Il 29 settembre, nel corso dell’assemblea pastorale diocesana, Mariano Crociata, vescovo di Latina, ha presentato la nuova lettera pastorale ispirata alla figura di Elia: «“Per la vita del Signore… alla cui presenza io sto”. Desiderio di spiritualità» (qui). La coltivazione del desiderio dell’interiorità giunge a comprendere il primato assoluto di Dio. Riprendiamo qui, quasi per intero, la presentazione che il vescovo ne ha fatto.
In questo clima che invita a meditare, il mio compito può essere solo quello di indicare il filo rosso che unisce quanto ci accingiamo a intraprendere e a svolgere nel corso di quest’anno, che troverete condensato nella lettera pastorale che avrete stasera tra le mani e che ha come titolo lo stesso che vedete campeggiare nel manifesto che riproduce l’immagine-icona di quest’anno, Elia nel deserto: “Per la vita del Signore… alla cui presenza io sto”.
Perché la scelta della figura di Elia? E prima ancora, perché la scelta del tema della spiritualità, indicato nel sottotitolo della lettera: “Desiderio di spiritualità”?
Forse proprio il sottotitolo aiuta a rispondere anche alla prima domanda. Desiderio è qualcosa di diverso dal bisogno. Bisogno indica qualcosa di necessitato, di cui non si può fare a meno e che comunque si impone. Anche il desiderio si può riferire a qualcosa di estremamente, vitalmente importante. E tuttavia la sua caratteristica distintiva rispetto al bisogno è che esso deve essere avvertito, riconosciuto, accolto e assecondato.
Spesso l’uomo soffre per il mancato riconoscimento di qualcosa che preme dentro ma non viene identificato come un desiderio che vuole farsi strada. Il bisogno di Dio – perché di Dio non possiamo fare a meno – ha l’esigenza di essere riconosciuto e di trasformarsi in desiderio, cioè in un movimento interiore di tensione e di attrazione verso l’oggetto e il termine di cui avverte il presentimento e coglie l’anticipazione, perché lì si incontrerà con il compimento agognato di vera felicità.
Coltivare il desiderio
Il desiderio di Dio, o il desiderio di spiritualità, è ciò che sta al fondo del nostro cuore, perché siamo stati creati da lui e per lui. La vita di oggi e la cultura di questa nostra epoca ci stanno portando sempre più lontano da lui e perciò il desiderio rischia di rimanere seppellito o soffocato sotto una quantità inverosimile di occupazioni e di distrazioni.
Se c’è qualcosa da cui sorge la scelta della spiritualità, come tema all’attenzione privilegiata di quest’anno pastorale, è la sensazione che stiamo smarrendo il centro, la cosa più importante per cui siamo ciò che siamo e facciamo ciò che facciamo.
Il pericolo più grande di oggi è proprio questo: perdere il senso di ciò che siamo e di ciò che facciamo; fare le cose, tante cose, troppe cose, freneticamente e senza respiro, per accorgersi alla fine di non sapere perché.
Ciò che noi possiamo sentire proprio nel bel mezzo del nostro agire ecclesiale rispecchia ciò che vive l’uomo di oggi. Perché l’esigenza profonda di un orientamento, di un senso che faccia sentire di essere al posto giusto, di essere davvero contemporanei di sé stessi (e non sognatori di un tempo che fu o di un tempo che potrebbe essere), l’esigenza di sapere che c’è una meta dinanzi a noi e che merita tutto il nostro impegno e la dedizione di oggi, questo è qualcosa che tocca tutti, credenti e non credenti, cristiani e non cristiani.
In particolare la tecnica, con i suoi dispositivi digitali, ci fa diventare sempre di più come ingranaggi di meccanismi anonimi che devono essere sempre più efficienti e produttivi, senza sapere perché e a quale scopo.
La spiritualità è un’esigenza innanzitutto profondamente umana, perché va in cerca di consapevolezza e di responsabilità, di relazione e di comunione con ciò o con chi sta a fondamento del proprio essere e del proprio vivere. E oggi è sempre più difficile coltivare questa attenzione.
Tornare all’essenziale
Noi per primi, tocchiamo con mano il vuoto e lo smarrimento che ci minaccia, mentre comprendiamo che dovremmo essere i campioni e i testimoni del primato dell’assoluto di Dio, di Cristo come centro e ragione della nostra vita.
Se non siamo noi, chi può abbracciare, coltivare e testimoniare la certezza della presenza di Dio, il pensiero costante di lui, l’amore per tutto ciò che lo riguarda, il desiderio della sua volontà e del suo progetto di bene per me e per l’umanità intera?
Chi può dire con san Paolo: «e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato sé stesso per me» (Gal 2,20)?
Ma proprio questo rappresenta il modello e l’ideale di una coscienza autenticamente cristiana. Questo modello e ideale è l’unico motivo per cui facciamo tutte le cose che impegnano la nostra vita di Chiesa e di parrocchia: diventare una cosa sola con Cristo e in Cristo, e per lui con il Padre nello Spirito.
Allora, non dedichiamo un anno in modo speciale alla spiritualità tanto per scegliere un tema tra altri, sia pure di grande importanza, ma perché abbiamo coscienza che c’è una urgenza e un pericolo, il pericolo di perdere di vista l’essenziale e l’urgenza di ritrovare il motivo e lo scopo di tutto il nostro agire ecclesiale, nella catechesi e nella formazione cristiana, nella liturgia e nella preghiera, nella carità e in ogni altra attività: incontrare Cristo, aderire a lui, vivere con lui e per lui.
Perché la cosa incredibile, ma non per questo insolita e rara, che ci può capitare è che proprio le azioni sacre e le iniziative pastorali esauriscano in sé stesse il loro senso, e appaghino chi le fa senza lo sforzo di andare oltre, in una abitudine che diventa assuefazione al sacro, dimentichi che esso contiene un fuoco di cui non riconosciamo né percepiamo più il calore, perché abbiamo perso di vista la fiamma che lo ha acceso e che ha sprigionato l’incendio.
Tutto è a servizio di questo, ma non solo perché se ne parla e lo si tira in ballo continuamente, ma perché lo si sente e lo si vive intimamente: nel profondo della coscienza personale, nella motivazione delle scelte di ciascuno, nel sostrato di ogni attività sia individuale che comunitaria.
La forza della fede
Dobbiamo sapere che la nostra epoca così secolarizzata e a volte dissacrata, che contiene pure tanto bene e tante cose buone, e pure tante persone buone e generose, non ci aiuta in questo, e anzi rischia di portarci a pensare che, in fondo, non hanno tutta l’importanza sbandierata: la convinzione della fede, la forza interiore dell’amore, la relazione personale con il Signore, la preghiera e il dialogo con lui, il desiderio della comunione e dell’unione con lui, l’aspirazione all’incontro con lui non solo in questa vita ma anche e soprattutto dopo questa vita.
La denuncia che viene da diverse parti, che stigmatizza l’irrilevanza dei cristiani in generale e l’impossibilità, con questo andazzo, di recuperare un’immagine vera e viva della Chiesa, dipende dal fatto che la fede non parla più a giovani e adulti, a uomini e donne di oggi, e questo a sua volta si deve anche – sebbene non solo – alla circostanza che per gli stessi credenti essa ha smarrito, o almeno ha visto banalizzare, la sua intima forza per mancanza di convinta adesione e di coerenza esistenziale.
Siamo molto occupati in cose sacre, ma il loro contenuto spirituale profondo non si coglie più.
Quest’anno non dobbiamo avere altra aspirazione che questa, allora: recuperare il senso spirituale di ciò che siamo e di ciò che facciamo come singoli credenti e come Chiesa.
La scelta della figura di Elia risponde perfettamente a questa esigenza perché, seppure descritto in maniera molto essenziale e discontinua nei pochi capitoli che la Scrittura gli dedica, di lui percepiamo proprio questo essere totalmente centrato e assorbito da Dio, dalla sua chiamata, dall’esigenza di corrispondere alla sua volontà e alla missione che egli gli ha affidato. Un uomo totalmente pieno di Dio, che vive ogni attimo come se fosse sempre a tu per tu con Dio.
Un uomo che conosce non solo la persecuzione e il pericolo per la propria vita, ma anche lo scoraggiamento, l’esperienza e il senso del fallimento, e perfino l’inganno di credersi solo a difendere Dio. E tuttavia egli, dalla prova, riemerge ancora più forte di prima, perché nutrito della chiamata, della parola, del nutrimento che Dio stesso gli fa giungere.
Il carro di fuoco
Elia è un uomo che cerca Dio, ma che, nel momento della prova, sperimenta di essere lui cercato da Dio; ed egli si lascia cercare da Dio, si lascia sostenere e aiutare a rimettersi in piedi e a riprendere il cammino.
Per fare cosa? Per prepararsi a passare ad altri il testimone, a lasciare ad altri la continuazione della sua missione, accettando semplicemente di concludere, di finire e di ritirarsi, perché comprende, alla fine, che è Dio a condurre la sua opera e a scegliersi e formarsi i suoi fedeli.
Per questa fedeltà ad oltranza e per questa libertà interiore Elia finirà con l’essere rapito verso il cielo su un carro di fuoco.
Come non pensare a noi, a tutte le volte in cui riteniamo che tutto dipenda da noi e ci crediamo magari i padroni della Chiesa e della sua missione?
Siamo modesti servitori di passaggio. Facciamo bene la nostra parte, preoccupandoci solo di far emergere il primato e la centralità di Dio e del suo Cristo. E scoprendo la bellezza di quella libertà interiore che viene dalla fede pura in Dio, dall’amore totale per lui, dalla comunione perfetta con il Cristo e il suo corpo che è la Chiesa, nello stile di Elia profeta.
Che dire… Conosco molte persone che almeno apparentemente sono lontane da ogni forma di spiritualità e che sono molto migliori dei tanti credenti che mi è toccato incrociare durante la vita. La retorica della necessità di spiritualità a tutti i costi secondo me non tiene sempre. Serve umanità a tutti i costi cosa che no è per forza collegata ad una spiritualità legata al trascendente.
Questo è l’autentico fondamento del realismo cristiano e di ogni buona opera.
Verrebbe da dire – con una trita e ritrita frase di de Saint-Exupéry – che “l’essenziale è invisibile agli occhi”.