Una delle situazioni più frustranti nella vita di una Chiesa locale o di una parrocchia è quella nella quale un lungo percorso comunitario di riflessione e di confronto, per il quale si sono spese molte energie, non produce alcun cambiamento effettivo sul piano della prassi pastorale. La storia di ogni comunità, anche della nostra diocesi, è costellata di episodi di questo genere. Si pensi, ad esempio, a quante volte si è riflettuto su questioni come la riduzione del numero delle messe o la riqualificazione del ministero dei presbiteri senza poi riuscire ad incidere in modo significativo sull’effettivo funzionamento delle cose.
La ragione per la quale un percorso ecclesiale di riflessione e di confronto non porta frutto sono evidentemente molteplici. Mi pare però che una di queste cause, forse la più rilevante, sia data dalla convinzione, più o meno consapevole, secondo cui delle buone idee, discusse in un dibattito aperto ed eventualmente seguite da una serie di norme giuridiche promulgate dall’autorità competente, sono sufficienti per determinare un cambiamento nella prassi pastorale. Del resto, la tradizione pastorale della Chiesa si è sempre fondata sulla teologia e sul diritto, cioè sulle idee e sulle norme che ne devono tutelare l’attuazione.
La cultura in cui viviamo, tuttavia, con la sua disillusione nei confronti del potere delle idee e la sua forte attenzione al modo in cui le cose funzionano, ci aiuta a comprendere che questo approccio è insufficiente per produrre dei cambiamenti nel tessuto ecclesiale. Le idee teologiche, anche quando sono esposte da esperti in materia in modo argomentato e convincente, e sono oggetto di un successivo dibattito chiarificatore, non sono sufficienti per cambiare la prassi pastorale, neppure quando la loro attuazione viene tutelata da norme giuridiche.
Per convincersi di questa posizione, basta pensare a quello che effettivamente succede nell’animo dei partecipanti ad un percorso teologico-pastorale volto ad affrontare questioni specifiche. Qualcuno potrebbe non capire del tutto quello che viene detto, qualcun altro potrebbe non condividere le conclusioni operative a cui si arriva senza però manifestarlo pubblicamente per paura o per disinteresse e, infine, altri ancora potrebbero ritenere che le opzioni pastorali conclusive sono in sé corrette ma risultano impraticabili nella concreta situazione della loro comunità. In tutti questi casi non si metterà in pratica quello che è stato deciso.
È dunque necessario non solo mettere in campo delle idee, ma anche accompagnare il loro “cammino” nel vissuto delle comunità cristiane. Occorre cioè attivare dei processi pastorali, cioè dei percorsi nei quali tra l’istanza che propone il cambiamento (il vescovo, il consiglio presbiterale, il parroco ecc.) e coloro che sono chiamati a realizzarlo si instaura una continua interazione, grazie alla quale i primi sono continuamente stimolati a ripensare la propria proposta teorica a partire dalle sollecitazioni e dai problemi che emergono dalla prassi, mentre i secondi sono effettivamente supervisionati, cioè accompagnati nel superamento delle difficoltà e impediti di prendere la strada dell’autoreferenzialità.
Purtroppo la consapevolezza di dover strutturare percorsi del genere non appartiene granché al sentire del nostro mondo ecclesiale, fatta eccezione forse per alcuni contesti egualitari come le associazioni laicali. Siamo più abituati a puntare sulle idee teologiche, eventualmente corredate da alcune norme giuridiche, anche se già da molto tempo la fatica di questa impostazione a rispondere ai problemi concreti della vita pastorale ha orientato a cercarne la soluzione in approcci più pragmatici.
In effetti, se si mette in rapporto diretto la riflessione teologica (compresa la teologia pastorale) con la prassi pastorale, come se la prima dovesse indicare il da farsi e la seconda dovesse solo metterlo in pratica, e non si attivano invece dei processi con cui si instaura una continua interazione tra riflessione teorica e prassi, le cose difficilmente potranno cambiare.
Per questo nella Chiesa il compito della guida pastorale appartiene ai pastori e non ai teologi. Questi ultimi sono chiamati a mettere in campo delle idee ben fondate e convincenti al fine di far riflettere. I primi, invece, devono valutare e selezionare le idee proposte dalla riflessione teologica, ma soprattutto accompagnare la loro attuazione nell’azione pastorale grazie ad una continua interazione con le persone della propria comunità. Ecco perché il ministero pastorale richiede di dedicare proprio a queste persone molto, molto tempo.
Pace e bene, fratelli….
Leggo molto volentieri ciò che ‘compare’ sulle problematiche unità pastorali e affini….
Ci sono articoli che parlano dei compensi per gli animatori della pastorale? O si punta ancora tutto sul volontariato?
Grazie.