro esseri viventi” (Ap 4,6-7) ci hanno aiutato a tenere presenti.

I contributi di ogni gruppo sono stati condivisi e riassunti in quattro schede che raccolgono suggerimenti per un gruppo formativo.

A conclusione, quattro brevi narrazioni riesprimono, per ogni verbo, il percorso fatto e indicano piste di lavoro che possono essere un valido aiuto. Quella che offriamo è una “proposta-risorsa” che invita alla creatività, immaginandoci operatori di comunità che sanno rinnovare l’annuncio.

Auguriamo ora alle équipes diocesane, vicariali o parrocchiali e ai consigli pastorali di vivere con entusiasmo un fecondo processo di rinnovamento.


[1] R. Paganelli (a cura), Immagina, puoi! Una porta aperta nel cielo, Edizioni la Meridiana, Molfetta (Ba), 2021.

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